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Cercando che i morti non siano morti

La notizia
Un mese di funerali fantasma per i dispersi delle Torri'.
''La Repubblica'' di giovedì 11 ottobre 2001

Il commento
Stretti da angosce terribili in questa crisi planetaria, tormentati dall'ansia di tutto quanto può ancora accadere, facciamo fatica sia a distogliere lo sguardo da questi avvenimenti, sia a fermarci un attimo su quanto è già accaduto, su quella realtà fatta di singole storie spezzate, di piccole quotidianità ineluttabilmente segnate dalla morte.

Ma questa notizia richiama con una certa imperiosità la nostra attenzione proprio su quell'universo sofferente e multiforme che è già stato buttato inesorabilmente dentro la Storia.

Ci sono migliaia di persone che non potranno mai più rivedere, non solo in vita, ma neanche in morte, coloro a cui erano legati da una storia comune: mariti, mogli, figli, fratelli, padri, madri, amici… Questo, ci dicono, rende la perdita ancora più ingiusta e assurda, ancora più intollerabile.

Si istituisce inaspettatamente un distinguo, non tanto all'interno del morire come evento fisico, che ovviamente è comune a tutti, quanto sui modi e sulle risultanti della morte.

Il distinguo, in realtà, riguarda i vivi e non i morti. In un tentativo di ordinare la marea di emozioni, i vivi sembrano stilare tristi graduatorie: si sentono più fortunati o più sfortunati a seconda se hanno potuto riavere "qualcosa" del proprio caro o se invece lo devono per sempre abbandonare nella grande fossa comune delle Twin Towers.

La rinuncia definitiva ai "resti" sembra essere l'inaccettabile. Ognuno cerca con i propri strumenti di affrontarla e allora avviene un fenomeno che colpisce perché si riproduce mille e mille volte: ogni nucleo familiare cerca di far riferimento a quella ritualità dell'accompagnamento del defunto verso l'ultimo viaggio, che la tradizione ci offre come momento sociale di conforto. Si celebrano innumerevoli funerali, ma questa volta la persona non c'è più neanche nel corpo: è questo nulla l'impensabile con cui confrontarsi.

Ma se confidiamo nel fatto che tentare di dare un senso, un significato emotivamente plausibile, a ciò che accade fuori e dentro di noi può renderci più tollerabile il peso dell'umana fatica, forse anche di fronte a queste esperienze, vale la pena di chiederci come mai l'impossibilità di recuperare i resti mortali di una persona a noi cara apra spazi di irrealtà e di dolore più ampi e acuti di quelli già sconfinati propri di coloro che le salme le possono piangere.

La morte, tutte le volte che la incontriamo, ci interroga sulla vita.

La morte è quella degli altri, la vita la nostra. Ma è una pura astrazione di comodo pensare alla nostra esistenza come una realtà a se stante, isolata e non intersecata da una rete fitta di altre storie: se ogni nuova intersezione è un potenziale arricchimento che ci viene offerto, una articolazione in più, ogni taglio è una perdita che ci costringe a rivedere profondamente l'intreccio.

Nei primi momenti il dolore è quasi follia: si vorrebbe cancellare l'incancellabile, chiamare chi non può più rispondere, sentire il contatto che ci è sfuggito per sempre, vedere il guizzo vitale di quegli occhi che non ci sorrideranno… E ci sentiamo in colpa per il nostro vivere, ci sembra di rubare qualcosa che è di proprietà altrui, vorremmo morire con i nostri morti.

In fondo l'amore e il dolore sono a ben guardare le esperienze che più accomunano gli uomini, e come dice Croce: "con l'esprimere il dolore nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio, rendendolo oggettivo. Così cercando che i morti non siano morti, cominciamo effettivamente a farli morire in noi. Né diversamente accade nell'altro modo col quale ci proponiamo di farli vivere ancora, che è continuare l'opera a cui essi lavoravano, e che è rimasta interrotta."

Una prima riflessione, nella ricerca di possibili spiegazioni del fatto, per altro comunemente condiviso, che la mancanza del corpo da piangere renda l'esperienza della perdita ancora più drammatica, risale necessariamente all'indietro, fino agli esordi della vita.

Il neonato intensamente succhia, attività primitiva e riflessa che contemporaneamente gli garantisce la vita e la conoscenza del mondo.

Quest'atto di incorporazione primigenio risulterà, così, fondante il nostro mondo emotivo; un desiderio ardente di possedere qualcosa che sta al di fuori di noi, da cui sembra dipendere la nostra vita, comparirà costantemente al nostro orizzonte e con forza connoterà, per esempio, le esperienze amorose della vita adulta.

Però, questo intenso desiderio di possedere, di incorporare in sé ogni oggetto sentito come necessario alla sopravvivenza, è direttamente legato alla paura della perdita e in una reazione umana universale possiamo cogliere questa profonda connessione: quando siamo di nuovo di fronte ad una persona (o cosa) riottenuta dopo una separazione l' azione riflessa dell'abbracciare, dell'aggrapparsi, dello stringere a noi, mostra chiaramente il nostro desiderio di incorporare quello che è stato-e perciò potrebbe essere di nuovo- perduto.

Paura e desiderio sono infatti indissolubilmente legati, appartengono alla stessa esperienza, sono due aspetti della stessa emozione. Il timore della frustrazione, della totale deprivazione dell'appagamento ci espone ad angosce di annichilimento, e nelle situazioni di lutto siamo chiamati ad evitare la perdita più irreparabile e decisiva: quella di noi stessi.

Possiamo allora ipotizzare che riabbracciare, rivedere, toccare, anche se davvero per l'ultima volta,

il corpo della persona che ci ha lasciato, un poco ci aiuti a intraprendere la dolorosa fatica della separazione.

Il rischio di non oltrepassare l'esperienza, di restare fissati e polarizzati in essa, prigionieri di immaginazioni parassitarie, rende improrogabile il lavoro del lutto, cioè quel dinamismo di affetti e di pensieri che ci permette di far spazio dentro di noi, nel nostro mondo interno, al valore di quel legame a cui abbiamo dovuto rinunciare in senso interpersonale. Solo così il distacco e la perdita possono diventare anche un'opzione per la vita.

