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Una madre dolcissima

La notizia
Sabato in America, a 93 anni, è morto Leo Sternbach, lo studioso di benzodiazepine che, nel 1963, insieme a Earl Reeder, aveva inventato il Valium. Nato ad Abbazia, allora in Austria, si era laureato in chimica a Cracovia, dove il padre gestiva una farmacia. In seguito, a causa della guerra e delle leggi razziali, era stato costretto a fuggire dalla Polonia, prima in Svizzera e successivamente in America.

La Repubblica, 3 ottobre 2005.

Il commento
Un destino che fa parte della nostra più penosa memoria collettiva, quello di Leo Sternbach costretto a fuggire, insieme a molti altri giovani e molti ebrei, dalla sua casa, un’Europa ormai trasformata in devastato luogo di morte. Prima di approdare in America, però, l’incontro con i reduci, irrimediabilmente feriti da un orrore straziante, darà al futuro chimico della Roche il motivo centrale del suo lavoro e delle sue ricerche: trovare una risorsa capace di cancellare una tale illimitata sofferenza. Nel corso di tutta la sua lunga vita, il ricercatore sarà sempre strenuo difensore del farmaco da lui scoperto ed incrollabile rimarrà la fede nei motivi di fondo dei suoi studi.
“Troppa gente sembra non tenere presente quanti suicidi sono stati evitati e quanti matrimoni salvati dalla mia pillola”
diceva quando veniva attaccato relativamente agli effetti collaterali che il farmaco aveva evidenziato, soprattutto il problema della dipendenza. Perché, in realtà, negli anni 70, l’uso della “sua medicina”, insieme a quello più generale degli psicofarmaci, conobbe un successo imponente: due miliardi e trecento milioni di pastiglie vendute, una valanga. Tanto che, ad un certo punto, il 28% del fatturato della Roche proveniva dalla scoperta di Sternbach che fruttò dieci miliardi di dollari in quarant’anni.

Più generalmente, comunque, al di là delle polemiche, sembriamo semplicemente di fronte ad un più che naturale desiderio di riparazione nei confronti di un “male” che, forse, sino ad allora, era stato sconosciuto all’esperienza umana.

Il nostro pensiero torna allo strazio dell’ultimo conflitto mondiale, teme di dovere fare i conti con una distruttività che sembra connaturale alla condizione umana, infamante ed odiosa quanto ineliminabile. Una distruttività, però, agita in un luogo chiamato “guerra”, legato ad oggetti mentali emotivamente intensi come “difesa della patria”, “libertà”, “sacrificio della vita per i propri ideali”. Male inevitabile, dunque, per sfuggire a più pesanti vergogne: “il pavido che, per codardia e debolezza, accetta l’ingiustizia del sopruso e della sopraffazione”.

Siamo trasportati in contesti che parlano di valori ultimi, della nobiltà del giusto incorrotto che difende, con la propria, la vita dei suoi simili. Una dimensione eroica assolutamente lontana, nella mente, dal lento e ritmato accadere della vita quotidiana, una vita che sembra non chiedere mai al coraggio la sua prova estrema. La guerra arriva a città e paesi, alle famiglie, apparentemente solo in modo casuale, non voluta ed ultima conseguenza di decisioni che maturano nella terra assolutamente lontana del cuore degli eroi. Un male sfolgorante invade il mondo, ma ogni morte sembra trasfigurata da quella purezza, ogni vittima ne è ammantata. Morte e distruzione sembrano, in questo modo, meno amare, parti di un rito di magnanimità e di grandezza. La guerra è solo per la giustizia; nelle case, al contrario, si celebra il lento ripetersi delle occupazioni quotidiane, il sommesso scorrere della vita emotiva. Nobiltà ed orrore sembrano non riguardarla.

È così con estremo stupore che apprendiamo – sempre dallo stesso articolo – di come, ai tempi della sua nascita, il Valium fosse chiamato “LA PILLOLA DELLE MAMME”, pensato specificamente per alleviare le ansie della maternità e le tensioni della vita di coppia. Veniva anche nominato “IL PICCOLO AIUTO QUOTIDIANO” e una donna americana su cinque lo usava.

I due mondi che, sino a questo momento, erano decisamente separati, collassano l’uno sull’altro. Sorprendente percorso quello che finisce per accomunare il dolore devastante dei reduci di guerra all’ansia di una donna in attesa di un figlio o in presenza di un piccolo bimbo di cui prendersi cura. Nella nostra cultura, l’icona della madre con il suo bambino, gli occhi negli occhi, è il simbolo del legame affettivo per eccellenza, beatificante intesa di compiutezza, non contaminata dai sentimenti della rabbia, del rifiuto, della violenza.

