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Cineforum settembre-novembre 2010

La Scuola di Psicoterapia Comparata presenta un ciclo di proiezioni dal titolo:

"Itinerari cinematografici dai crocevia dell’esistenza"

24 settembre 2010 – ore 20,30
La Famiglia (1986) di E. Scola
A cura di Caterina Pasquini e Lorenzo Franchi    


22 ottobre 2010 – ore 20,30
L’età barbarica (2007) di D. Arcand
A cura di Raffaella Filipponi e Patrizia Iandelli    


19 novembre 2010 – ore 20,30
Anche libero va bene (2006) di K. Rossi Stuart
A cura di Patrizia Iandelli e Ilaria Detti    


via de' Rustici, 7 - Firenze
ingresso libero con prenotazione obbligatoria
055 2479220 – Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Locandina ciclo di proeizioni: http://www.spc.it/pdf/varie/Cineforum_2010_2.pdf

Locandina "La Famiglia": http://www.spc.it/pdf/varie/La_famiglia.pdf

Locandina "Le età Barbariche": http://www.spc.it/pdf/varie/Le_età_barbariche.pdf

Locandina "Anche Libero va bene": http://www.spc.it/pdf/varie/Anche_libero_va_bene.pdf

Cineforum febbraio-giugno 2010

La Scuola di Psicoterapia Comparata presente un ciclo di proiezioni dal titolo

"Itinerari cinematografici dai crocevia dell’esistenza"

19 febbraio 2010 – ore 20,30
Mulholland drive (2001) di D. Lynch
A cura di Mattia Artibani

12 marzo 2010 – ore 20,30
Film Rosso (1994) di K. Kieślowski
A cura di Giuseppe Gulizia

9 aprile 2010 – ore 20,30
Risvegli (1990) di P. Marshall
A cura di Tiziano Toracca

7 maggio 2010 – ore 20,30
Rashomon (1950) di A. Kurosawa
A cura di Francesco Verri

4 giugno 2010 – ore 20,30
Mare dentro (2004) di A. Amenábar
A cura di Carmen Cini

via de' Rustici, 7 - Firenze
ingresso libero
con prenotazione obbligatoria
055 2479220 – Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 Locandina: http://www.spc.it/pdf/varie/Cineforum_2010.pdf

Le vite rubate: radiografia di una dittatura

La notizia
La Germania è divisa: non sa se esentare dal suo compito la Birthler Behorde - autorità guidata dall'ex dissidente Marianne Birthler - che custodisce le schedature effettuate dalla STASI, Ministero per la sicurezza dello Stato, in un periodo di quasi 40 anni. Su tale istituzione pesa un'accusa infamante: dei suoi duemila dipendenti, almeno 54 sono stati smascherati come ex Stasi. Fanno, però, ancora parte della struttura e si dice persino che abbiano ancora i conti aperti in Svizzera. Il passato non passa e l'orrore della dittatura rossa continua a vivere nel presente.

La Repubblica, 8 luglio 2007

Il commento
La Stasi, fondata l'8 febbraio 1950, aveva lo scopo dichiarato di vigilare intorno e contro i possibili tentativi eversivi verso lo Stato. Fino a metà degli anni ottanta, la rete di spie crebbe all'interno della DDR, così come nella Germania Est. Venne stimato che la Stasi disponeva di 91.000 impiegati a tempo pieno e probabilmente di 100.000 informatori. Questo significa che circa un tedesco dell'est ogni cento era una spia, probabilmente la percentuale più alta mai raggiunta in una società.

La Stasi monitorava i comportamenti politicamente scorretti di tutti i cittadini della Germania Est, in maniera simile a quanto faceva la Gestapo nella Germania Nazista, ma, a differenza di quest'ultima, utilizzava molto raramente la tortura e l'omicidio, preferendo metodi di pressione psicologica. Una volta definito il soggetto, l'obiettivo era di costringere la persona ad abbandonare la propria posizione sociale, lavorativa o accademica. A risultato raggiunto, spesso la vittima veniva poi integrata, a sua volta come informatore. Durante la rivoluzione pacifica del 1989, gli uffici della Stasi vennero invasi dai cittadini, non prima che un grande quantitativo di materiale compromettente venisse distrutto dagli ufficiali del servizio segreto. I documenti rimasti sono oggi disponibili per tutte le persone che erano spiate e molti di essi ne hanno fatto richiesta. Intrecciano, ora, la loro sorpresa e il loro sconcerto.

Rainer Schubert, impiegato presso la DPA, l'agenzia di stampa tedesca, aiutava le persone a fuggire a Berlino Ovest finché, nel gennaio del 1975, non fu arrestato. Incarcerato per nove anni e spostato da un carcere lager della Stasi ad un altro, così racconta: "Almeno tre dei miei compagni furono assassinati e io trascorsi quei nove anni in totale isolamento". Isolamento fatto anche di violenza e torture.

Edda Schoehnherz negli anni settanta era una giornalista di successo, progressivamente sempre meno tollerante verso il "clima" del suo paese. "Mi recai in Ungheria, presso le ambasciate occidentali. Che ingenua, non sapevo di essere sorvegliata!". Tornata in Germania, fu incarcerata per tre anni, senza che mai sapesse dove era e senza potere vedere i suoi due figli.