"Coloro che conoscono i fantasmi ci dicono che anelano a essere liberati dalla loro vita di fantasmi e condotti a riposare come antenati. Come antenati continueranno a vivere nella generazione presente, mentre come fantasmi sono costretti ad ossessionarla con la loro vita di ombre".(Hans Loewald)

Ma come possiamo essere aiutati a concedere il riposo ai nostri fantasmi? Evidentemente dobbiamo essere capaci di separazione, dobbiamo poter passare da un'esperienza di dipendenza affettiva ad una di autonomia. E forse anche da questa angolatura può risultare significativa la presenza tangibile del corpo.

Se abbiamo potuto imparare a riconoscerci negli altri senza il terrore di rimanerne confusi e imprigionati, se abbiamo potuto accedere alla nostra creatività, se abbiamo potuto giocare con le idee tanto da partecipare con godimento ad una comune esperienza culturale, di tutto ciò dobbiamo riconoscenza a quelle innumerevoli, semplici esperienze di contatto, di intense sintonie emotive in cui mamma e figlio, insieme, sperimentavano giocosamente il paradosso: stiamo bene separati - è impossibile separarci. Queste esperienze di confine in cui non bisognava forzatamente sciogliere l'enigma del punto esatto dove finisce il Me e inizia il Non-Me sono state fondamentali per i nostri equilibri psichici, e allora perché non immaginare che ancora possano venirci in soccorso quando siamo chiamati ad esperienze così squassanti?

Se ancora per un poco possiamo vivere in uno spazio potenziale dove non è urgente aderire all' inesorabile Principio di Realtà, che senza pudore e reticenze ci dichiara l'irrimediabilità dell'accaduto, se possiamo concederci una gradualità che sia più rispettosa della delicatezza delle emozioni coinvolte, se possiamo vivere un'illusione di presenza senza sentirci folli, ci proteggiamo da un eccesso di realtà accecante: per un po' ancora, però, abbiamo bisogno di un corpo, di una prova tangibile che qualcosa è rimasto e che ci concede di essere "sacralizzato".

Abbiamo bisogno di tempo, non per negare, ma per elaborare, per separarci a poco a poco da qualcosa, anzi qualcuno, che ci è appartenuto, a cui siamo appartenuti profondamente. Dobbiamo poter avere il modo di riappropriarci di ciò che di nostro gli avevamo affidato.

Vi è forse ancora almeno un aspetto che possiamo prendere in considerazione: nessun vivo sa davvero qualcosa dell'esperienza della morte. La si fa una volta sola e non c'è quindi possibilità di confrontarsi.

Ognuno, per quanto ci abbia pensato, la affronta comunque impreparato.

In effetti, per sedare il timore che sia una terribile esperienza, può solo contare su un ben misero bagaglio di supposizioni costruite "spiando", addolorato e spaventato, l'ultimo attimo degli altri. Risulta così essere di conforto potersi dire: "guarda che espressione serena, sembra che dorma…". Ma con quale livello di falsificazione possiamo tentare un pensiero del genere per le vittime della ferocia e dell'insensatezza umana? E' improponibile. Allora ecco che quei corpi profanati, smembrati, mischiati al ferro e al cemento, non più riconoscibili come umani, urlano un'altra dolorosa verità: non sappiamo nulla della morte, è un segreto che i morti custodiscono, dobbiamo affrontare davvero l'ignoto. Tutto è così ancora più tragico.

Il disinganno della guerra

La notizia
Afghanistan sotto attacco.
''La Repubblica'' di luned' 8 ottobre 2001

Il commento
Alle 18 e 15 di domenica 7 ottobre '01 l'inevitabile guerra comincia. A fronte di un conflitto bellico che aveva preso un'impronta di ineluttabilità già poche ore dopo l'attacco terrorista agli USA del 11 settembre scorso credo che poche siano le parole dicibili e molti gli stati d'animo di cordoglio per i morti e per coloro che non sono terroristi ma ignari ed inermi abitanti della nazione afgana.

Così mi viene in mente che, nel 1915 Sigmund Freud scrisse proprio in concomitanza di una guerra "Considerazioni attuali sulla guerra e la morte", un breve saggio che forse per alcuni può sembrare senz'altro superato ma per il sottoscritto rimane pur sempre un capitolo con preziose intuizioni. Qui di seguito vorrei citare i passi, credo, più aderenti a questo momento storico.

"Il disinganno della guerra"
"Afferrati dal gorgo di quest'epoca di guerra, disorientati da informazioni unilaterali, senza poterci distanziare dai grandi mutamenti che gia si sono verificati o si stanno verificando, e privi di ogni sentore circa le caratteristiche dell'avvenire che si sta profilando, non sappiamo più cogliere il giusto significato delle impressioni che urgono su di noi, né l'esatto valore dei giudizi che pure esprimiamo"

"Si è più volte detto che le guerre non cesseranno finché i popoli vivranno in condizioni così diverse, finché così divergente risulterà il loro apprezzamento della vita individuale, e finché gli odi che li dividono incarneranno così potenti forze psichiche. Si era dunque preparati al fatto che le guerre tra i popoli civilizzati e quelli primitivi, tra le razze umane contrapposte dal colore della pelle, tenessero per molto tempo ancora occupata l'umanità. Tuttavia, altra era la speranza cui osavano ancora affidarci. Dalle grandi potenze mondiali di razza bianca alle quali è toccata la guida del genere umano, che si sapevano dedite alla cura di interessi di rilevanza mondiale e che hanno partorito i progressi tecnici per il dominio della natura oltre che i valori della cultura artistica e scientifica: almeno da questi popoli era lecito attendersi che sapessero decidere i loro contrasti e i loro conflitti di interesse per altra via"


Freud da una spiegazione secondo la teoria pulsionale di come l'uomo sia costituito di moti pulsionali di natura elementare, simili in tutti e orientati alla soddisfazione di determinati bisogni originari. Tali moti e le loro manifestazioni vengono classificati in rapporto alle esigenze della comunità umana e si connotano così in coppie di opposti. "Bene" e "male" possono convivere nello stesso tempo e forse la guerra ci fa perdere di vista questo aspetto, è così che il "nemico", lo "straniero" viene connotato come il "cattivo". Netta separazione del bene dal male, che pericolosamente viene riproposta da molti, e rischia di andare ad alimentare proprio questo bisogno di scindere.