Riusciamo a tollerare che questo sguardo sazio di perfezione possa essere attraversato, per qualche attimo soltanto, da irritazione e fatica a patto, però, che subito esse vengano cancellate da un più profondo e pervasivo amore.

Le notizie terribili che a volte ci raggiungono e che parlano di madri che abbandonano o uccidono i loro figli le consegniamo al non mondo della follia, all’assoluta solitudine della mancanza di senso.

Eppure Sternbach dedica il suo prezioso farmaco proprio alle madri; inconsapevolmente, ci fa immaginare che anche nella mente della madre quando entra in contatto con il suo bambino, possano accendersi inaspettate esplosioni di rabbia, incontrollati timori e desideri di fuga, imboscate, diserzioni, legge marziale, processi sommari e fucilazioni. Un universo brutale e freddo travolge, di colpo, la nostra irrinunciabile immagine di amore ardente che, in qualche parte del mondo, sappiamo continuare ad esistere. Un’antica disperazione – il timore che nella vita non ci sia spazio e sopravvivenza per gli affetti – torna a visitarci. L’angoscia che nemmeno più l’abbraccio della madre sia benefico e salvifico attacca, con gelo pietrificante, la capacità di sperare.

Il rimedio di Sternbach ha lo scopo di annientare questo impensabile orrore per fare esistere ciò che solo vogliamo che esista. La certezza sottostante è che dolore e rabbia siano, in realtà, così potenti da distruggere la mente, proprio come è accaduto ai soldati della seconda guerra mondiale. E che, in particolare, l’ostilità e la sofferenza più grandi si situino proprio in quell’abbraccio adorante di sguardi che corre tra madre e bambino, come tra la sposa e lo sposo. Più i legami sono ravvicinati e profondi, più sono esposti all’intensità dei sentimenti, sia di amore che di odio.

Tutto questo ci fa da sempre sentire infinitamente fragili e vulnerabili, potenzialmente già travolti da un male rovente che crediamo di non poter accettare e contenere dentro di noi. Giudicandoci impotenti di fronte alla nostra distruttività, decidiamo di annichilirla con una pozione magica e quello che ancora ne rimane lo esportiamo nel lontano cuore puro degli eroi che provvederanno a rappresentare per noi, sul palco del mondo, gli scenari di violenza e di dolore di cui la nostra mente ha fatto esperienza nel commercio affettivo delle relazioni.

Intento la madre può correre un grave rischio: non sa più la sua rabbia, non le capita più, insieme alla commozione per balbettii leggeri come piume, di sognare anche di liberarsi del suo bambino, così troppo spesso intollerabilmente immaturo, soffocante e dipendente. Continua ad occuparsi del suo piccolo, ma una parte della sua esperienza emotiva con lui ora le manca e i sentimenti rimasti, senza il tutto affettivo di cui facevano parte, sono mozzati e vuoti, privi del loro pieno significato.

È un modo spezzato di esserci per l’altro, fatto di una tenerezza discontinua che sembra addensarsi proprio intorno al buco nero di ciò che manca e che, per questo, finisce per diventare mostruoso. La madre non sa più cosa prova e nemmeno il suo bambino lo sa, perduto nella solitudine della rinuncia ad essere presenti tutti interi.

Il messaggio emotivo finale può essere l’inautenticità: non voglio stare con te, ma visto che non mi è dato esimermi, fabbrico in laboratorio la mia presenza. Il messaggio finale può essere disperante: dall’incontro di due esseri umani, nella loro anima, non può nascere mai la creatività dell’amore e dell’accettazione, una certezza negativa dell’esistere che si cristallizza in dogma quando la luminosità dell’accoglienza è affidata all’artificiale alchimia della chimica.

Il bambino può sentire di avere vicino una madre con un cuore arreso, lontano come le stelle, sfavillanti di bellezza nella loro irrevocabile irraggiungibilità. Può sentirsi molto solo con i suoi terrori che non hanno chi li ascolti e con il suo infinito desiderio di compagnia. Può, infine, perdere la speranza che mai un giorno arrivi qualcuno a consolare quel siderale abbandono.