Alex Latotsky è nato in carcere perché sua madre si era rifiutata di diventare delatrice; ha passato nel Gulag i primi due anni di vita e poi è stato destinato ad un orfanotrofio.

Tatiana Sterneberg ha fatto anni di prigione punitiva solo perché voleva sposare un italiano. Queste persone, insieme a molte altre - lo scorso anno sono state 97 mila - hanno fatto richiesta di avere i dossier compilati su di loro dalla Stasi e lo sconcerto è stato enorme: "Sapevano tutto di me: a che ora mi svegliavo, a che ora uscivo di casa, quali bar frequentavo, avevano annotato anche il colore delle mie mutande. […] La mia casa era piena di microfoni, segnavano persino quando portavo il cane a passeggio. Avevano affittato un appartamento di fronte al mio per sorvegliarmi; ogni istante della mia vita era fotografato a distanza e registrato dai loro microfoni".

Una tragica Spoon River di un popolo di sorvegliati speciali che vogliono riprendersi la loro memoria e la loro identità.

Fatti noti, questi, potremmo pensare; fatti che appartengono ad ogni dittatura. La raccolta di informazioni, la catalogazione burocratica, relativa ad eventuali dissidenti da controllare e prevenire nei loro possibili gesti di eversione rispetto alle linee del regime.

Una grande parte delle energie dello Stato destinate a questa complessa operazione che, nel caso della Germania Est, ma più in generale, in occasione di ogni totalitarismo, ha finito per portare a considerare ogni cittadino quale potenziale nemico. Di ogni persona, allora, bisogna cercare di conoscere tutto, fotografare ogni singolo momento della vita, senza lasciare alcuno spazio di autonomia. Proprio questa, infatti, è individuata come la minaccia più cospicua, il luogo dove l'altro sicuramente utilizzerà le sue risorse e le sue energie non per collaborare, ma per una lotta contrappositiva. Quella libertà, da cui potrebbe scaturire un'accettazione, è sentita come troppo aleatoria e, piuttosto che attendere un non necessariamente preordinato consenso, si decide di esigerlo e di costruirlo con la forza.

Sappiamo, su altro piano, quanto la necessità del controllo sia centrale in ogni tipo di rapporto che istituiamo. Insuperabile è l'angoscia e il dolore nel rendersi conto di come le persone da cui dipendiamo affettivamente, siano separate da noi e possano smettere di essere disponibili in qualsiasi momento del tempo. Possono addirittura avere la ventura di non esserci mai più per noi, scomparire per sempre. Ciò è intollerabile nella misura in cui solo con l'altro riusciamo a vivere la sensazione di una profonda accettazione di noi stessi. C'è qualcuno che non mi rifiuta, che ogni momento mi porta testimonianza, con il suo cercarmi, del fatto che anche io sono "cosa buona".

Con l'altro, insomma, recuperiamo il filo di coerenza interna, di continuità di identità di cui, sul piano emotivo, facciamo esperienza come sensazione di potenza, infallibilità e bellezza.

La relazione, a tale livello, sembra quasi cancellare tutti quegli aspetti del sé vissuti con dolore e con rifiuto, impossibili da integrare e troppo spesso proiettati all'esterno. E visto che la mente, in assenza di una concreta vicinanza, può non riuscire a mantenere nella sua memoria l'immagine di una compagnia benevola, diventa necessario un incessante controllo, in modo da avere la quasi percezione fisica dell'esserci dell'altro per noi. Controllo dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, persino della vita segreta del suo corpo, dove può annidarsi, nascosta agli occhi di tutti, il seme di una separazione straziante, vissuta esclusivamente sul registro del rifiuto e dell'abbandono. Finestra aperta su di un me che si dissolve, che non sa più trovare un suo centro e un suo consistere, consegnato ad un non essere che sa di nulla e di male.

Per questo, allora, in ogni momento devo sapere quello che fai, seguire, istante per istante, la tua vita, così da evitare la destabilizzante sorpresa dell'incontro con uno sguardo che io non conosco, che non è nato da ciò che condividiamo. Quello sguardo, modo di non essere con me, viene da un humus contaminante di percezioni che mi escludono, lontananza che distrugge la continuità del mio essere e lascia sulla pelle la traccia bruciante del tradimento. Voglio diventare l'artefice dei tuoi pensieri, scoprire in anticipo ogni loro possibile evoluzione, desiderio, embrione di progetto, affinché nessuna separatezza mai ci raggiunga. Anelito di compiutezza, di immobile splendore non turbato da cambiamento, da sempre insoppribilmente presente nel cuore dell'uomo. Dice Parmenide nel Frammento VIII
"[…] L'essere è ingenerato e anche imperituro: infatti è un tutto, immobile e senza fine; né una volta era né sarà, perché è tutto insieme ora, uno continuo. […] E identico nell'identico, restando, in sé medesimo, giace. […] E non è divisibile, giacché esso è tutto eguale: non c'è da qualche parte un più di essere che possa impedirgli di essere continuo: infatti l'essere si stringe con l'essere"
È in questo senso che ogni dittatura, come quella della Germania Est, sembra realizzare, quasi rappresentare sulla vasta scena della dimensione sociale, tale lacerante esigenza dell'anima. Dopo l'eliminazione di ogni differenza e di ogni distanza, resta un solo pensiero e una sola azione che da quel pensiero discende. La strategia del controllo, espressa sul piano collettivo come su quello interpersonale, contiene in sé un desiderio assoluto: ridurre l'altro a "macchina organica", senza emozioni e senza pensieri, in modo che sia più semplice determinarlo. Gli scenari della storia, gigantesche lenti d'ingrandimento, così simili, a volte, a quelli dei film di fantascienza, ci presentano, in modo drammatico, questo "sogno" della mente. I roghi di Farenheit 451, come quelli del nazismo a noi ancora così vicino, sono un tentativo di ardere ed incenerire per sempre il patrimonio di consapevolezza di sé che l'uomo trasmette attraverso lo scorrere dei secoli. Sopprimere, in altre parole, ogni mezzo che possa consentire un'esperienza della propria separatezza e della propria irripetibilità, impedendo un'individuazione rispetto alla collettività sociale nella quale si è immersi.