Freud, prima di parlare della morte, conclude in questo modo:

"Per la verità, noi avevamo sperato che la grande comunità degli interessi, instaurata dagli scambi commerciali e dalla produzione, potesse rappresentare l'inizio di una tale costrizione, ma sembra che i popoli ubbidiscano per ora molto più alle loro passioni che ai loro interessi. Tutt'al più si servono degli interessi per razionalizzare le passioni; prendono a prestito gli interessi per poter legittimare il soddisfacimento delle loro passioni. Perché poi i popoli e le nazioni si disprezzino, si odino, si detestino reciprocamente - e, per la verità, anche in tempo di pace - è davvero un mistero. Io non so veramente che dire. E' come se, allorché una massa o addirittura milioni di uomini si riuniscono, tutte le conquiste morali dei singoli venissero cancellate, sicché rimangono solo gli atteggiamenti psichici più primitivi, più antichi e rozzi. Forse soltanto in più avanzati stadi dell'evoluzione, si potrà cambiare in qualche modo questo deplorevole stato di cose. Tuttavia, un po' di sincerità e franchezza da parte di tutti, nei rapporti degli uomini tra loro e con i governanti, potrebbe aprire la strada anche a questa trasformazione".

Scuola magistra vitae?

La notizia
Scuola, primo giorno tra le ansie da G8 e i venti di guerra. Il ritorno tra i banchi dopo l'estate più difficile. I consigli del poeta docente prof. Sanguineti: ''Cari professori, fate uscire l'angoscia dei ragazzi''. Ora la ''Diaz'' chiede silenzio, ma i suoi muri parlano ancora.
''La Repubblica'' del 18 settembre 2001

Il commento
Nell'accingermi a commentare questa settimana un fatto di cronaca, mi è sembrato da un lato impossibile non Questi, con molti altri ancora, alcuni titoli apparsi sui quotidiani di questa settimana, per raccontare e commentare che nell'arco di una decina di giorni, con date diverse per ogni realtà, ha dunque preso il via un nuovo anno scolastico.

Però, articoli e commenti non sono stati questa volta i soliti ritornelli degli altri anni, rivolti a mettere in luce novità, aspetti organizzativi, disfunzioni, risse sindacali, tutto un insieme di attese o di delusioni intrinseche al mondo scolastico stesso: i tragici avvenimenti internazionali di questa estate 2001 hanno fatto come da filtro alla lettura del rientro a scuola, dando lo spunto, particolarmente a Genova, sede del ben noto G8, per riflettere sul mondo giovanile e sull'istituzione scuola, che tanto investimento di tempo ed esperienza rappresenta per i ragazzi.

Ho avuto l'impressione che la portata e la gravità di quanto accaduto sia stata tale da costringere il mondo adulto delle istituzioni e dei mass media a pensare che, questa volta, non è possibile sorvolare, fare finta di niente, non parlare con bambini, ragazzi, giovani, di quanto è appena accaduto in Italia e negli Stati Uniti e di quanto, probabilmente, ancora deve accadere, impossibile non fare i conti con lo stupore, lo spavento, l'angoscia che senz'altro c'è e ci sarà nei loro sguardi e nelle loro domande.

Mi è sembrato cioè che, contrariamente al solito, sia emersa la necessità che nel pianeta scuola si debba dare spazio al mondo delle emozioni e dell'affettività, il ruolo della quale impregna e condiziona tutto ciò che nella scuola si compie ogni giorno, da come si insegna, si studia, si vivono le relazioni; la scuola è un grande contenitore di esperienze emotive, individuali, di gruppo, di incontro tra generazioni diverse, ma quasi mai tutte queste dinamiche, così fondamentali per permettere di studiare e di stare bene a scuola, diventano oggetto di riflessione.

Quest'autunno, invece, appare proprio impossibile, persino al Ministro della Pubblica Istruzione (La Stampa, 18 settembre 2001: "Studenti, non chiudetevi in voi, parlate in classe del terrorismo" riferisce del messaggio inviato dal Ministro via Internet a tutti gli studenti italiani) dimenticare che gli aspetti emotivi dell'individuo, fatti emergere e messi in gioco, possono dare colore e vita ad un ambiente quasi sempre vissuto in bianco nero e con noia.

Il complesso scolastico di Genova che tutti i giornali nazionali chiamano "la scuola Diaz" è formata in realtà da più edifici che ospitano una scuola materna, una elementare, una media e una superiore, perciò le immagini di aule devastate, palestra imbrattata, strade piene di poliziotti e giovani portati via sanguinanti…sono diventate la rappresentazione simbolica di altre aule, palestre, strade per bambini e ragazzi dai tre ai diciannove anni, che hanno senz'altro provato reazioni di ogni tipo, dalla curiosità alla paura, al desiderio di non sapere o invece, al contrario, di capire, pur con maturità emotiva e capacità di comprendere evidentemente diverse.

Farsi domande ed apprendere è una delle attività più naturalmente connesse all'animo umano, per uscire dalla confusione e dalla sofferenza provocate dall'impatto con la realtà esterna, dinamica che si attua fin dai primi giorni di vita dell'individuo, quando matura la capacità stessa di pensare. Questa è sempre condizionata dal contesto dell'area relazionale, cioè, per esempio, dalle sensazioni che il neonato vive rispetto all'essere accolto, contenuto, amato; da allora in poi sfera affettiva e sfera cognitiva si integrano e vanno di pari passo nello sviluppo dell'individuo.

Infatti, come R. Meltzer afferma (Meltzer - Harris Il ruolo educativo della famiglia, Centro Scientifico Editore) "…l'apprendimento comporta la partecipazione ad una esperienza emotiva tale da indurre un cambiamento nella struttura della personalità…", perciò è come se l'individuo "diventasse" qualcosa che prima non era, nel senso che imparare qualcosa colora ciò che egli è, pensa, decide, fa. Tutti noi viviamo la nostra esistenza a seconda di quanto abbiamo appreso, a partire dai riferimenti e dai valori familiari, a quelli sociali, culturali, etici, religiosi.

Ogni esperienza cognitiva è un processo che fa entrare nella mente degli elementi nuovi ai quali bisogna trovare spazio e connessioni con quanto già presente, che va rivisitato alla luce delle nuove conoscenze: in un certo senso, ci vuole del coraggio per imparare ( e probabilmente anche per insegnare, cioè per accompagnare chi affronta questo difficile percorso di continua rimessa in discussione di sé!).