E può imparare quello che gli adulti gli hanno insegnato; da grande, non cercherà in se stesso e negli altri qualcosa che gli permetta di essere felice. Sa già che, in sé e negli altri, non c’è niente di valore da cercare, solo una fragilità scadente e impacciata, troppo lenta e limitata, troppo terribilmente umana, vergogna da nascondere e da cui difendersi. Preferirà quello che i grandi hanno preferito: venire liberati dalla responsabilità di se stessi grazie ad un farmacologico deus ex machina estraneo, inanimato e magico, che misteriosamente fa dimenticare di essere solo degli uomini.

I Rolling Stones hanno chiamato il Valium “my mother’s little helper”, il piccolo aiutante di mia madre. I bambini, a volte, possono cadere nella trappola mortifera degli adulti, possono sentire che la loro mamma, in parte, si nasconde al loro desiderio dietro una presenza formale ed asettica, possono smarrirsi in un sorriso depredato e devitalizzato. E possono continuare a cercare l’amore là dove i grandi hanno detto che era, nella fredda materia inanimata. Un amore a scadenza, preso a prestito e pagato, un amore da supermarket, seriale, che non è mai stato diretto, tutto intero, proprio a loro.

Il miracolo della Cina

La notizia
Compare oggi su Repubblica la notizia della pubblicazione delle testimonianze che gli operai cinesi hanno reso all’associazione umanitaria China Labor Watch circa la loro condizione lavorativa. L’associazione, impegnata contro lo sfruttamento dei minori e le violazioni dei diritti dei lavoratori, ha concesso una spazio per la denuncia di una realtà tragica, a tutt’oggi nascosta e camuffata sotto le spoglie del nuovo miracolo cinese, di una economia liberista che, ancora una volta, sembra migliorare le condizioni di popolazioni da troppo tempo costrette ad una non più accettabile primitività di vita.

La Repubblica, 19 maggio 2005

Il commento
I racconti della China Labor Watch sono davvero terribili. Parlano i lavoratori cinesi della regione meridionale del Guangdong, l’attuale cuore della potenza industriale cinese, da cui ebbe inizio, alla fine del secolo scorso, la conversione accelerata del paese al capitalismo. Parlano con il rischio di venire immediatamente licenziati se le loro identità fossero scoperte. E parlano per dire qualcosa che riaccende una memoria destabilizzante nel suo contenuto di assoluto dolore, qualcosa che pensavamo di avere consegnato ad un passato compiuto nella sua distanza e nella sua estraneità.

Sono operai della Kingmaker Footwear che ha 4700 dipendenti, di cui l’80% è costituito da donne. La maggior parte della produzione dell’industria è destinata ad un solo cliente: la Timberland. La fabbrica lavora su licenza, ossia è direttamente autorizzata dalla Timberland a produrre le note calzature americane.

Ma le testimonianza si riferiscono anche agli operai della Pou Yuen, un colosso da 30.000 dipendenti, fornitore della Puma, con casa madre in Germania. La lettera di un dipendente descrive la giornata tipo: la sveglia è alle 6.30. Dieci minuti sono destinati all’igiene personale, i restanti venti alla colazione.
«Corriamo alla mensa perché la colazione è scarsa e chi arriva ultimo ha il cibo peggiore o non ne ha nessuno».
Alle 7 il timbro del cartellino; ogni ritardo, si tramuta in multa sulla busta paga. Sempre alle 7, ogni gruppo di operai marcia in fila dietro al caporeparto, recitando idonee canzoni. Se non si canta ad alta voce o non si sta correttamente nella fila, scattano punizioni. Il clima di intimidazione è costante: un’operaia di 20 anni, picchiata dal suo caporeparto, è stata addirittura ricoverata in ospedale. Nei reparti-confezione, gli operai incollano le suole delle scarpe e, guardando la forma delle mani, si capisce da quanto lavorano. Perché le mani si deformano a causa dei frenetici ritmi di lavoro imposti dall’azienda.
«Lavoriamo dalle 7 alle 23 e la metà di noi soffre la fame. Alla mansa c’è minestra, verdura, brodo …».
Non sono rari i casi di cibi avariati; recentemente, cinquanta lavoratori sono stati intossicati da germogli di bambù deteriorati. Quando le richieste di produzione aumentano, l’orario lavorativo è ancora allungato con straordinari obbligatori. In questo modo, un dipendente può dedicare al lavoro anche cento ore a settimana. La paga mensile media è di 757 yuan, pari a 75 euro, ma il 44% è trattenuto per il vitto e l’alloggio concesso. Le multe possono ulteriormente ridurre i restanti 44 euro. L’alloggio, poi, significa una camerata sprovvista di acqua calda e di riscaldamento, in cui si ammucchiano 16 lavoratori su brandine di metallo.