Sul piano interpersonale, ciò si cerca di ottenere con tutti i tentativi di infantilizzare l'altro, in modo da mantenerne una dipendenza da noi strutturale ed insuperabile. Avvolgere l'altro in una sorta di maternage mortifero che gli sottragga ogni spazio per esperienze in cui sentirsi solo ed incontrare se stesso. Rubo la vita a coloro che mi sono vicino, a chi io amo, perché in questo modo anche io potrò evitare di sentirmi individua essenza, separato da ogni altro, calato nella solitudine della mia esistenza soggettiva fatta di mancanze, di limiti, di dolorose fragilità, il vero nemico contro cui l'uomo si trova a lottare sia sul piano dei legami affettivi che su quello delle strutturazioni sociali.

Dedicare tutte le proprie energie al mantenimento dell'illusione di un legame di fusione, è "progetto" che nasce proprio dalla paura di essere soli e di dovere provvedere in proprio al fondamento della personale realtà, accettando la provvisorietà dei rapporti, la non continuità della presenza degli altri. Pensando di poter correre il rischio di custodire quelle assenze senza che si mutino nella sensazione disintegrante di non esistenza.

Abbandonare questa illusione coincide con la rinuncia ad un'immagine onnipotente di sé, un sé alieno dal limite, dalla perdita, dall'imperfezione e dalla morte. Possiamo, certo anche con angoscia, decidere di non pietrificare più l'istante in un sogno di perfezione per entrare nel tempo - l'unica vita che abbiamo - fatto di momenti che si susseguono senza soluzione di continuità, cercando di trovare il nostro equilibrio in questo incessante scorrere, nella consapevolezza che tale equilibrio è ottenuto attraverso un concatenamento di posizioni instabili. Dice Martin Heidegger in un passo di Essere e Tempo:
"L' "essenza" di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. [..] L'Esserci è sempre la sua possibilità ed esso non l' "ha" semplicemente a titolo di proprietà. Appunto perché l'Esserci è la sua possibilità, questo ente può, nel suo essere, o "scegliersi", conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto. Soltanto se, nell'essere di un ente, morte, coscienza, libertà e finitudine confluiscono cooriginariamente, questo ente può esistere nel modo del destino. Solo un ente che, nel suo essere, sia essenzialmente AD-VENIENTE, cosicché, libero per la propria morte, possa, infrangendosi in essa, lasciarsi rigettare nella propria effettiva incarnazione; cioè, solo un ente che, in quanto ad-veniente, sia cooriginariamente ESSENTE-STATO, può, tramandando a se stesso la possibilità ereditata, assumere il proprio esser-gettato nel mondo ed essere, NELL'ATTIMO, per "il suo tempo". Solo una temporalità autentica, che è nel contempo finita, rende possibile qualcosa come un destino."
Certamente tutto questo richiede coraggio e anche pazienza per la nostra paura. Non è semplice contenere senza rimanerne feriti i "vuoti d'essere", le mille assenze di un significato presente solo nella forma del non ancora oppure di un suo esserci e tramontare nello stesso tempo. Tutto ciò, emotivamente, risuona come "non essere di nessuno", il volto più deturpante e terrifico della morte. Proprio per questo, l'orizzonte della temporalità obbliga allo sviluppo della capacità di custodire dentro di noi il senso del nostro essere per poterne fare dono a noi stessi e agli altri, nel rispetto della libertà individuale, quella libertà da cui può venire il silenzio efferato dell'assenza di contatto come anche l'affetto appassionato ed ardente del legame.

Il velo della first lady: Turchia e destino del mondo

La notizia
Evento degno di nota, il fatto che la signora Gul, moglie del neopresidente turco, si sia presentata nella sua veste ufficiale indossando il velo, un "capo" così inevitabilmente pervaso di significati. Attualmente, gli stilisti sono al lavoro per de-islamizzare completamente l'abbigliamento femminile delle donne di religione mussulmana: lo stesso turban, la tenuta che abbina il velo alla veste lunga sino ai piedi, viene riformulato dall'alta sartoria. In una recente sfilata ad Istambul, bellissime modelle hanno inaugurato una moda che lo vorrebbe persino vezzoso e sexy. E tutti i capi femminili sembrano destinati ad identica rivisitazione.

