Una cellula al giorno... toglie il medico di torno
''Da bambino avevo un sogno...''
E così tra vent'anni un detector batterà il tumore.
La Repubblica, 18 novembre 2002
Il commento
Tutti noi […] tra una decina d'anni, al massimo una ventina potremo passare sotto una specie di detector, una sofisticata macchina diagnostica in grado di rilevare nel nostro organismo tumori di una sola cellula. Quindi passare dall'oncologo che neutralizzerà questa cellula e toglierà ogni rischio. Potremo dire agli amici: "Che seccatura, mi hanno trovato un tumore e devo rimandare la vacanza di un giorno o due".
Alla lettura di queste righe un'immagine prende forma nella nostra mente: quella di una parte infinitamente piccola - una cellula - che rea di essere cresciuta in modo abnorme viene scovata da un apparecchio molto più grande di lei - un detector - per poi essere neutralizzata.
L'ammalato (ma lo si potrà chiamare ancora cosi?), riterrà tutto ciò un semplice disturbo, un insetto da schiacciare e poi da dimenticare al sole dei tropici a tra le nevi di alte vette. Da quel momento tutto quello che è avvenuto in lui non lo riguarderà più.
Se questo da un lato, per certi versi può essere auspicabile, dall'altro sembra negare all'essere umano un'interezza veicolo di una dimensione emotiva che, molto spesso, è una delle cause principali del cancro.
La capacità razionale dell'uomo, sembra quindi ingigantirsi a dismisura assumendo le vesti di una macchina che riduce a dimensioni sempre più infinitesimali, quando non lo nega, l'urlo di dolore dell'essere umano ferito e sofferente.
Infatti, molte evidenze cliniche mostrano che le persone che si ammalano di tumore o di altre malattie gravi hanno avuto un periodo precedente, che va dai sei mesi a un anno e mezzo, esperienze di stress, implicanti gravi perdite affettive. Queste hanno determinato in loro una sensazione intima di disperazione senza via di uscita, la sensazione che la vita stessa sia vissuta come intrappolante.
Allora, il tumore rimanda sul piano simbolico al sentire la vita come un contenitore incarcerante dal quale non si può uscire, un progetto di morte, una via di uscita da una vita sentita come intollerabile: il soggetto ammalato può esprimere così la difficoltà ad amare e ad essere amato e la perdita della speranza che un giorno questo possa avvenire.
La realizzazione di una tale perdita della speranza e di una tale progetto di morte, cioè il cancro, può affacciarsi al soggetto come evidenza drammatica, attraverso il quale diventa consapevole del proprio desiderio autodistruttivo. Nel momento in cui non agisce più nella silenziosità dell'organismo, come un ladro di notte, ma si mostra nei suoi effetti di catastrofe, l'evento cancro può annientare ma può anche provocare un risveglio liberatore, come avviene quando ci svegliamo da un incubo. Esso è allora vissuto dalla coscienza come un segnale doloroso che porta il soggetto a svegliarsi per distaccarsi dal suo progetto autodistruttivo. Chi è colpito dal cancro si trova quindi in una situazione di grande pena perché si sente come catturato in un circolo vizioso: da una parte si sente bambino impotente, vuole reagire ma è trattenuto dal fatto che il tradimento mortale è stato messo in atto dal proprio stesso corpo, dal cui buon funzionamento dipende la vita.
Si può forse comprendere, allora, come l'incontrarsi con una malattia grave possa mettere in moto un nuovo programma di vita. L'istituzione terapeutica può costituire quindi un punto cruciale per la ristrutturazione di una speranza. Se una persona adulta non si sente in grado di amare e di essere amata si chiude in sé e perde sempre più la possibilità e il diritto di esserlo. Se, però, si ammala, è come ritornasse bambino e riacquistasse il diritto che gli altri si occupino di lui, così la malattia può diventare anche strumento d'amore.
Compito primario del medico, quindi, è quello di servirsi delle cure non solo per attaccare il male ma anche per far rinascere dentro il paziente la speranza che l'amore è possibile.
Il rischio della medicina moderna nel momento in cui diventa tecnologicamente più sofisticata è quello di non tener conto del vissuto emotivo del paziente. Essa dotandosi di "armi" sempre più efficaci dal punto di vista terapeutico si avvicina ad un'organizzazione militare lasciando da parte ciò che può essere il vissuto emotivo di un essere umano visto nella sua interezza. Spesso il male, nell'opinione comune, è visto come una minaccia esterna: è una tipica operazione dell'animo umano: offre il vantaggio di rendere la difesa più facile, in quanto è più agevole difendersi da un nemico esterno che non da un nemico interno a noi. Molte ricerche sul tumore si sono orientate sulle cause esterne trascurando in tal modo i fattori interni: le e mozioni e gli affetti. Non si vuole con questo negare l'importanza dei fattori patogeni esterni, ma essi sembrano spesso cause necessarie ma non sufficienti alla nascita e allo sviluppo di una malattia.
Compito del medico può essere, allora, quello di accogliere il disagio emotivo e la sofferenza del paziente, senza negarla ma riconoscendone la valenza più profonda, aiutando così il malato a poterla esprimere in maniera più consapevole, più simbolica. Aiutare, in ultima analisi, l'ammalato, a formare un proprio linguaggio emotivo, la cui assenza aveva portato il dolore a prendere la via del corpo e di una possibile malattia fisica.