Un mese di salario viene sempre trattenuto a scopo intimidatorio: se il dipendente scappa, lo perde. Perché gli operai tentano la fuga dal loro posto di lavoro.

In ogni reparto, lavorano ragazzini tra i 14 ed i 16 anni. Un’inchiesta, realizzata in altre fabbriche, ha reso noto che la maggior parte di questi bambini soffre di herpes per l’inquinamento dei coloranti industriali e lamenta mal di testa cronici. Liu Yiulian, di 13 anni, non può addormentarsi se non prende due o tre analgesici ogni sera. Il suo “padrone” dice che gli costa troppo in medicinali.

Se mai un datore di lavoro venisse scoperto in flagranza di sfruttamento del lavoro minorile, incorrerebbe in una multa di 10.000 yuan, circa 1000 euro. In fondo, una risibile percentuale dei profitti generali dell’impresa. Sono dati scarni, lapidari, terribili nella loro univocità di interpretazione. La memoria, come dicevamo, ci riporta, purtroppo, ad altre testimonianza, quelle dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti oppure ai resoconti degli internati nei gulag sovietici durante gli anni della dittatura. Per quei racconti abbiamo imparato a fare riferimento al paradigma della follia: quando una dottrina politica si decompone in ideologia di perversione, quando le peggiori fantasie della mente contaminano il reale, non più contenute dall’opera mediatrice del pensiero, i popoli possono essere invasi e travolti dai loro stessi sogni di terrore.

In questo caso, però, le cose dovrebbero essere diverse. Sono proprio quelli che hanno vinto e cancellato quelle deviazioni maligne del sociale, siamo proprio noi che ora alimentiamo questa forma inedita, ma, come le altre, assolutamente spietata, di persecuzione. Interessante, al riguardo, il film documentario The Corporation, realizzato da Mark Achbar sulle multinazionali. Il minuzioso racconto della nascita delle corporazioni ci informa di come il sistema legale abbia appositamente permesso l’esistenza di una particolare unione imprenditoriale che viene considerata non come entità commerciale, bensì alla stregua di una persona, con conseguenti identici diritti e doveri. Sulla base di tale particolarità, il regista decide, provocatoriamente, di sottoporre questo “soggetto” ad un test di personalità ed i risultati sono, purtroppo, decisamente significativi.

Per valutare la qualità della relazione con altri, si indaga sul “modo di agire delle multinazionali. Gli esempi “comportamentali” sono tanti; ad esempio, nel 1989, cominciarono ad essere resi noti gli effetti della somministrazione ai bovini di un ormone artificiale, il Posilac, impiegato per aumentare la produzione di latte. Questo ormone provoca nelle mucche infiammazioni croniche a cuore, polmoni, reni, milza ed è causa di alterazioni sulla riproduzione. Provoca, inoltre, una dolorosa forma di mastite. Quando si munge una mucca affetta da tale patologia, il pus dell’infezione finisce nel latte. Non solo: le mucche, così ammalate, devono essere curate con antibiotici e anche questi finiscono nel latte e vengono assunti da chi lo beve. Questo fatto è in diretta contraddizione con quanto dichiarato dalla multinazionale produttrice che sosteneva di non usare antibiotici e che il Psilac era assolutamente privo di effetti nocivi. Nel test di personalità si barra: NONCURANZA PER LA SICUREZZA ALTRUI e TENDENZA A MENTIRE PER OTTENERE PROFITTI.

Ovviamente, non sono solo questi i soli episodi di impiego di prodotti nocivi. Durante la guerra, l’esercito americano ha disboscato vaste aree del Vietnam con l’Agente Arancio prodotto dalla Monsanto. Questo defoliante ha prodotto più di 50.000 casi di difetti congeniti in nuovi nati e migliaia di casi di cancro tra soldati e civili vietnamiti ed americani. I veterani americani hanno potuto citare in giudizio la Monsanto per avere causato la loro malattia. La Monsanto ha patteggiato prima del processo, pagando danni per 80 milioni di dollari, ma non ha mai ammesso la sua responsabilità. Nel test di personalità, si barra: INCAPACITÀ DI PROVARE SENSO DI COLPA.