La Repubblica, 2 settembre 2007

Il commento
Effetti della de-islamizzazione dell'abbigliamento si possono già apprezzare oggi sulle spiagge turche: fa la sua comparsa la nuova moda del due pezzi islamico, il burkini, una specie di uniforme monocroma che aspira a mettere insieme la civetteria con i rigori della militanza. La foggia è sempre identica: pantaloni, casacca a maniche lunghe, cappuccio con visiera stretto sotto il collo; si possono, però, scegliere i colori che contemplano persino alcune fantasie floreali dalle delicate tinte pastello. Sotto un sole rovente che segna 42 gradi all'ombra, si muovono queste figure colorate che, ci dice l'articolista, fanno pensare ad un extraterrestre caduto da un'astronave oppure ai teletubbies, pupazzi androgini che animano un programma di cartoni animati per l'infanzia.

Sono immagini di quella Turchia che pretende la verginità della sposa, una sposa che, non di rado, conosce il marito solo il giorno del matrimonio, raramente ha un'istruzione e quasi sempre osserva le prescrizioni della tradizione religiosa. Ancora nel 1987, un giudice poteva rifiutare l'aborto ad una donna stuprata dal marito con la motivazione che "due cose non vanno mai tolte ad una donna: un feto dal grembo e una frusta dalla schiena".

È anche vero che nel 2004 il parlamento, dominato dall'AK islamico, ha varato un codice penale che introduce la parità di diritti tra uomini e donne, in particolare in materia di matrimonio, di divorzio e di eredità; ha trasferito la sessualità femminile dalla categoria dell'onore familiare al terreno dei diritti individuali. Il parlamento, inoltre, ha avviato programmi per reprimere le violenze domestiche ed allargare l'accesso all'istruzione. In realtà, però, non sembra sufficiente promulgare nuove leggi per cambiare la società; se questo bastasse, infatti, la Turchia sarebbe già mutata negli anni trenta, quando Ataturk abolì la poligamia e condusse le donne la voto, tra l'altro, molto prima che in Italia (1934).

Le riforme di allora sembrano non aver saputo e potuto tenere conto di molti elementi compresi nella complessità che intendevano governare. Se oggi sulle spiagge del mar di Marmara fa la sua comparsa il burkini, se il turban sembra essere veste diffusa nella moderna Istambul, si può pensare che profonde istanze culturali ed emotive siano rimaste non interpretate dalla riforma laica realizzata in passato. L'abbigliamento e la condizione generale della donna, come dice la scrittrice Elif Shafak, diventano l'elemento significativo attraverso cui un modo di sentire e di pensare cerca riconoscimento nella quotidiana strutturazione sociale.

Un modo di sentire che si fa veicolare da un corpo femminile velato e nascosto. Un corpo trasformato in un extraterrestre teletubbies, privo della definizione dell'umano, in particolare delle caratteristiche che hanno a che fare con la corporeità femminile e con la sessualità.

Ancora una volta, possiamo pensare, dobbiamo prendere atto di come sia difficile presiedere all'accettazione della realtà che ci costituisce, soprattutto di quella dimensione che ci lega alla terra e all'organicità. E ci possiamo chiedere le ragioni di questa apparentemente mai finita e mai compiuta fatica dolorosa di integrazione.

Il corpo è originaria apertura al mondo ed esiste nell'incontro con le cose che abitano il mondo. Sappiamo di essere quando tocchiamo un oggetto, lo sfioriamo, ci facciamo sorprendere dalla sua superficie ruvida od avvolgente. Null'altro siamo, in quel momento, se non quello che proviamo: particelle di morbido di seta o lucentezza specchiante di cristallo.

Senza riferimenti al mondo, il nostro corpo - e noi con esso - ricade nella condizione di cosa, come avviene, in parte, nel sonno e, più compiutamente, nella morte. Apparteniamo agli oggetti che troviamo e ancor di più apparteniamo all'incontro con gli altri. È nello sguardo dell'altro che sentiamo noi e la nostra vita quando quello sguardo si posa sul nostro volto. Le nostre molteplici e sparse sensazioni, diventano forma unitaria e definita nell'attenzione indivisa che l'altro ci destina, un'attenzione che, nel suo accogliere, si fa anche accettazione.