Imparare vuole dire quindi anche reggere l'ansia di coesione e di continuità del proprio io di fronte alla necessità di integrare le nuove conoscenze, di effettuare una ristrutturazione mentale interna, mentre il mondo delle pulsioni, dei desideri e delle difese alimenta e condiziona questo processo, in un certo senso le rifiuta, per non fare la fatica di rimettere in discussione l'equilibrio già acquisito.

Giustamente perciò, mi sembra, il poeta Sanguineti in questo esordio di anno scolastico esorta gli insegnanti "a far sì che i ragazzi parlino" per fare uscire la loro angoscia, pongano domande, confrontino le loro opinioni con quelle degli adulti, trovino riferimenti culturali da più punti di vista, per arrivare ad una loro strada personale, se non di comprensione almeno di accettazione, visto che capire davvero è in questo caso così difficile anche per noi adulti, che dobbiamo accompagnarli in questo percorso. Importante è che l'ansia e l'angoscia non restino dentro, come ad "intasare" in un certo senso il flusso della capacità di comprendere, di accettare, di pensare.

Possiamo immaginare che alla luce di questi gravi avvenimenti mondiali, con la minaccia di atti di guerra contro un nemico che appare soprattutto come indefinito ed invisibile, la mente dei ragazzi possa essere già, in un certo senso, satura delle emozioni derivate da quelle immagini terribili, così troppo simili ad un videogioco, a tal punto che, davvero, se non si consente loro di esprimersi, di raccontarsi rispetto a quanto ascoltato e visto sulle torri di New York, o sui giorni del G8, non ci sarà modo poi di avviare un lavoro legato ai programmi scolastici, perché il divario emotivo tra le due esperienze rimarrà enorme.

Ancora di più allora stride quanto ci racconta un altro articolo: "Arrivano con tre minuti di ritardo, fuori il primo giorno" (La Repubblica 18/9/01): un preside ha scelto la "linea dura" fin dal primo giorno, chiudendo i cancelli di ingresso con la massima puntualità, stessa intransigenza su regole ed orari che comunque sembra attuata in molti altri istituti... immaginiamo quale sensazione di accoglienza, comprensione, collaborazione, possa essere stata veicolata da un cancello inesorabilmente chiuso, il primo giorno di scuola!

Nella nostra società i bambini e i ragazzi dai tre anni ai diciannove anni passano molto tempo a scuola per nove mesi l'anno, un tempo enorme, sul piano della quotidianità e dell'arco di vita, almeno della giovinezza. Eppure, si ha spesso la sensazione che sia un tempo sprecato: dal punto di vista cognitivo, perché le verifiche delle agenzie di statistica rilevano una sempre più vasta maggioranza di studenti "ignoranti", dal punto di vista relazionale perché sempre più spesso accadono nei luoghi scolastici episodi di malcostume e di violenza, infine dal punto di vista affettivo perché studenti ed operatori scolastici dichiarano malessere, frustrazione, insoddisfazione a tutti i livelli.

E i giovani aggiungono che i loro interessi stanno altrove, che le emozioni arrivano da altri stimoli, che parlano, forse, ma certamente quasi mai con insegnanti o con adulti di riferimento nella scuola, che ciò che trovano sui libri di testo e nell'esperienza scolastica è qualcosa di molto lontano e di diverso dal loro mondo e dal loro linguaggio.

Sappiamo inoltre che i giovani in età scolastica sono attraversati dall'oscillazione tra sollecitazioni estreme, dalla ricerca di risposte, valori, certezze che si pongano come assoluti, sappiamo perciò che essi tendono a semplificare e a radicalizzare i conflitti per placare l'ansia interna di dover trovare una mediazione, mentre il sapere, invece, è in se stesso, e per come viene presentato, molteplice, perciò opposto a questa tendenza alla semplificazione; appare evidente che drammatici episodi come quelli di Genova e di New York hanno bisogno di una grande pluralità di approcci culturali, per poter essere almeno inquadrati.

Allora, forse, ricominciare a studiare partendo da questi avvenimenti, può finalmente diventare un momento e un luogo per scoprire informazioni e fare riflessioni sulla storia, la politica, la filosofia, la religione, la letteratura, ma dentro un processo che possa permettere agli studenti, e ai loro insegnanti, di esprimere e di modificare lo spazio interno, le proprie convinzioni: studiare, finalmente, inteso come grande disponibilità interiore a farsi condizionare da ciò che si viene imparando con la propria curiosità intellettuale, a concedersi la possibilità di reggere e di formulare dei dubbi, sentendosi magari debole e insicuro su questo cammino, ma correndo il rischio di provare a chiedere aiuto e di farsi proteggere da chi sa, o sta scoprendo il sapere con noi. Studiare, ed insegnare, insomma, mettendosi in gioco.

Ma non è forse questa, da sempre e per sua natura, la funzione della scuola? Come mai ce ne ricordiamo solo di fronte ad avvenimenti così tragici?

Educare è compito degli adulti nei confronti delle generazioni che seguono, ma, come dice l'etimologia stessa, educare significa anche aiutare a far emergere gli aspetti e le attitudini interiori, piuttosto che introdurre modi, spiegazioni e poi, a scuola, nozioni. Per questo fin dall'infanzia il bambino va educato all'affettività, cioè alla scoperta e all'uso del suo mondo emotivo, dei suoi bisogni, desideri, rabbie, affetti: consentendogli di farne esperienza all'inizio, poi, via via, di esprimere tutte le emozioni, in una relazione di accoglienza, di tolleranza, di ascolto.

Sempre secondo R. Meltzer, nel suo processo di sviluppo l'individuo incontra diverse modalità di apprendimento, alcune vicine alle tendenze più primitive del funzionamento della mente, in un certo senso più "facili" perché non la costringono a soffrire per esercitare la capacità di pensare; per es., la tendenza ad imitare l'altro, per invidia verso le sue doti, badando ai ruoli sociali o ai comportamenti, ma non alle capacità per esercitarli, oppure l'adesione meccanica alle modalità richieste da chi insegna, che inducono alla sottomissione e quindi sono foriere di ribellione.