Ad ogni modo, il pagare multe sembra una pratica consolidata da parte delle multinazionali. Il regista fornisce un lunghissimo elenco di corporazioni citate in giudizio e condannate a pagare ingentissime somme: HP, IBM, KODAK, ROCHE, ecc. Praticamente, le case che producono tutti o quasi i beni di consumo che noi acquistiamo. E questa “pratica” si verifica più volte nella vita di una stessa multinazionale. Sempre nel test, la voce segnata è: INCAPACITÀ A CONFORMARSI ALLE NORME SOCIALI E RISPETTARE LE REGOLE.

Se i prodotti possono essere nocivi, non certo migliori sono le modalità di produzione. Quello che riporta l’articolo di Repubblica per gli operai cinesi di Timberland e Puma è valido, in base ad altre indagini, per gli operai di tutto il terzo mondo: Sud America, Africa, Asia. Sfruttamento del lavoro minorile, salari infinitesimi rispetto ai guadagni, tempi di lavoro pensati addirittura non in minuti, ma in millesimi di secondo. Nel test di personalità si barra la casella: INDIFFERENZA VERSO I SENTIMENTI ALTRUI.

Senza contare un ulteriore fenomeno. Quando una multinazionale impianta una sua fabbrica in un paese in via di sviluppo, lo fa per il basso costo della manodopera. Questa operazione potrebbe anche essere pensata come un’opportunità di cambiamento delle condizioni di vita di quel territorio. Cosa che, in effetti, accade. Dopo un po’ di tempo, le persone, cominciano a godere dei vantaggi della loro attività: le loro condizioni non sono più così disperate, un minimo di movimento sindacale fa migliorare lavoro e salario. È a questo punto che le multinazionali chiudono la fabbrica e vanno in altra zona, dove trovare gli antichi vantaggi. Nel test, la casella ad essere segnata è: INCAPACITÀ DI MANTENERE RAPPORTI DURATURI.

Il risultato della somministrazione è inequivocabile: l’istituzione dominante del nostro tempo è stata creata ad immagine di uno psicopatico.

I nostri stati si fondano su costituzioni democratiche, l’attenzione ai diritti e al rispetto dell’altro si è sviluppata ed affinata nel corso della storia. Questo è anche il tempo della riflessione intorno all’Europa e alla costituzione europea, una carta dei diritti che possa rappresentare tutti i popoli dell’Unione, recependo il frutto della preziosissima crescita realizzata nel corso di un lunghissimo tempo. Una crescita che ci ha educato alla protezione e alla cura dei confini tra quello che noi siamo e ciò che, invece, non ci appartiene. L’immediatezza dei sentimenti che non tollerano di procrastinare la soddisfazione dei desideri, che mal sopportano di dovere conoscere e rispettare l’altro da sé, in qualche modo è stata modulata, resa più flessibile e versatile, adatta alla dimensione del rapporto e dello scambio reciproco.

Quello che è comunicato nel rapporto della China Labor Watch o è rappresentato nel film di Achbar, dunque, non dovrebbe più esistere. Fa parte del nostro ormai superato passato, quando non noi, ma i nostri progenitori, erano dei bambini feroci. Ma le testimonianze sono inequivocabili e ci inchiodano ad un dato di violenza e di dolore che dipende assolutamente da noi. Perché sono proprio quelle calzature che costano 50 centesimi tutto compreso ad essere, poi, rivendute nelle boutiques a 150 euro.

“L’esercito degli schiavi che fabbrica il nostro lusso”, titola, infatti, l’autore dell’articolo. Lo spazio per dare vita al migliore dei mondi possibili deve essere stato troppo intenso; forse credevamo di avere modificato per sempre la parte più primitiva di noi stessi ed ora ci accorgiamo che l’abbiamo semplicemente esportata all’estero, in modo da non saperne più nulla e da non esserne più imbarazzati.

L’operazione di espatrio, però, finisce drammaticamente per inficiare il fondamento del nostro stesso vivere civile. Sembra rimanere lo spazio per una moralità solo formale, puro esercizio di stile disincarnato che abbandona in regioni desolate qualcosa di apparentemente immodificabile.