Per questo, dice Sartre, la nostra esistenza è in quanto chiamata. L'altro, nel suo chiamarci, ci fa uscire dalla condizione di indefinitezza, di entità priva di forma e di significato. E ciò compie a partire dalla sua libertà, con un gesto che promana da un non condizionato volere. Nell'incontro con l'altro, non c'è possesso, ma l'accoglimento della gratuità di un dono. Da tale punto di vista, tutto ciò che siamo è un dono:
"queste vene sulle mie mani è per bontà che esistono. Ed è per bontà che io posso avere degli occhi, dei capelli, delle sopracciglia e regalarle a quel desiderio che l'altro si fa liberamente essere. Mentre prima di venire guardati con amore eravamo inquieti per questa protuberanza ingiustificata che era la nostra esistenza, mentre ci sentivamo di troppo, ora sappiamo che tale esistenza è voluta nei minimi particolari dalla libertà dell'altro. È questo il fondamento della gioia d'amore: sentirsi giustificati di esistere"
J. P. Sartre, L'Essere e il nulla.
Il piacere che proviamo in ogni incontro nasce proprio dal rinvenimento di noi stessi nell'accettazione che l'altro ci offre. Piacere scoperto e trovato, piacere che incalza per chiedere la nostra disponibilità, il nostro abbandono a quella nuova presenza, chiamando corpo e mente ad un ordine di significati che prima erano semplicemente insospettati oppure presenti solo nella forma di incompiuto presagio. Di fatto, non sappiamo come diventeremo nella mente e nella carne dell'altro, sappiamo solo che certamente non saremo più come ora ci conosciamo. Sono gli altri a possedere il segrete di ciò che siamo.

Una così radicale dipendenza genera angoscia perché dagli altri può venire accettazione, ma anche rifiuto. L'altro può avvicinarsi, indifferente a ciò che siamo, per tramutare l'incontro in luogo dove trovare solo se stesso, occasione di "approvvigionamento di vita" messa al servizio di un ideale di grandezza che deve essere continuamente alimentato in quanto unico possibile luogo di identificazione. Oppure l'altro può tradirci ancora più profondamente scomparendo dal nostro orizzonte relazionale, facendo venire meno quella trasfigurazione di noi che solo quel particolare sguardo, quel preciso luogo d'incarnazione, poteva portare all'essere.
"Tu fosti il mio più bel legame con la vita. Sei diventato la mia conoscenza della morte".
A.Philipe, Le temps d'un supir
E nella morte dell'altro, finiamo per vivere un'anticipazione della nostra stessa morte. "Ogni cadavere - dice Pavese in Prima che il gallo canti - somiglia a chi resta e gliene chiede ragione". Sappiamo che un giorno, inaspettato e non voluto, più nulla sarà nostro; tutto ciò che tocchiamo, che sentiamo, che amiamo senza condizione, sino a baci e lacrime, è partecipazione temporanea, sottoposta ad un finire perentorio e senza appello.

Di fronte alla consapevolezza di questa realtà tragicamente instabile, temporanea, mai compiuta e mai nostra, così contraria al desiderio di poggiare su più solido consistere, l'Occidente, attraverso gli strumenti culturali, ha inventato strategie difensive. Già nel pensiero greco, il corpo ha cominciato ad essere sentito e presentato come quantità negativa da governare e trascendere, falsa parvenza che con l'essere dell'uomo poco ha a che fare. Prospettiva simile si trova nella tradizione religiosa ebraico cristiana che ha informato di sé le categorie del nostro pensiero. Un corpo simbolo di caducità ed impotenza ed un'anima legata al desiderio e al dolore dell'eccitabilità emozionale, sono salvati dall'alleanza con Dio, il solo a possedere il soffio dell'autentico consistere. Peccato è la rottura dell'alleanza, è una carne che si progetta in una libertà assoluta, con ciò consegnandosi al regno del male e della morte.

Una carne, quindi, da cui affrancarsi attraverso la creazione di forme di identità liberate del peso della corruttibilità della materia. Il corpo diventa res extensa, affiancato da un'anima che è puro pensiero matematico, nelle cui asettiche concatenazioni logiche si immagina riposi il significato di ogni cosa. Le esperienza di un corpo imperdonabilmente sensibile, commosso dagli oggetti del mondo e dalla profondità degli sguardi, sembra definitivamente scomparso, confinato nel nulla d'essere dell'assenza di significato. Mentre, per parte sua, il corpo res extensa, può essere saputo con precisione e chiarezza, può essere scomposto, misurato, descritto nelle sue componenti: muscoli, ossa, innervazioni.

È il corpo del sapere scientifico che si conosce in base alla sezione dei cadaveri, ma il cadavere sezionato è solo una simulazione di quello vivente e si basa su un sapere che ha la morte come riferimento. La scienza, a ben vedere, non descrive la realtà, ma l'iper-realtà delle sue costruzioni, mascherate dal simulacro dell'oggettività e ci consegna, ultimo punto d'approdo del nostro sofisticato pensiero, ad una dimensione dove più nulla sappiamo del corpo vivente. Ciò che in esso accade, è qualcosa di non universalizzabile, quindi abbandonato ad un privato individuale di cui non mette conto prendersi cura.
"L'inadeguatezza dell'animale all'universalità e la sua malattia originale ed è il germe innato della morte".
G. W. Friedriech Hegel. Enciclopedia.
Forse, proprio per questo abbiamo nascosto il nostro corpo con i vestiti, non solo per bisogno di protezione, ma, più profondamente, per cercare di dissolvere qualcosa che ci inciampa, che ci rende per sempre individua substatia, troppo lontana dallo splendore etereo ed immortale degli universali.