Solo con un cammino difficile e doloroso, che implica la continua messa in discussione di sé, si arriva ad avvicinarsi agli avvenimenti, agli argomenti, ad osservare la realtà tutta, in modo da attivare la propria capacità di pensare e produrre quindi idee, pensieri, atti creativi, in grado di trasformarci o di cambiare la realtà.

Sembra che, purtroppo, solo questi avvenimenti di portata mondiale, così sconvolgenti da scuotere le coscienze, abbiano costretto il mondo degli adulti a riflettere su come la scuola, troppo spesso, funzioni su quelle tendenze meno avanzate della mente umana, quelle che non producono pensiero, ma che mantengono la scuola ingabbiata nei programmi, nei ritmi di apprendimento, verso obiettivi spesso formali o di superficie. Davvero oggi, al contrario, appare inderogabile sforzarsi tutti, individui ed istituzioni, di esercitare la nostra possibilità di pensare.

Sotto un identico cielo

La notizia
''La rabbia e l'orgoglio'': lettera da New York.
''Il Corriere della Sera'' del 29 settembre 2001

Il commento
"Esistono dei motivi per i quali la disperazione non è chiaramente riconosciuta o non se ne parla abbastanza, mentre si enfatizza eccessivamente la collera." ("Cosa accade nei gruppi", Robert D.Hinshelwood, Cortina Editore, 1989 ).

Sabato scorso, una lettera ha riempito con il suo corsivo le pagine di un quotidiano italiano: dalla città delle torri spezzate e delle morti infinite, Oriana Fallaci ha interrotto un silenzio decennale con parole feroci per l'Islam. Parole che hanno preoccupato e indignato alcuni, confortato e consolidato l'astio di molti.

Molti, sabato scorso, si sono sentiti meno soli, partecipi di una collera smisurata che chiede, che urla vendetta. Quando qualcuno urla così forte, si può affiancare alla sua la propria voce, e insieme alzare un coro così potente da far dimenticare la paura e la disperazione, e da coprire il fragore dei grattaceli che si sgretolano.

Tra la Rabbia e l'Orgoglio, la Paura e il Dolore vengono opportunamente compressi e soffocati, e con loro la fatica e la sofferenza del pensare, del permanere nel dubbio, dell'interrogarsi sul senso di quanto è avvenuto. Perché la difficoltà sta proprio nel reperire un senso: un terrorismo che si disfa indiscriminatamente e senza indugio delle proprie vittime, lascia sul terreno brandelli irriconoscibili, infangando il concetto stesso di vita e di morte, trasformando l'umano in non umano.

Non c'è un pensiero rivolto alla vittima, non c'è la scelta di una particolare vita da colpire, ma solo strage devastante e cieca, che impasta esseri umani in un immane, indistinto magma di acciaio e sangue, cemento e carne, in cui la vita e il senso di ognuno si perdono per sempre.

Scriveva qualche anno fa Christopher Bollas, a proposito della struttura del male nel nostro tempo: "Si tratta dell'uccisione, non soltanto della morte, del Sé: infatti la morte, per quanto tragica, suggerisce una fine che mantiene un suo significato…Al posto del Sé che viveva un tempo, emerge un nuovo essere, che si identifica con l'uccisione di quanto è buono, con la distruzione della fiducia, dell'amore e della riparazione." ("Cracking up", C.Bollas, Cortina Editore, 1996 ).

Ad una violenza così priva di pensiero, vuota e terribile, può corrispondere allora una reazione piena di furia belligerante, altrettanto pronta a non fare e a non riconoscere distinzioni: ad un atto terroristico senza pietà risponde un mondo ferito divenuto impietoso, che pensa e agisce, specularmente, in modo indiscriminato e magmatico.

Si parte per una guerra altrettanto santa e violenta, si allargano a dismisura i confini del territorio nemico, per essere certi di cogliere senza fallo il bersaglio. Così, il terrorismo da arginare e sconfiggere non sembra più scaturire da una frangia circoscritta del mondo islamico, ma va risolto una volta per tutte in uno scontro apocalittico tra civiltà, in cui la mors tua sarà finalmente e per sempre la vita mea.

Del resto, ancora scrive Bollas : "In questo secolo il mondo è stato testimone di due guerre che hanno polverizzato qualsiasi supposizione si potesse fare sul genere umano, lasciando in retaggio all'uomo fin de siècle una sorta di Sé seriale, che erra in una vita sempre più anonima e che è la risultante dei propri pensieri, della propria disperazione e, all'estremo, della propria ossessione omicida." ( ibidem ).

Il Terrorista, ma anche il Giustiziere, diventano così gli esecutori perfetti che operano in nome di una società che pensa in modo sempre più seriale e privo di significato.

Nella risposta urlata, che non conosce dubbio di sorta, gli uomini del terrore trovano finalmente l'Occidente che cercavano, e che sa parlare la loro lingua.

La terra e la morte
Sempre vieni dal mare
E ne hai la voce roca,
sempre hai occhi segreti
d'acqua viva tra i rovi,
e fronte bassa, come
cielo basso di nubi.
Ogni volta rivivi
come una cosa antica
e selvaggia, che il cuore
già sapeva e si serra.


Ogni volta è uno strappo,
ogni volta è la morte.
Noi sempre combattemmo.
Chi si risolve all'urto
ha gustato la morte
e la porta nel sangue.
Come buoni nemici
che non si odiano più
noi abbiamo una stessa
voce, una stessa pena
e viviamo affrontati
sotto povero cielo.
Tra noi non insidie,
non inutili cose -
combatteremo sempre.

Combatteremo ancora,
combatteremo sempre,
perché cerchiamo il sonno
della morte affiancati,
e abbiamo voce roca
fronte bassa e selvaggia
e un identico cielo.

Fummo fatti per questo.
Se tu od io cede all'urto,
segue una notte lunga
che non è pace o tregua
e non è morte vera.
Tu non sei più. Le braccia
si dibattono invano.

Fin che ci trema il cuore.
Hanno detto un tuo nome.
Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.

Cesare Pavese (1945)

Nella volontà di dare un volto riconoscibile e univoco al Male, si perde di vista l'atroce gesto terrorista e ci si rivolge con smisurata violenza contro il Diverso, sentito, in quanto tale, capace di ogni colpa.

