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Una giornata particolare: storie di vittime nella cronaca quotidiana

La notizia
''Miss Italia 2002, trionfa la noia…''
''La nuova battaglia di Safiya: 'Lotterò per liberare le donne'''
'' Magdalene: polemiche da Inquisizione''.
La Repubblica, martedì 10 settembre 2002

Giovanna Capello Il commento
Apriamo il quotidiano, cronaca nazionale, pagina 23. Il rito televisivo di fine estate è stato, anche quest'anno, debitamente consumato: tra abbracci e lacrime è nata Miss Italia 2002. Piccola stella, piccolissima meteorite destinata a sfrigolare sugli schermi italiani per un istante - una coroncina da Barbie posata sulle chiome, il festoso assalto delle concorrenti sconfitte ( ma la smembrerebbero a morsi, ne sono certa ), un muro di flash ad immortalare l'inevitabile pianto… e già le luci si spengono, si sono spente. Colpo di grazia: ci penserà, in via definitiva, l'11 settembre - sfortuna vuole, già l'indomani - a completare l'eclissi. Dopo, ad attendere la stellina, un limbo di oscuri contratti pubblicitari, qualche copertina patinata, qualche passaggio nei calvari televisivi domenicali.

Voltiamo pagina, a ritroso, verso le cronache dal mondo, pagina 19. Safiya, la donna nigeriana assolta dalla condanna a morte per lapidazione, è giunta a Roma, dove le è stata conferita dal sindaco la cittadinanza onoraria. Miracolo vivente della globalizzazione: fiaccolate, appelli istituzionali, mobilitazioni di calciatori e attrici hanno contribuito a salvarle la vita. Lei è venuta in Italia per ringraziare, con modi sottomessi come si usa dalle sue parti, e per aiutare la nuova campagna in favore di Amina, un'altra donna nigeriana condannata a morte per aver avuto un figlio da un uomo con cui non è sposata. ''Salvatela'' ha chiesto Safiya in Campidoglio ''io continuerò a pregare per lei''. Magrissima, il viso segnato dalla paura e dalla miseria, Safiya è tenacemente guardata a vista, accudita e protetta dal suo avvocato, come un uccellino caduto dal nido. Da una capanna in un remoto villaggio dello stato di Sokoto, Nigeria, al Colosseo illuminato in suo onore: vacillerebbe chiunque, al suo posto.

Un balzo in avanti, in zona-spettacoli, pagina 44. Mostra del cinema di Venezia. Continuano le polemiche riguardo all'attribuzione del Leone d'oro al film ''Magdalene'' del regista scozzese Peter Mullan. E' ormai cronaca di ieri la levata di scudi, anatemi e minacce di scomunica da parte delle correnti più conservatrici della Chiesa cattolica: il film - ambientato nell'Irlanda degli anni '60 - racconta, infatti, la vita di ragazze e donne ''traviate'', rinnegate dalla propria famiglia, chiuse in conventi intitolati alla peccatrice Maria Maddalena in cui venivano costrette dalle suore a lavorare come lavandaie, senza compenso alcuno. Nessuna invenzione: si trattava di istituti-lager (davvero esistiti dall'inizio del 19° secolo fino al 1996), dove erano negate pietà e comprensione cristiane, dove esistevano solo silenzio, divieti, punizioni corporali, percosse, violenze sessuali, persecuzioni. Ad un giorno di distanza, l'eco roboante dello scandalo si è già affievolito, fino a ridursi al ben noto strepito tra bottegai, intenti a palleggiarsi responsabilità, attribuirsi meriti, minacciare dimissioni.

Una distanza che si fa baratro separa questi fatti di cronaca: l'elezione effimera di una stellina; il tributo reso ad una piccola donna scampata alla sharia, la legge islamica; le polemiche che hanno prevedibilmente accompagnato la premiazione di un film che denuncia i soprusi subiti dalle donne nel civile mondo cattolico.

Eppure, correndo il rischio di apparire blasfema, mi sembra di poter dire che un filo rosso - neppure troppo esile - leghi queste storie l'una all'altra. Ci sono le stelline italiane selezionate, allevate e scartate dall'acquario televisivo. Seguono le piccole donne africane schiacciate, che solo le crociate del civile occidente sembrano poter salvare. Infine, le lavandaie-prigioniere irlandesi, sfruttate fino a ieri, che oggi possono denunciare i soprusi subiti solo grazie ad un film che, dichiara il regista '' attacca tutte le religioni, tutti i fondamentalismi che opprimono le donne perché rappresentano la forza della vita e dell'amore''.