Dice ancora Hegel nell'Enciclopedia:
"Il vestito trova origine […] nel pudore. Il pudore è l'inizio dell'ira contro qualcosa che non deve essere. L'uomo si sforza di nascondere quelle parti del suo corpo che servono solo a funzioni animali e non hanno un'espressione spirituale".
Siamo riportati al fatto di cronaca da cui siamo partiti. La Turchia oggi ci ripropone con forza questo dilemma: l'inquietudine e la vergogna per un corpo umano che si vorrebbe non essere, nella ricerca di un'identità per sempre liberata dal peso intollerabile della fragilità del desiderio.

Non solo: ad essere ostentatamente coperto è il corpo della donna, quella donna, dunque, che si incarica di ricevere nella sua carne e nella sue essenza la quantità di significazioni negative di cui si è detto circa il corpo.

Certo, sappiamo quanto possa essere complicato per ogni uomo il cammino verso la separazione. Se tutti i bambini amano senza deroghe e senza condizioni il loro primo altro relazionale, ossia la madre, e se amare significa identificarsi con l'oggetto d'amore, ogni maschio deve, però, negare, in seguito, questa originaria identificazione, al fine di pervenire alla propria specificità di genere. Nello sforzo disperato di separarsi, dominato dall'angoscia di mai più riuscirvi, può trovare ed utilizzare l'espediente del disprezzo. Più facile è lasciare qualcosa di indegno. La donna diventa entità meno che umana, incapace di autonomia, totalmente dissimile ed altra da sé.

Questo éscamotage che consente all'uomo lo strappo verso un'autonomia stereotipata, lo espone, però, al rischio di perdere la sua capacità di riconoscimento reciproco, dato che la sintonia emotiva è il luogo dove maggiormente teme di perdere se stesso. Contemporaneamente, la donna può accettare l'attribuzione di tale mancanza di soggettività, disponendosi a dare riconoscimento senza riceverlo, diventando incapace di esprimere il proprio desiderio e la propria partecipazione affettiva. E ciò può fare nel tentativo di trovare sollievo dal senso di colpa che le proviene dall'esercizio del suo potere di madre: solo lei può generare alla vita, prevalentemente a lei è affidata la cura dei nuovi esseri umani.

In qualche modo, allora, un dramma evolutivo da una parte e il peso per l'esercizio del potere dall'altra, possono diventare occasioni per una sotterranea alleanza, dove uomini e donne trovano la quantità di energia necessaria per cercare di umiliare un corpo esecrabile, insopportabilmente esposto alla multiformità del mondo, tragicamente determinabile, instancabilmente catturato dal calore delle carezze, dalla più insignificante delle allegrie, già ora contaminato dalla decomposizione della carne.

Oggi la Turchia chiede di entrare a far parte dell'Unione Europea e la questione è oggetto di profonde e spesso contrastate riflessioni. Gli esperti di politica parlano delle difficoltà o dei vantaggi che un tale evento potrebbe portare con sé.
"Certamente oggi - afferma A. Politi, analista strategico - nell'Unione Europea sono presenti importanti sfide politiche e sociali. Da quando l'Unione europea è stata costituita, però, siamo riusciti ad integrare cattolici, protestanti, ortodossi ed ebrei e non si capisce come mai non si possa integrare un paese laico mussulmano, quando la religione mussulmana è al secondo posto in Europa. Dire che la Turchia non è europea, non significa solo negare la realtà storica di mezzo millennio, nonché l'eredità di Ataturk, ma la nostra stessa laicità. Uno dei punti più importanti di tale laicità è proprio la capacità di saper trasformare i paesi membri. La domanda, a questo punto, è se vogliamo che la Turchia resti una mina vagante tra un golfo ed un levante in disgregazione e un'Europa politicamente in crisi, o se pure pensiamo di poterci assumere la fatica di un ulteriore dialogo".
A. Politi, Turchia: il rapporto tra laicità e democrazia
Del resto, non è che la nostra società cosiddetta avanzata ci proponga un sentire il corpo davvero diverso da quello che troviamo lungo le coste del mar di Marmara. Un corpo il più possibile esibito ed enfatizzato nelle caratteristiche maschili e femminili, modificato dalla chirurgia estetica, programmato dall'ingegneria genetica, semplicemente rimanda ad un'ulteriore strategia di nascondimento e di rifiuto per quella fragilità del troppo umano. Tra le molte cose che la nazione Turca ci potrebbe portare c'è, forse allora, la maggiore visibilità di un dolore per il nostro legame con la terra e con la caducità, un dolore di cui, ancora una volta, siamo chiamati a prenderci cura.

Il fascino discreto dell'eterna giovinezza

La notizia
L’articolo esamina uno specifico fenomeno demografico particolarmente importante per la nostra epoca e la nostra cultura. Alla fine del secondo conflitto mondiale, si verificò un imponente aumento delle nascite sia in America che in Europa. Anche se il Washington Post annunciò che il baby boom, frutto della smobilitazione, era cominciato, si affrettò, poi, a rassicurare i lettori che la cosa non sarebbe durata a lungo. In realtà, l’ondata di fertilità si protrasse per 19 anni, aggiungendo alla popolazione mondiale altri 78 milioni di persone.

