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Il rischio della relazione

La notizia
Il teatro è il mio medico. Massimo Dapporto si racconta senza pudori. Intervista con l’attore a Genova come protagonista di ‘La coscienza di Zeno’.
Il Secolo XIX del 9 febbraio 2003

Gisella Troglia Il commento
Questa intervista è una fra le tante che i giornali chiedono agli attori quando arrivano nelle loro città con i nuovi spettacoli; non contiene domande particolari, spazia dal ruolo dell’attore nel pezzo teatrale a qualche suo riscontro personale, sia privato sia pubblico, approfittando del fatto che la riduzione teatrale di “La coscienza di Zeno” è, in un certo senso, un argomento facile per approfondire tematiche esistenziali personali.

Perciò ci sono le domande e le risposte di rito su, per esempio, i tormenti psicologici del protagonista rispetto all’incapacità di prendere decisioni, rispetto al male di vivere, ai rapporti con il padre, a suo volta famosissimo attore ma in un genere molto diverso da quello intrapreso poi dal figlio.

Nelle risposte, Massimo Dapporto non approfondisce particolarmente nessun tema, esprime solo qualche riflessione sul matrimonio, l’amore, suo padre, sull’essere genovese. Mi ha colpito soprattutto l’ultimo intervento:

Zeno ha una gran paura delle malattie e somatizza i suoi disagi. Anche lei?
In questo momento ho male alla punta di un dito ed è come se tutto il male del mondo mi avesse preso di mira. Il palcoscenico è il mio medico e il mio psicoanalista.

Forse il senso di una risposta così, davvero troppo breve e sintetica per permettere non più di qualche riflessione, può essere nell’affermazione: “Il palcoscenico è il mio medico e il mio psicoanalista”, perché delinea precisamente il senso di “cura” per tutti i mali, sia fisici sia psicologici, che questo attore sente nel suo lavoro.

Questo atteggiamento mi ha fatto venire in mente altre interviste o dichiarazioni di attori, di attrici o di cantanti, di persone comunque coinvolte nel mondo della spettacolo, e le loro dichiarazioni sull’importanza fondamentale e vitale di calcare sempre le scene, per sentirsi bene attraverso il lavoro; gli attori di teatro affermano di riuscire a capire o ad approfondire lati di sé, o comunque di placare tormenti personali, attraverso le loro interpretazioni, sera dopo sera, i cantanti rilevano che questo accade loro, sia attraverso la musica, sia soprattutto attraverso il contatto con il pubblico durante i concerti.

Sicuramente tutti i mestieri “artistici” implicano un’innata predisposizione, una forte passione, una grande tenacia e senso di sacrificio, ma è inevitabile notare, in tutte queste persone di spettacolo, l’accentuazione più o meno calcata di un certo senso di sicurezza, di stima di sé o, in termini più psicologici, di aspetti narcisistici, che è probabilmente la loro “arma a doppio taglio”, una modalità interiore che, se li sostiene, e molto, nel campo del lavoro, può procurare però molta sofferenza nella vita privata.

Intendo dire che ciò che permette di affrontare tutte le sere il pubblico calandosi in personaggi diversi da se stessi, può diventare, fuori dal palcoscenico, il tarlo che mina proprio il senso di sé e la sicurezza, perché fa sentire il peso delle proprie incertezze irrisolte, la sofferenza delle risposte non trovate, producendo quindi il desiderio continuo di calcare sempre le scene, perché solo lì si può star bene.

Perciò si può capire l’importanza “curativa” che attori o cantanti attribuiscono al loro lavoro, la dichiarazione frequente di non poter stare lontani più di un certo tempo dal palcoscenico o dal set cinematografico…

Non c’è dubbio che recitare implichi una buona capacità di tenere saldi in se stessi dei punti di riferimento, poiché si è costretti ad entrare nella parte, a calarsi nell’identità di altri personaggi, e questo magari tutti i giorni, per mesi, per anni; se è vero che questo può indubbiamente risultare efficace per confrontarsi con gli aspetti più nascosti e profondi di sé, è però anche probabile che questo confronto possa diventare alla lunga logorante e soprattutto possa a volte spaventare o mettere in crisi, perché ha la caratteristica di un lavoro introspettivo fatto sempre e soltanto da soli.

