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Delitto di Cogne: aspettando le risposte...

La notizia
Samuele, verità più lontana. Il pm prende tempo, ho bisogno di tre settimane. Dopo l'ultimo sopralluogo dei Carabinieri nella villa dove è stato ucciso il bimbo di tre anni, il magistrato chiede una ventina di giorni per attendere i risultati delle analisi sui reperti e fare il punto della situazione.
La Repubblica, venerdì 8 febbraio 2002

Il commento
Questo è uno dei tanti titoli che da una decina di giorni si susseguono su tutti i quotidiani italiani, dopo l'omicidio di un bambino di tre anni avvenuto in un piccolo e tranquillo paese di montagna.

Tra i tanti forse ho scelto questo articolo perché, sommersa come credo tutti da emozioni e da sensazioni diverse ad ogni notizia aggiunta dai mass-media su questa tragica vicenda, la parola "verità" mi ha colpito, data la sua densità e pesantezza.

Quale verità, in questo caso? Certamente, tutti ci auguriamo e ci aspettiamo che significhi obiettività e aderenza alla realtà, cioè certezza assoluta su chi ha compiuto questo delitto e sul perché di un tale tragico gesto.

Penso, però, che verità a volte possa voler dire anche qualcosa di più personale e di più profondo, qualcosa che riusciamo a percepire come emotivamente significativo, per esempio un pensiero, un'idea, un'ipotesi che risuonino dentro di noi in modo totalmente autentico.

Allora può essere vero che, ancora una volta, siamo purtroppo di fronte a qualcosa che rifiutiamo inorriditi ed esterefatti, stentando a credere che sia realmente accaduto, può essere vero che alla nostra coscienza ripugnano delitti come questo perché in essi ritroviamo una tragica eco della lotta tra istinto di vita e certezza di morte, lotta che da sempre accompagna l'umanità a livello individuale e sociale e che è un'essenza stessa della vita.

L'aggressività è il modo più evidente per esprimere questa lotta, ma può venire coniugata in molti atteggiamenti e tempi diversi: per esempio a livello individuale, tra parti di noi che non sopportano la fatica del processo di integrare differenti aspetti emotivi di sé, o, a livello sociale, tra gruppi, nazioni, religioni, che non riescono a dialogare o si combattono…

L'istinto, o impulso o come dir si voglia, aggressivo spinge da sempre l'umanità a sopravvivere, a conquistare, ad attaccare o a difendere, diventando buona o cattiva a seconda della molla che la fa scattare, e così l'ambizione o il desiderio di onnipotenza possono, anche all'improvviso, trasformare in tragedia un'espressione di vivace interessamento, un impulso alla crescita, un desiderio di cambiamento, oppure interrompere un dialogo, una trattativa, un incontro politico.

Ancora una volta, bisogna fermarsi a riflettere sul sottile confine di tutto questo.

Costretti come siamo ad aspettare i risultati dell'indagine, è grande lo stupore agghiacciato che ci pervade ascoltando le varie ipotesi che si susseguono da giorni su questo delitto: di volta in volta un vicino, un familiare, un amico di famiglia, un balordo più o meno di passaggio, tutti sono stati indicati come potenziali assassini di una piccola creatura inerme, e, smarriti, di nuovo ci chiediamo perché tanta violenza, tanto accanimento, soprattutto insomma tanta cattiveria; così, ci dimentichiamo che per l'individuo e per la società intera l'aggressività sottende qualunque azione, che la cosiddetta "bontà" non è data né per nascita né per grazia divina, ma è invece una conquista, e molto faticosa.

Infatti, è già dalla primissima infanzia, nella relazione con la madre, che il bambino è aiutato a vivere e via via a tollerare le espressioni del suo mondo interiore, cioè le emozioni allo stato nascente; il bambino trasmette alla madre elementi emotivi grezzi, legati fondamentalmente all'angoscia di morte, e la madre, con la sua capacità di contenimento, gli restituisce queste forti emozioni, in un certo senso "narrate" e rielaborate.

Come scrive Bion: "Descritta in termini di funzione materna (o di funzione analitica della mente) la capacità di tollerare il mondo emotivo ha a che fare…anche con l'offerta, da parte della madre, di un "dono" di significato che permetta al bambino di tollerare le emozioni negative".

Da questa relazione nasce nel tempo la capacità di pensare del bambino, in origine un dono gratuito fornito dalla madre insieme alle cose che istintivamente gli offre per provvedere ai suoi bisogni: questa funzione materna permette al bambino di imparare a tollerare l'angoscia di morte senza esserne sopraffatto.

Ma anche in seguito, nella vita da adulto, sarà necessario ripetere questo percorso, cioè la rielaborazione delle emozioni attraverso "l'apprendere dall'esperienza", poiché pensare è una funzione della personalità in continuo sviluppo, non una facoltà innata conclusa in sé fin dall'inizio e bisognosa soltanto di essere usata per esprimere la propria maturità.