La Repubblica, 7 novembre 2005

Il commento
L’articolo ci parla della natura di una generazione davvero singolare: quella che appartiene al boom demografico del secondo dopoguerra. È il periodo della ricostruzione, gli orrori del conflitto mondiale sembrano appartenere ad un tempo definitivamente concluso. Finalmente c’è uno spazio a disposizione, dove sembra possibile pensare e realizzare progetti che non si frantumano sotto il peso di una distruzione continuamente operante ed apparentemente ineliminabile. Una libertà di costumi sino ad ora sconosciuta, si coniuga da un progresso delle condizioni materiali e nuove prospettive di vita diventano tangibile realtà. Torna la possibilità della fiducia, la speranza in un compimento positivo, frutto di operosa costruzione. È proprio questo clima di rinnovata fiducia nelle proprie possibilità, quello che accoglie la nascita dei boomers, un clima dove data per scontata è la soddisfazione dei propri bisogni. Quando questi bambini hanno appena un anno, compaiono i primi programmi TV per l’infanzia, gli elettrodomestici popolano le cucine, l’automobile è bene improvvisamente irrinunciabile. Nasce l’organizzazione familiare e sociale del nostro tempo e pare che nasca non solo con loro, ma proprio per loro. La caratteristica della trasformazione sembra diventare tratto definitorio e strutturante dei boomers che finiscono, da quel momento in poi, per ridescrivere ogni stagione della vita attraverso cui passano, nel corso del loro crescere. C’erano, avevano più o meno 9 anni, durante il boicottaggio degli autobus a Montgomery, inizio delle proteste che portarono ad un diverso rapporto tra le razze; sono stati protagonisti delle battaglie per il superamento della divisione tra i sessi; erano ancora presenti alle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, per testimoniare un disaccordo circa il fino ad allora consueto modo di pensare i valori dello stato e i rapporti tra le nazioni.

I boomers sembrano non dare più nulla per scontato e non si identificano con i modelli di essere e di sentire presenti e proposti dalla cultura della società. Finiscono con il porsi sempre a lato di quello che sino ad allora è stato l’adolescente, il lavoratore, il marito, la moglie, il padre o la madre di famiglia. Questo “essere a lato” diventa, in breve tempo, una sorta di spazio esistenziale, la cui sostanza emotiva e valoriale è una sorta di precipitato dello spirito dei tempi. «Ci sentiamo di coincidere – sembrano dire i boomers – con quella dimensione di sicurezza e di speranza che è nata con la nostra nascita. Ci sentiamo come un ragazzo che ha la ricchezza delle sue intatte possibilità ancora a completa disposizione e questo ci sentiamo sempre, a prescindere dal periodo storico che attraversiamo. È da questo luogo dell’essere che guardiamo il mondo e gli altri». Dice Matt Thornill, presidente del Boomer Project:
«Il fatto di conoscere la loro età non ci dice quale stadio della vita stiano attraversando. Si reinvetano ogni tre, cinque anni; un boomer potrebbe essere un neo padre oppure un nonno».
Nasce, in questo modo, il singolare fenomeno che approda alla creazione di una giovinezza ipostatizzata quale campo separato di esperienza e conoscenza, una ontologica gioventù i cui caratteri non appartengono più solo ad un preciso periodo di vita, ma diventano tratti definitori dell’essere umano in quanto tale. E il cambiamento modifica dall’interno l’intero carattere dell’esistenza:
«La società della disciplina che si alimenta della contrapposizione permesso-proibito, ha lasciato il posto ad altra società dove la contrapposizione ben più lacerante è quella tra possibile-impossibile. […] La misura dell’individuo ideale non è più data dalla docilità e dall’obbedienza, ma dall’iniziativa, dal progetto, dai risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé».
U. Galimberti, Donna, 21 gennaio 2006.
Se tutto è possibile, però, ogni indecisione, ogni titubanza, ogni fragilità, diventa la nuova colpa, vergogna inammissibile, pietra d’inciampo verso un pieno cogliere tutte le opportunità presenti. Non solo: se tutto è possibile, per quanto si faccia, non si sarà mai sufficientemente se stessi perché ci sarà sempre qualcosa di non realizzato che pure, per suo statuto, è ormai sempre raggiungibile.

Il peso di un inedito criterio morale sembra, di colpo, gravare su ogni persona e chiedere ad essa, in ogni momento, la costanza dell’attivazione e del pieno, perfetto e perpetuo funzionamento. Fragilità e dipendenza sembrano per sempre bandite dallo spazio della coscienza che, al limite, può solo, nella scissione di parti di sé, alimentare il bisogno di tenerezza al calore artificiale degli stupefacenti. Ma forse è proprio questo il prezzo chiesto per mantenere ad ogni costo quell’identità di giovinezza lucente ed incorrotta che prescinde dal mondo interno ed esterno, continuamente in mutamento, strutturalmente legato alla caducità.

