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La fame degli affamati e la sazietà dei sazi

La notizia
I Ministri dell'Agricoltura di varie parti del mondo si riuniranno a Roma in occasione del World Food Summit, il vertice mondiale dell'alimentazione. […] Il fatto è che centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all'alimentazione umana. I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri tipi di bestiame, tutti nutriti di foraggio, mentre i poveri muoiono di fame.
L'Espresso, 13 giugno 2002

Stefania Magnoni Il commento
La fame… ma noi abitanti di paesi industrializzati, che per sorte anagrafica la guerra l'abbiamo solo sentita raccontare, sappiamo pensarla? E', in realtà, un'esperienza di cui abbiamo conoscenza solo teorica, ma che non ci ha mai realmente messo a rischio di vita, qualcosa che, in senso fisico non è mai passata dentro di noi, lasciando segni devastanti.

La fame di cui, invece, ciascuno di noi può, indipendentemente dall'anagrafe e dal censo, sentire e aver acutamente sentito i morsi, è la fame di affetti, di relazioni significative e credibili che ci abbiano aiutato e ci aiutino a tracciare la nostra mappa interiore, permettendoci così di riconoscerci capaci di pensiero e di emozioni e quindi anche di senso di responsabilità e di preoccupazione per le conseguenze delle nostre azioni, delle nostre scelte e spesso delle nostre non-scelte.

Forse di questa fame primigenia portiamo più o meno pesantemente i segni dentro di noi e li riveliamo nella fatica ad avere uno sguardo che decodifichi quanto accade un poco più distante dal nostro piccolo orticello.

Dopo i fatti di Genova del luglio scorso abbiamo forzatamente preso contatto con complesse realtà di politica economica e di strategie su base planetaria che in altro modo potevano rimanere ancora per un po' distanti dalla nostra coscienza di non-addetti-ai-lavori.

Quasi improvvisamente ci siamo accorti di abitare su un piccolo pianeta e abbiamo, forse, sentito il bisogno di capire meglio cosa c'era dietro parole sufficientemente nuove e oscure: globalizzazione, ogm, e commerce…

L'appuntamento del World Food Summit che si svolge in questi giorni a Roma sotto il patrocinio della FAO ci stimola ad alcune riflessioni.

L'articolo di Jeremy Rifkin- docente alla Wharton School dell'Università di Pennsylvania, presidente dell'Institute on Economic Trend di Washington, considerato guru del popolo di Seattle- spiega con imbarazzante lucidità cosa stiamo facendo del nostro pianeta e dei suoi 'inquilini'.

"Negli ultimi 50 anni la nostra società globale ha costruito a livello mondiale una scala di proteine artificiali sul cui gradino più alto ha collocato la carne bovina e quella di altri animali nutriti a foraggio. Oggi i popoli ricchi, specie in Europa, Nord America e Giappone, se ne stanno appollaiati in cima a questa catena alimentare divorando il patrimonio dell' intero pianeta. Il passaggio avvenuto nel mondo agricolo dalla coltivazione di cereali per l'alimentazione umana a quella per il foraggio per l'allevamento degli animali rappresenta una nuova forma di umana malvagità, la cui conseguenze potrebbero essere di gran lunga maggiori e ben più durature di qualunque sbaglio commesso in passato dall'uomo contro i suoi simili…. Mentre le questioni della proprietà e del controllo della terra sono sempre stati temi di grande rilevanza, il problema di come la terra venisse utilizzata ha sempre suscitato meno interesse nell'ambito del dialogo politico. Eppure, è stata la decisione più iniqua della storia quella di usare la terra per creare una catena alimentare artificiale che ha portato alla miseria centinaia di milioni di esseri umani nel mondo… Il passaggio dal cibo al mangime continua velocemente in molti paesi in modo irreversibile, nonostante il crescente numero di persone che muoiono di fame…Nel 1984, quando in Etiopia migliaia di persone sono morte di fame, l'opinione pubblica non era al corrente che in quel momento l'Etiopia stesse utilizzando parte dei suoi terreni agricoli per la produzione di pannelli di lino, semi di cotone e semi di ravizzone da esportare nel Regno Unito e in altri paesi europei come cereali foraggieri destinati alla zootecnia."

E' evidente che l'analisi di Rifkin scuote pesantemente le nostre coscienze, se per caso si trovavano appollaiate in una zona di confort dalla cui prospettiva questi panorami erano stati opportunamente tagliati via. E allora proviamo a percorrere la scomoda strada della consapevolezza, sempre meno di moda, ma forse anche grazie a questo, foriera di una possibilità di riparazione autentica nel promuovere, a partire dal singolo, una cultura degli affetti e della responsabilità, una logica individuale e sociale che privilegi processi di integrazione piuttosto che tollerare massicce scissioni. Mi spiego meglio: è sempre con un certo stupore che si riscopre ciò che già si sapeva, e cioè che possiamo verificare una corrispondenza piuttosto precisa tra le dinamiche del funzionamento a livello macrosociale e quelle intrapsichiche.

Lasciando quindi agli economisti il compito di monitorare il panorama mondiale e di indicarci quali e quanti rischi l'umanità sta correndo, ma anche su quali linnee si sta muovendo a livello creativo e quali sono i cambiamenti sociali a cui ogni singolo è chiamato a partecipare, siamo in grado, in realtà, di ridurre le distanze tra prospettive (quella economica e quella psicodinamica) che possono sembrare molto lontane. E non credo che questo accorciamento sia un effimero effetto della globalizzazione!