Non sembra necessario fermarsi e cercare di comprendere le ragioni dell'odio, se si può semplicemente scatenare la propria rabbia e la propria paura su chi non si riconosce come identico a sé. Il musulmano diventa l'Altro, e dunque è il Nemico: è colui che ci mette in pericolo con la sua stessa esistenza, e per questo, va annullato.

In risposta alle migliaia di vite annientate nelle Torri, ma soprattutto per arginare il terrore della perdita di una propria identità precisa, compatta e idealizzata, si fa strada la tentazione di cancellare risolutamente qualcosa come un miliardo di abitanti del pianeta.

Il progetto della crociata sa essere di vero conforto, per la mente che non tollera la contaminazione. Così l'uomo - cristiano, giudeo, musulmano - finisce per andare in giro, come scriveva Money-Kyrle, con le tasche piene di dinamite.

Lo sforzo volto a compiere un'integrazione rappresenta davvero un'impresa immane, si sa: sia se ci riferiamo al mondo interno dell'individuo, sia se parliamo in termini di identità nazionale. La tolleranza è sicuramente più difficile da esercitare dell'intolleranza e del rifiuto.

Ma fuori dalla logica degli olocausti, dei roghi dell'Inquisizione, della frammentazione del Sé, è la sola strada che vogliamo pensare si possa ancora percorrere.

Su Micene lo stesso cielo di Troia, ma vuoto. Luccicante di smalto, inaccessibile, terso. C'è qualcosa di me che corrisponde al vuoto del cielo sul paese nemico. Finora tutto ciò che mi è accaduto ha trovato la sua corrispondenza dentro di me. Questo è il segreto che mi attanaglia e mi sorregge, e non sono mai riuscita a parlarne con nessuno. Solo qui, sul limite estremo della vita, posso nominarlo: poiché c'è qualcosa di ognuno dentro di me, non sono mai stata completamente di nessuno, e sono arrivata a comprendere persino l'odio che provavano per me.

Tempo di guerra

La notizia
Giustizia infinita. Parte l'operazione militare USA: cento aerei nel golfo.
''La Repubblica'' del 20 settembre 2001

Il commento
Nell'accingermi a commentare questa settimana un fatto di cronaca, mi è sembrato da un lato impossibile non dare spazio al dramma americano, fatto che sta sconvolgendo il mondo; dall'altro lato mi sembra altrettanto inopportuno -anzi presuntuoso- intervenire su un tema che è oggetto di discussione in maniera capillare e senza soluzione di continuità.

E' anche vero però che nonostante l'equilibrio, la competenza, la buona volontà che media, scienziati, politici e strateghi stanno dimostrando, si ha comunque la sensazione di essere entrati tutti in un'enorme -a proposito di globalizzazzione- dinamica di gruppo dove la guerra si dà troppo per scontata e dove appaiono molto chiaramente alcuni meccanismi di assorbimento delle conflittualità, fenomeno proprio delle situazioni di guerra, e dove la ripetizione incessante delle immagini sembra fissarci in una dimensione ineluttabile di sospensione da cui solo la decisione bellica può liberarci.

Per uscire dall'impasse ho pensato di riproporre tout court una sorta di florilegio da alcuni lavori sul tema della guerra di uno psicoanalista esponente della scuola inglese cresciuta intorno a Melanie Klein (1898 - 1980), Roger Money-Kyrle, perché morto più di vent'anni fa, perché ha combattuto nell'aeronautica militare, perché particolarmente interessato ad una psicoanalisi capace di confrontarsi con la dimensione antropologica e sociale, perché modesto ed equilibrato. Per quanto un po' datato, mi sembra una testimonianza ancora assolutamente valida, essendo consapevole lui stesso della necessità evolutiva delle teorie scientifiche e della poliedricità delle determinanti etiologiche di quella malattia umana chiamata "guerra".

Ai brani tratti dagli scritti di Money-Kyrle ho pensato inoltre di inframmezzare alcune suggestioni poetiche in quanto, come sappiamo, i poeti sono in grado di comunicare in una dimensione assolutamente sincretica concettualizzazioni complesse che travalicano le teorie ma che raggiungono per vie dirette la coscienza.



EPITAFFIO, TEMPO DI GUERRA
Si è schiantato un cielo di ferro
Su questa statua tenera.

Margherite Yourcenar (1943)


In Un'analisi psicologica delle cause della guerra (1934) Money-Kyrle dice che molte e differenti sono le teorie che sono state avanzate circa l'origine della guerra. Ciascuna rappresenta una porzione di verità e può servire a spiegare qualche guerra, altre possono servire quali indicazioni per qualunque guerra. Comunque tutte le teorie comprendono sia dei fattori precipitanti che dei fattori predisponenti o costituzionali. In quella malattia sociale che è la guerra molti possono essere i fattori precipitanti: "ad esempio, gli assassini politici o il fatto di avere un esercito così grande da disturbare i propri vicini o così piccolo da essere tentati di ignorarlo. Questo può essere paragonato all'andare fuori quando piove e dimenticarsi l'impermeabile. Rimane tuttavia la predisposizione costituzionale. Quelli che non amano il pacifismo spesso dicono che il combattere è proprio della natura umana e che la natura umana non si può cambiare".

Ma questo è vero? E qual è l'apporto della psicoanalisi alla comprensione delle cause della guerra?

"Che l'uomo allo stato naturale sia un animale aggressivo è sempre stato abbastanza ovvio. Era anche chiaro che l'uomo civilizzato potesse ridiventare selvaggio anche troppo facilmente per salvaguardare la sicurezza sua o di altri. Ma quello che non si sapeva era che gli impulsi distruttivi, che esplodono in guerra, sono sempre presenti nella nostra mente a livello inconscio. Noi non ne sappiamo niente perché sono rimossi (o scissi), ma esistono e sono pronti a erompere".

LE CASE E I MONDI
Occhi aperti delle case ammiccanti nell'ombra chiara,
tuguri dagli occhi avvinazzati, ospizi dagli occhi ingialliti,
case piene d'orrore, di dolcezza, di collera,
dove il delitto ha la sua tana, dove il sogno ha i suoi nidi.

Sotto il fardello di un cielo che non è più protezione,
case dei pugni alzati, case delle dita strette;
i globi freddi delle notti sotto l'orbita polare
rimuginano meno segreti nei loro occhi infiniti.