Questa idea che serpeggia profonda di poter fare tutto da soli, con le proprie forze ed il proprio coraggio, nasce probabilmente da una fase della primissima infanzia, quando il bambino si sente inerme, piccolo, incapace di far fronte alla realtà di essere al mondo e a tutti i problemi a essa connessi, probabilmente poco sostenuto in questa fatica dall’ambiente affettivo che gli sta intorno.

Può così sviluppare la sensazione di doversela cavare sempre da solo, anzi, successivamente, che “solo da solo” farà bene! Questa fantasia onnipotente consente di attraversare tutte le fasi difficili della vita, ma fa correre anche il rischio di non riuscire poi a confrontarsi con una relazione vera, sia essa di amicizia, di amore, terapeutica o di lavoro: infatti, ogni relazione diventa tanto più autentica e vera, e quindi tanto più arricchente affettivamente, quanto più mantiene presente sullo sfondo la paura della fallibilità umana, dell’errore, del legame e dell’eventuale perdita di esso.

Da quanto si sa dalle loro dichiarazioni, spesso le persone di spettacolo hanno vite private difficili, dovute certamente ai ritmi e alle tensioni imposti dal lavoro, ma anche, ho il sospetto, da questa tendenza interiore, in parte ricollegabile all’opera di parti onnipotenti di sé idealizzate, che agiscono a livello non cosciente ed impediscono lo sviluppo di relazioni normali, quelle, cioè, da vivere giorno dopo giorno con il rischio di non essere accettati, celebrati, applauditi! Sul palcoscenico, invece, pur con sacrificio e fatica, ci si mette in mostra, si può far vedere quanto si è bravi, si ricevono applausi, si sente il calore del pubblico, si è addirittura pagati per tutto questo… senza però avere un rimando dall’altro, che non sia solo l’applauso.

Mi è anche venuto in mente il recentissimo film di Carlo Verdone, “Ma che colpa abbiamo noi”, che tratta del rapporto delle persone con il male di vivere rispetto al mondo della psicoterapia, abbondantemente preso in giro in tutti quei suoi aspetti facili e forse banali, quelli che tuttavia contribuiscono a volte a fargli perdere credibilità.

Questo film, secondo me, è solo apparentemente allegro, al contrario mi è sembrato di una comicità tutto sommato assai triste: infatti, in esso si racconta di un gruppo di persone in terapia che perdono la propria analista e da allora tentano affannosamente, attraverso diversi fasi, di continuare il lavoro terapeutico per affrontare il malessere di ciascuno. Attraverso le vicissitudini dei diversi personaggi, che arriveranno alla tragedia, si constata alla fine come questi tentativi affannosi ed affannati di “autoterapia” consentono sì a qualcuno di prendere in mano la propria esistenza, ma solo apparentemente, poiché non è posto in atto un vero cambiamento nelle loro esistenze, ma soltanto un aggiustamento di direzione della loro vita, dovuto soprattutto al buon senso o al caso.

Nel film è molto evidente quello che sento essere sottinteso quando leggo interviste come quella che ho citato: quando, nella vita come in un’eventuale terapia, non si accetta di mettersi in gioco in una relazione vera e vissuta, non resta che fare da soli, a costo di non poterne più fare a meno, così come sembra trasparire dalle parole di Dapporto, per il quale il palcoscenico può diventare medico e psicoanalista, e curare tutti i mali del mondo che gli possono capitare.

D’altra parte capisco che accettare il rischio della relazione, qualunque essa sia, può fare davvero molta paura, perché fidarsi dell’altro è troppo pericoloso, dato che si deve inevitabilmente fare i conti con la possibilità di essere abbandonati dopo che ci si è fidati, e anche solo intuire un rischio simile può essere troppo doloroso, sfiora il ricordo antico e ancora bruciante di quanto, forse, può essere già successo una volta, molto tempo fa…

Allora, non intraprendere relazioni affettivamente coinvolgenti, affrontare i propri problemi esistenziali da soli, può diventare il rimedio; curarsi da soli, anche esplorando faticosamente identità altrui come fanno gli attori, può aiutare a mettere a tacere soprattutto la sofferenza, ma al costosissimo prezzo di rinunciare alla elaborazione costruttiva, alla ricchezza creativa, alla gioia e al piacere che derivano dallo stare insieme, dallo scambio emotivo, dal dialogo con l’altro.