Nell'occuparci, come psicoterapeuti, della complessità, delle fatiche, del dolore e delle potenzialità creative ed affettive del mondo interiore nostro e altrui abbiamo la possibilità di cogliere attraverso quali sofisticati meccanismi l'essere umano cerchi di proteggere la sua quotidianità dall'angoscia esistenziale e con quale dispendio di energie si impegni a riparare quei "vuoti di senso" che le prime esperienze relazionali hanno prodotto.

Sebbene ogni persona abbia un suo stile unico di distorsione percettiva della realtà interna ed esterna, uno dei modi più frequenti di padroneggiare l'angoscia è scindere, isolare e distanziare da noi tutto quanto si ha il timore possa scuotere un equilibrio che, per quanto precario e illusorio, è l'unico faticosamente raggiunto. Ogni elemento nuovo determina un disturbo, una turbativa. Accoglierlo, quindi, richiederebbe un cambiamento nel nostro assetto interiore nella direzione dei processi di integrazione. Ma, emotivamente parlando, il cambiamento è al contempo ciò che più è necessario per costituire un'interiorità duttile in grado di apprendere dall'esperienza, e ciò che più ci terrorizza e ci spinge ad attivare tutte le istanze difensive di cui siamo capaci.

Credo che già a questo primo livello sia possibile dire che ci comportiamo con il mondo planetario un po' come con il nostro microcosmo interiore: noi 'fortunati' appartenenti a quel 20% che detiene il potere economico e tecnologico, vogliamo continuare ad averne sempre di più, ma vogliamo anche starcene in pace, non essere disturbati dai problemi di chi è escluso da questo circuito. La fame diventa una cosa lontana su cui, di tanto in tanto, per una sorta di impacco lenitivo alla coscienza, possiamo buttare uno sguardo con qualche gesto di 'generosità', a patto che sia molto attento a non spostare le nostre certezze, anzi se mai fortifichi in noi la convinzione di essere buoni. I cattivi sono senz'altro gli altri, quelli, per esempio, che a questi gesti neanche ci pensano o i Governi che non fanno a sufficienza; e noi ovviamente con i Governi non abbiamo niente da spartire…

Il gioco è fatto. L'indifferenza è servita come piatto della nostra tavola quotidiana.

Una parvenza di stabilità è momentaneamente garantita, ma a quali costi? Abbiamo tenuto a debita distanza la disperazione e l'angoscia più devastante che l'uomo possa sperimentare, quella cioè legata alla sopravvivenza -la lotta per la sopravvivenza fisica ci rimanderebbe ineluttabilmente all'angoscia rispetto ad una catastrofe interiore-, ma abbiamo alimentato unicamente i nostri aspetti onnipotenti, non siamo stati in grado di contrastare l'avanzata di istanze aggressive e distruttive che sono andate a minare pesantemente le nostre potenzialità affettive.

Abbiamo perso cioè la capacità di provare 'preoccupazione' per l'Altro in qualunque parte del pianeta si trovi, e forse anche per noi stessi, per la nostre fragilità, per i nostri bisogni di autentica comunicazione.

Falsamente liberati dall'imbarazzante tema della sopravvivenza del nostro pianeta nella sua interezza e non solo in un piccolo privilegiato angolino, ci ritroviamo -a livello individuale e mondiale- afflitti da analoghe cecità.

Siamo anche in grado di stupirci che privilegiare la strada delle scissioni, del potere per il potere, del allontanare dalla coscienza gli aspetti sofferenti individuali e macrosociali, del disattendere il lento e faticoso processo di coscientizzazione, porti nel tempo i suoi tossici effetti.

Incapaci di prendere contatto con le emozioni, spaventati dalle relazioni affettive, sempre più distanti dai luoghi interiori dove insieme al dolore e all'angoscia potremmo trovare anche risorse e potenzialità, maltrattiamo il nostro pianeta nelle persone e nel "fisico". In tal modo rientra dalla finestra ciò che abbiamo creduto di cacciare fuori dalla porta!

Un'umanità così irrigidita da patologie difensive sempre più diffuse e più sofisticate, è anche in difficoltà a cogliere i movimenti trasformativi: o rischia di subirli trovandosi scaraventata dalla parte degli "esclusi" (anche se per caso appartenente alla casta degli industrializzati), o partecipa a questa moderna 'corsa all'oro' senza però chiedersi "se per abitare in un mondo più ricco si è disposti ad abitare un mondo selettivo, competitivo, duro, in cui vige sostanzialmente la legge del più forte, e dove i vincitori vincono e gli sconfitti perdono" (A. Baricco, Next). Cogliere la possibilità di porsi "davanti al panorama vero del nostro tempo, così diverso dalla cartolina truccata che vendono negli empori del potere" (idem) ci potrebbe permettere invece di partecipare ad un flusso, comunque vitale e trasformativo, attraverso la valorizzazione della cultura come base che informi di sé l'economia e la politica e riesca a contrastare movimenti anticonoscitivi ai vari livelli a cui possono manifestarsi.

Se è vero che le 'zone oscure ' ci appartengono e sarebbe ingenuo e illusorio pensare ad un mondo o ad una persona 'totalmente positivi ' è altrettanto vero che l'unico modo di negoziare con questa realtà in senso costruttivo è farsene carico, cioè non ritrarsi inorriditi, integrarla a ciò che di positivo sentiamo di possedere, in modo che l'insieme finale sia un tutt'uno sufficientemente integrato e quindi capace di funzionare occupandosi affettivamente, creativamente e responsabilmente anche degli aspetti sofferenti riconosciuti, finalmente senza vergogna, come propri.

Due nemici ho io a questo mondo,
due gemelli indissolubilmente fusi:
la fame degli affamati e la sazietà dei sazi

(Marina I. Cvetaeva)