Arronzati qua e là dal volere dei venti contrari,
voi vivete, voi morrete; io penso a voi, miei fratelli,
il povero, il malato, o l'amante, o l'amico.

I vostri cuori hanno i loro tifoni, i loro mostri, le loro
Algebre,
ma nessuno, sporgendosi, vede nelle vostre tenebre
gravitare sordamente tutto un mondo addormentato.
Margherite Yourcenar (1930)


"Se siamo in grado di riconoscere questo, cominceremo a capire una delle ragioni per cui le guerre avvengono così frequentemente anche quando tutti sembrano cercare di prevenirle. Siamo gente che va in giro senza sapere che ha le tasche piene di dinamite. Più ci rendiamo conto di questo e più diventeremo capaci di prendere tutte le precauzioni possibili." Sublimiamo quindi gli impulsi distruttivi nel lavoro e nello sport ma questi impulsi possono sempre manifestarsi in qualche modo, o trasformati in istanze autodistruttive (ci sentiamo irritati e depressi -è questa l'origine della depressione), oppure possiamo proiettarla, gettarla fuori di noi, non riconoscerla ed attribuirla all'altro. Penserò quindi che sono gli altri a volermi aggredire e sarò tormentata da sospetti ingiustificati. Alla fine "l'aggressività inconscia può emergere in forma diretta e il pacifico cittadino può diventare consapevole del suo desiderio di uccidere. Ma prima che questo accada la sua normale coscienza deve essere modificata; egli deve credere di avere una giusta causa. Questo cambiamento avviene nell'omicida maniacale, convinto che il suo crimine non solo sia giusto, ma sia un vero dovere. Un cambiamento del genere avviene in persone completamente normali durante la guerra. … Questi meccanismi possono anche non influenzarci molto come individui, ma possono avere un grande impatto su di noi come membri di uno stato."

UOMO DEL MIO TEMPO
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
- t'ho visto - dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all'altro fratello:
"Andiamo ai campi". E quell'eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Salvatore Quasimodo (1947)


Money-Kyrle introduce il concetto di paranoia nazionale. "La psicologia di uno stato può diventare una caricatura della psicologia degli individui che lo compongono, in cui gli aspetti più pericolosi ed irresponsabili vengono accentuati e quelli più sani e prudenti vengono annullati. Per lunghi periodi una nazione può essere pacifica, contenta. Poi si verifica un cambiamento e una nazione sviluppa tutti i sintomi di qualche follia ben nota. In particolare, può diventare paranoide, cioè soffrire di deliri di persecuzione. Il singolo individuo pazzo è sospettoso in maniera irrazionale, perché proietta la sua aggressività inconscia sui propri vicini. Il cittadino normale è troppo sano per fare questo. Ma egli pure ha una carica di aggressività inconscia e difficilmente si può impedirgli di proiettarla sugli stranieri, specialmente su quelle personificazioni astratte degli stranieri chiamate ' potenze straniere '.

COLORE DI PIOGGIA E DI FERRO
Dicevi: morte silenzio solitudine;
come amore, vita. Parole
delle nostre provvisorie immagini.
E il vento s'è levato leggero ogni mattina
E il tempo colore di pioggia e di ferro
È passato sulle pietre,
Sul nostro chiuso ronzio di maledetti.

Ancora la verità è lontana.
E dimmi, uomo spaccato sulla croce,
e tu dalle mani grosse di sangue,
come risponderò a quelli che domandano?
Ora, ora: prima che altro silenzio
Entri negli occhi, prima che altro vento salga e altra ruggine fiorisca.

Salvatore Quasimodo (1946-48)


E' anche un grande sollievo per il cittadino trovare degli oggetti distanti per la sua indignazione latente; e la stampa, naturalmente, è esposta alla forte tentazione di soddisfare questa richiesta. … Io non credo che nessuna nazione moderna abbia iniziato una guerra senza che la maggioranza dei suoi cittadini credesse nella giustizia della propria causa. L'aggressività rimossa è presente, naturalmente; ma la coscienza civilizzata deve essere soddisfatta prima di permetterle di emergere. Il sospetto stesso fornisce il pretesto di una giusta causa. Come l'individuo paranoico che diviene omicida, così la nazione paranoica può iniziare una guerra che onestamente ritiene necessaria per la propria autodifesa. Quello che originariamente era un sospetto ingiustificato aiuta a creare proprio quella catastrofe che si desidera evitare". La paura sembra essere la prima causa della guerra!

PERCHE'?
Ha bisogno di qualche ristoro
il mio buio cuore disperso

Negli incastri fangosi dei sassi
come un'erba di questa contrada
vuole tremare piano alla luce

Ma io non sono
nella fionda del tempo
che la scaglia dei sassi tarlati
dell'improvvisa strada
di guerra

Da quando
ha guardato nel viso
immortale del mondo
questo pazzo ha voluto sapere
cadendo nel labirinto
del suo cuore crucciato

Si è appiattito
come una rotaia
il mio cuore in ascoltazione

ma si scopriva a seguire
come una scia
una scomparsa navigazione

Guardo l'orizzonte
Che si vaiola di crateri

Il mio cuore vuole illuminarsi
come questa notte
almeno di zampilli di razzi

Reggo il mio cuore
che s'incaverna
e schianta e rintrona
come un proiettile
nella pianura
ma non mi lascia
neanche un segno di volo

Il mio povero cuore
sbigottito
di non sapere
Giuseppe Ungaretti (1916)