In un solo giorno di ordinaria cronaca, tre storie, tre realtà che parlano di vittime.

Vittime della famiglia, della religione cattolica, della legge islamica, della legge televisiva…

Vittime indiscutibilmente diverse tra loro, ma che insieme - una pagina di giornale dietro l'altra - ricuciono la trama di una storia che sapevamo di aver già letto e speravamo di aver archiviato: la storia di persone indifese e passivizzate - oggetti disumanizzati e ridotti a corpi.

Il corpo trasformato in feticcio o corpo martoriato dalle pietre, corpo straziato dai lavori forzati o corpo trasfigurato in una cosa liscia, sinuosa, piena di grazia e bellezza…. Corpo glorificato o lapidato: la differenza sta tutta nella sorte che l'oggetto subirà infine. Rimanendo, nell'uno e nell'altro caso, comunque inanimato. E forse neppure incide particolarmente il fatto che si stia parlando di donne: sarebbe anche troppo facile cedere ad un nostalgico e rabbioso rigurgito ideologico, ed imputare al maschio la colpa di trasformare - ancora una volta - la donna in oggetto di squisita fattura o in carne mutilata.

La realtà, oggi, mi sembra più complessa.

Anche l'uomo appare, sempre più frequentemente, un corpo nudo, esposto - a volte vittima che lamenta un drammatico ribaltamento dei ruoli , un'acquisizione di strapotere da parte dell'ex sesso debole, ed è allora corpo maltrattato e lapidato; a volte si fa invece vittima compiaciuta e inerme del proprio aspetto finalmente curato e levigato quanto quello femminile.

Nell'era della globalizzazione, la Vittima non conosce più distinzioni di sesso, società, cultura. E, paradosso apparente, l'essere Vittima consente di sperimentare un nuovo potere: certo, si diventa oggetti ingiustamente maltrattati o sfruttati, ma si ottiene l'autorizzazione ad una richiesta di risarcimento e pietà infiniti.

Si delinea, così, uno scenario di retribuzione, e di vendetta ai danni di coloro ai quali è stato dato il potere di abbandonare e mutilare.

In questo nuovo scenario, alla Vittima, in cambio della sua sofferenza, è garantita la certezza di esistere.

In questo modo, oggetti disumanizzati, indifesi, vittime della società, possono scoprire la possibilità di percepirsi vivi: se si è semplicemente corpo non si può scomparire; il diventare corpo - bellissimo o scarnificato - offre un mezzo per arginare l'angoscia della frammentazione e dell'annichilimento.

Perché è questo il vero orrore del nostro tempo.

Vorrei, allora, tornare per un momento al fatto di cronaca - la Mostra del Cinema di Venezia - e lasciar parlare una signora di grande buon senso, una voce fuori dai cori più schiamazzanti e furiosi.

''I premi corrispondono alle tendenze di una Mostra popolata di protagonisti-vittima, di pena, di compassionevole solidarietà, sempre accolti con caldi, vasti applausi. (…) Su 36 film in concorso e fuori concorso si son visti come protagonisti-vittima: una pittrice inchiodata sulla sedia a rotelle, un aborigeno fuggitivo inseguito da tre poliziotti a cavallo, sarti ebrei francesi scampati all'Olocausto, immigrati maltrattati e vessati a Londra, madre disperata d'un bambino malato di un tumore inguaribile, pazienti del manicomio nella guerra di Cecenia, ragazzo coreano disadattato che si dedica a ragazza coreana disabile, poeta italiano malato di mente, prigioniere di un convento-galera cattolico per ''traviate'', bambini bruciati e straziati negli ospedali di Kabul, prostituta napoletana ammazzata dal figlio. Come se all'impegno si sostituisse la pietà, al ''sociale'' la compassione, alle storie di eroi le vicende di vittime, o come se una vena di sadismo percorresse il cinema: sarà un po' troppo, anche se ogni vittima ha ricevuto grandi applausi, caldi e commossi?''
(Lietta Tornabuoni)