E quell’immagine è, ormai, la sola nella quale sembra possibile riconoscersi, icona di essere umano che non conosce qualcosa di inaccessibile, dio creatore la cui sapienza e la cui potenza non hanno confini. Ad essere messo da parte, come dicevamo, è il senso della sola crescita possibile che chiede la rinuncia al sogno di compiuta perfezione. Crescita che conduce lungo un lento e prezioso imparare, in mezzo allo scorrere del tempo e all’incontro con gli altri, che dice di scelte, di perdite, di un vivere mai intero, ma sempre alla ricerca di un imperfetto equilibrio radicato, progressivamente, nella personale fragilità. Forse è questo silenzio, questo non dire e non mettere in conto, spingendo il limite all’infinito, il rischio di Icaro cui i boomers sembrano esporsi maggiormente. Potrebbe, però, esserci anche un altro messaggio che questi imperituri giovani ci consegnano, con il loro modo di esistere e di continuamente reinventarsi. In fondo, questa generazione da sempre ci dice di un coinvolgimento in azioni tese a modificare importanti aspetti delle condizioni sociali ed individuali. Ciò, inevitabilmente, richiede il coraggio di affrontare il mutare di forme di vita profondamente radicate, sentite spesso come indiscutibili costruzioni, atte ad ordinare emozioni potenti, intense e contraddittorie. Se il rapporto tra le razze e tra i sessi deve essere diversamente vissuto, se il legame di coppia può venire messo in discussione, la sensazione di incertezza e di angoscia diventa, inevitabilmente, molto intensa. Se sposarsi non significa più entrare in un contenitore che prevede una precisa divisione di compiti in relazione al sesso e che, soprattutto, ha la caratteristica dell’indissolubilità e dell’eternità, torna l’intollerabile sconcerto di ciò che significa il reale incontro con l’altro: l’attrazione e paura della diversità, il desiderio di riconoscere tale diversità come l’altrettanto potente bisogno di negarla attraverso la competizione e il controllo reciproco. Sentimenti confusi ed ardenti improvvisamente si animano, senza più apparente controllo. E se l’istituzione viene meno, sono proprio tali sentimenti, ora, che determinano il destino e l’essere del rapporto. Ma questo, indubbiamente, spaventa perché le emozioni sono fragili, labili, sempre in cambiamento, difficilmente comprensibili. Sentire che la responsabilità del legame ricade interamente su di essi e sulle proprie capacità di decifrarli e gestirli, senza aiuti di confini statutari esterni, finisce con il far sentire molto esposti, spesso inadeguati rispetto ad un compito così difficile e prezioso.

D’altra parte, tutto ciò può rappresentare anche un prezioso guadagno, visto che la forma di rapporto codificata in senso sociale troppo spesso può rappresentare la rinuncia alla responsabilità della propria realtà emotiva che finisce per cristallizzarsi in una forma socialmente accettabile, ma fissa, sorta di pietra tombale sotto la quale la vita, senza più contenimento, viene abbandonata a se stessa, in assenza di un pensiero che la pensi e se ne prenda cura. È vero: sappiamo come tutto questo corrisponda ad un bisogno profondo dell’essere umano: quello di creare condizioni e forme di esistenza apparentemente in grado di assorbire ed annullare ogni perturbazione, in modo da conservare per sempre la pacificante tranquillità dell’identico. Un identico controllabile per intero, privo della dolorosa sorpresa dell’imprevedibile, privo del dolore della trasformazione. Ma, come ancora sappiamo, secondo Freud il bisogno più grande dell’uomo corrisponde anche alla massima espressione dell’istinto di morte. La cristallizzazione del ripetersi dell’uguale uccide la novità della vita, impedisce la crescita e l’arricchimento di ogni forma di esistenza, destinata, per sua natura, a trovare sempre più se stessa in un processo evolutivo continuo. Ci dice Danielle Quindoz:
«L’immobilismo è un tentativo totipotente di congelare l’istante, nello sforzo di lottare contro l’angoscia di separazione e l’angoscia di morte, cosa che, però, aumenta ancora di più l’angoscia».
D. Quinodoz, Le vertigini tra angoscia e piacere, Franco Angeli, 2005
In effetti, il tentativo di cui si parla, è destinato inevitabilmente ad accrescere il dolore, a renderlo più cupo e senza speranza, nella misura in cui raggela la vita come estremo tentativo per la creazione di un’esistenza – illusione ammaliante – dove apparentemente si dissolve l’orrore intollerabile della separazione e della morte.

Se si esce dall’illusione, resta “il salto nel vuoto dell’esperienza personale”, nella consapevolezza che la vita di ognuno non può essere vissuta da nessun altro, nemmeno dalla più solida tra le solide istituzioni sociali. È attraverso questo salto nel vuoto, questa inedita e non invocata solitudine, che si può, forse, uscire dal castello raggelato verso la proteiforme imperfezione della vita e custodire l’immagine di ciò che realmente si è e di quello che realmente è l’altro, al di fuori dello specchio deformante delle idealizzazioni e delle metafisiche cui, inevitabilmente, ogni modello sociale costringe.

Tutto sommato, quello che i boomers ci possono faticosamente regalare, nel gioco sempre imperfetto dei limiti e delle contraddizioni, può essere proprio questa vertigine e questo struggimento per la nostra più autentica capacità affettiva.

Dice ancora Danielle Quinodoz:
«È il tentativo di creare una strada in cui mettere insieme il sentirsi piccolissimi e sempre bisognosi di imparare, quanto tanto grandi da uscire dai limiti di un mondo che può essere quantificato. È come una goccia d’acqua che pensa l’oceano, sintesi di piccolezza ed immensità nell’universo».
D. Quinodoz, opera cit.