Una volta che la guerra è scoppiata, le ultime tracce di sanità scompaiono. La tendenza al sospetto è stimolata dalla propaganda. Subito ogni parte attribuisce ai suoi nemici i crimini più atroci e inverosimili, cosicché ciascuno commette veri oltraggi per vendetta. L'individuo sembra perdere la sua individualità e viene sommerso dal gruppo. La coscienza privata, che nega i massacri umani, viene sostituita da una coscienza di gruppo che invece li ordina. Il cittadino pacifico scopre improvvisamente che ha sviluppato un desiderio di uccidere e, allo stesso tempo, come per una specie di compensazione, è pronto ad essere ucciso per la patria. Si sente esaltato; l'emergenza di questi impulsi dall'inconscio gli danno un vero sollievo. Questa, penso, è la ragione per cui la febbre di guerra si diffonde così rapidamente. Guerre prolungate producono naturalmente molte nevrosi, le cosiddette psicosi traumatiche (in seguito a bombardamenti). Ma ci sono anche nevrosi da pace, dovute alla repressione dell'aggressività, che vengono curate dalla guerra. L'individuo non si sente completamente bene fintanto che i suoi impulsi distruttivi rimangono repressi. Come ho detto, spesso questi vengono rivolti contro l'individuo stesso, causando frustrazioni e producendo un senso di inferiorità e un sentimento di depressione. … Inoltre la guerra offre possibilità di auto sacrificio, oltre che di aggressione diretta. Sebbene sia difficile ammetterlo in un'epoca razionale come la nostra, molti di noi avvertono un bisogno interno di sacrificare se stessi. Il mondo deve la maggior parte dei suoi progressi a questo impulso; e che questo possa venire così facilmente utilizzato in guerra è una delle tragedie della natura umana. … Così la guerra libera, in vari modi, immense quantità di aggressività normalmente inconscia. La pazzia che ne consegue non si attenua finché i paesi coinvolti non sono completamente sfiniti."

FIGLI DELL'EPOCA
Siamo figli dell'epoca,
l'epoca è politica.

Tutte le tue, nostre, vostre
faccende diurne, notturne
sono faccende politiche.

Che ti piaccia o no,
i tuoi geni hanno un passato politico,
la tua pelle una sfumatura politica,
i tuoi occhi un aspetto politico.

Ciò di cui parli ha una risonanza,
ciò di cui taci ha una valenza
in un modo o nell'altro politica.

Perfino per campi, per boschi
fai passi politici
su uno sfondo politico.

Anche le poesie apolitiche sono politiche,
e in alto brilla la luna,
cosa non più lunare.
Essere o non essere, questo è il problema.
Quale problema, rispondi sul tema.
Problema politico.

Non devi neppure essere una creatura umana
per acquistare un significato politico.
Basta che tu sia petrolio,
mangime arricchito o materiale riciclabile.
O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma
si è disputato per mesi:
se negoziare sulla vita e la morte
intorno a uno rotondo o quadrato.

Intanto la gente moriva,
gli animali crepavano,
le case bruciavano
e i campi inselvatichivano
come in epoche remote
e meno politiche.
Wislawa Szymborska (1986)


Le più importanti cause costituzionali della guerra sono dunque innanzitutto la presenza di impulsi distruttivi inconsci. Poi c'è la tendenza a proiettare questi impulsi dando luogo alla paranoia nazionale. In terzo luogo, ci sarà il pericolo che questi sospetti finiscano di produrre una giustificazione per l'esplosione di impulsi distruttivo-paranoicali e determinare una guerra.

Dice Money-Kyrle in "Lo sviluppo della guerra " del 1937, parlando delle risultanti delle vicende edipiche: "Da adulto, la lealtà verso il proprio superiore o gruppo, come personificazione di un ideale, sarà bilanciata dall'odio per qualche altro capo o gruppo e per questa ragione sarà incline alla guerra. Sembra anche che il grado di venerazione per il proprio capo o paese sia direttamente proporzionale al grado di odio diretto contro i propri nemici. L'intensità con cui un Napoleone, un Mussolini o un Hitler sono idolatrati, dà la misura dell'ardore militante del loro popolo. … Un ulteriore risultato della scissione in due figure dell'immagine paterna è che gli dei di un popolo sono i demoni dell'altro… Quando invece accade che simboli in cui l'ambivalenza infantile ha scisso l'immagine paterna originale sono entrambi presenti nella stessa comunità, il risultato è una tendenza ad una guerra civile più che ad una esterna, o almeno ad una certa intolleranza in politica…C'è naturalmente un certo rapporto inverso tra guerra e rivoluzione: un aumento delle probabilità dell'una diminuisce le probabilità dell'altra, fatto ben noto ai dittatori che fomentano paure di guerra quando la loro popolarità nel proprio paese è in pericolo."

Inoltre, parlando dei meccanismi riparativi, dice: "Ciò che è nuovo è un'avversione conscia per la guerra… Se questo atteggiamento conscio riuscirà o meno a controllare i fattori inconsci è una questione che solo il futuro potrà decidere. Questa avversione conscia alla guerra è un prodotto di meccanismi riparativi. … Il timore inconscio di avere distrutto o danneggiato i nostri oggetti buoni nell'infanzia, suscita un forte desiderio di riparare il danno, il che è in gran parte l'incentivo per lavori costruttivi in generale e per attività pacifiste in particolare. Tuttavia, se conflitti interni, o eventi esterni, o una combinazione dei due, ci convincono della futilità dei nostri desideri di pace, finiamo col difenderci dalle autoaccuse convincendoci che i nostri oggetti buoni siano stati danneggiati non da noi, ma da oggetti cattivi sui quali abbiamo proiettato la nostra aggressività. E questi, tendiamo ad attaccarli nelle persone dei reali o presupposti nemici della pace -industrie di armamenti, capitalisti, bolscevichi, autocrati o nazioni straniere. Da questo punto di vista, la pace, con il suo lavoro costruttivo, è la condizione normale; la guerra, col suo improvviso scoppio di distruzione, un interludio abnorme dovuto al crollo su larga scala di funzioni riparative. Se, attraverso l'analisi o qualche altro metodo la nostra colpa inconscia, cioè la paura di aver danneggiato o distrutto i nostri oggetti buoni, venisse attenuata, avremmo più fiducia nelle nostre capacità riparative e, in particolare, il nostro pacifismo sarebbe più razionale e stabile".

SCORCIO DI SECOLO
Doveva essere migliore degli altri il nostro XX secolo.
Non farà più in tempo a dimostrarlo,
ha gli anni contati,
il passo malfermo,
il fiato corto.

Sono ormai successe troppe cose
che non dovevano succedere,
e quel che doveva arrivare,
non è arrivato.

Ci si doveva avviare verso la primavera
e la felicità, fra l'altro.

La paura doveva abbandonare i monti e le valli,
la Verità doveva raggiungere la meta
prima della menzogna.

Certe sciagure
non dovevano più accadere,
ad esempio la guerra
e la fame, e così via.

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