Man mano che si confronta con l'esperienza, la mente impara a conoscere, capire, integrare in sé i diversi aspetti della realtà e le diverse emozioni che essi provocano, in un processo che è tutt'altro che indolore, soprattutto se, per qualunque motivo, qualcosa non ha funzionato all'inizio del percorso, se, per esempio, il bambino non è stato aiutato e abituato ad integrare gli elementi nuovi.

In questa crescita la mente è sempre esposta a momenti di imprevedibilità, ad esempio, per contenere un'idea nuova corre il rischio che il "contenitore" di pensiero si rompa, frammentando così le sue funzioni e dando origine a parti scisse nella personalità dell'individuo.

Tutto questo può accadere soprattutto quando il processo del pensare si scontra con aspetti dolorosi, che vengono rifiutati poiché implicano sofferenza, e alla fine bloccano la possibilità stessa di pensare.

Nel caso di questo fatto di cronaca, osserviamo come ciò possa succedere anche a livello di gruppo: giornali e televisioni ci inondano di atteggiamenti diversi, indicatori tutti di alcune modalità di difesa. Gli articoli e i servizi oscillano tra l'interesse voyeuristico per i luoghi e le persone implicate, e l'appello moralistico al rispetto del dolore e della privacy, tra il porsi in atteggiamento riflessivo con domande agli "esperti", e l'arrivare a conclusioni affrettate, ma in quanto tali rassicuranti.

Sembra manifestarsi una caratteristica di questa società, una sorta di "duplicità etica": ritenendo acquisito o dando per scontato l'ideale della "bontà", della tolleranza, si dimentica che esso invece è punto di arrivo di un cammino che, come accennato prima, gli individui, ma contemporaneamente tutte le istituzioni che li rappresentano, devono compiere, tenendo cioè conto delle emozioni di fondo legate all'angoscia di morte, all'istinto di sopravvivenza, all'aggressività, quindi al desiderio di sopraffare, al rifiuto dell'altro, alla non tolleranza.

La necessaria integrazione di questi elementi per realizzare una crescita, individuale o sociale che sia, si realizza sempre con fatica e sofferenza, implica atteggiamenti di ascolto, possibilità di attesa, capacità di comprensione e di tolleranza dei nostri aspetti non chiari, o delle ragioni dell'altro che sembra contro di noi.

Con questo rifiuto di prendere in considerazione la tendenza aggressiva che sta sempre come sfondo in ogni avvenimento, la società la estromette da sé, la rende altro, scissa dal resto, per ritrovarsela poi agita in qualche azione che risulta allora incomprensibile o frutto di qualche solitaria pazzia, esattamente come per l'individuo che la compie, quando lascia agire parti non integrate di sé.

Credo che tutti gli atteggiamenti manifestati da giornali e mass-media intorno a questa vicenda siano mossi a livello profondo dal tentativo di coprire la paura e il dolore di doversi ancora una volta confrontare con un atto che vorremmo non ci appartenesse, con un gesto di pazzia del quale vorremmo almeno una spiegazione, per continuare a credere, per esempio, che questi fatti accadono agli altri, indotti alla follia per nascita o per vicende personali, che comunque senz'altro essi non ci riguardano, perché noi "proprio in buona fede" non siamo aggressivi, ma crediamo nella bontà, nel rispetto degli altri, abbiamo idee di pace e di tolleranza… e possiamo dunque invocare la verità, quella dei dati certi, dei risultati scientifici, dei riscontri obiettivi, per poter additare finalmente qualcuno, mostro o pazzo che sia, e, rassicurati, voltare pagina (nell'attesa della prossima cronaca…).

Sempre Bion cita Keats per sottolineare "Quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze, attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare a una agitata ricerca di fatti e ragioni."

Mi sembra che la richiesta di tempo espressa dal magistrato, per aspettare i risultati scientifici e mettere insieme tutti i dati raccolti, possa corrispondere non solo ad un atteggiamento scrupoloso e cauto nel condurre il proprio lavoro, ma anche alla capacità di porsi in un clima di attesa, al riparo dalla troppa fretta e dalle richieste della società intorno, provando a rimanere per un po' in silenzio.

E forse davvero il silenzio stampa più volte invocato dai protagonisti della vicenda, dagli abitanti del paese, da tutte le persone più sensibili, è la richiesta di quell'ulteriore silenzio che troppo spesso in questa società non è dato, e noi stessi non ci concediamo, indispensabile per trovare sì la verità, quella però che non solo corrisponde ai fatti, ma risuona in noi, e tante volte si associa al dolore.


"Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e…
cerca di dominare le domande che sono simili
a stanze chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte che non possono esserti date,
poiché non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa.
Vivi le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta."


[R.M.Rilke]