In una logica interna, si potrebbe parlare di falso Sé che non integra esperienze, desideri e bisogni sentiti come pericolosi ed inaccettabili. L’immagine ufficiale di se stessi si impone con forza e scaccia dalla coscienza ciò che con essa non si armonizza. Sogni, terrori, dolori strazianti continuano ad essere vissuti, ma non sono sentiti come qualcosa che ci appartiene. Restano parti di Sé pietrificate in uno stato di animazione raggelata che non riescono a tornare in vita perché non possono essere amate. L’esistenza è articolata solo all’esterno, estremo e disperato tentativo rispetto ad una integrazione emozionale interiore che non ha potuto realizzarsi. È un accadere affettivo nebuloso e alienato, abbandonato ad una dimensione senza nome, troppo lontana dal centro dell’anima. Il senso di sollievo dovuto alla dimenticanza di ciò che siamo, è inevitabilmente accompagnato dalla fragilità del vuoto e dell’inconsistenza esistenziale.

Forse, per certi versi, proprio questo accade nella nostra società dove, accanto al rifulgere dei principi morali e civili, convivono pratiche violente in cui nessuno si riconosce e che a nessuno sembrano appartenere. Sono altri i responsabili, i capitani d’industria, i ricchi, i petrolieri americani, i politici di ogni tempo, appoggiati alle potenze economiche, sono gli iracheni, gli integralisti religiosi. Il male accade, continuamente accade, ma è qualcosa di cui abbiamo perso le radici, l’intimo significare. È solo orrore contaminante che non possiamo che consegnare ad altri, confinare nelle lontane province del niente.

È con sorpresa e sconcerto, allora, che ci troviamo ad ascoltare le voci che, inattese, arrivano da quel lontano nulla. Voci che ci costringono a riprendere il dialogo interrotto con coi stessi, a rivisitare un modo di costruire il sociale che invade ancora di dolore il mondo, che attacca particolarmente chi, troppo piccolo e debole, meno è in grado di difendersi.

In una sorta di non dichiarata logica parallela, gli altri sono solo oggetti che devono provvedere alla realizzazione dei nostri desideri; non è necessario preoccuparsi per le conseguenze che le nostre richieste illimitate e perentorie possono procurare, ci sono vite che, tutto sommato, valgono di meno, non hanno particolare significato.

Nello spazio di questo mondo alternativo, apparente espressione dell’evoluzione più progredita del nostro tempo, orgoglio di un fare coronato da prosperità, nascono le condizioni per la violenza e il sopruso. E sono i deboli di sempre, i diseredati e i bambini – tutta la speranza del nostro tempo – a portare il peso e a pagare l’illimitato prezzo della nostra volontà di potenza.

Islam e passione d'amore

La notizia
Alla vigilia della festa di S. Valentino, una giovane donna egiziana di nome Lamya si è rivolta ad un sito religioso chiedendo quale posizione ha l'Islam rispetto a tale particolare ricorrenza. Le veniva data una risposta che faceva riferimento ad una pronunziazione dello sceicco Suad Ibrahim Salih, docente di giurisprudenza islamica all'Università di Al Azhar. La risposta conteneva un link che rimandava ad altra posizione circa un ulteriore quesito: nell'islam è consentito innamorarsi?

La Repubblica, lunedì 14 febbraio 2005

Il commento
Singolare domanda quella di Lamya, domanda rivolta da un sito confessionale che emette fatwa on line. Le fatwa sono editti con valore di regola per il comportamento dei fedeli. Quelle su internet non hanno riconoscimento ufficiale, ma, in realtà, sono la precisa trascrizione di pareri emessi dalle più alte autorità religiose dell'Islam. In risposta alla richiesta di Lamya, infatti, è stata riportata una fatwa dello sceicco Suad Ibrahim Salih che sottolinea come non sia necessario imitare i riti dell'occidente e che «l'amore che si nutre va dimostrato ogni giorno dell'anno, non solo in una data particolare scelta da altri.»

Al termine della risposta, un link rimandava ad altra fondamentale fatwa che risponde al quesito: per l'Islam è lecito innamorarsi? Il responso è riferito ad un parere dello sceicco Ahmad Kutty: amore ed odio non vengono dall'uomo, ma da Dio e l'innamoramento è una sensazione che, come tale, non è né lecita né illecita. Chi prova questo sentimento, tuttavia, è portato ad allontanarsi dalla purezza sino alla tentazione di frequentare da solo una persona dell'altro sesso. Sarebbe meglio evitare la trappola, lasciare che la compagnia della propria vita venga altrimenti determinata, tenendo conto che i «matrimoni migliori sono quelli che nascono con un minimo di affetto che poi cresce e cresce, sino a che marito e moglie varcano insieme le porte del paradiso.»

L'articolista conclude che, secondo tale percorso, ogni ragazza conosce una difficile attesa di quel compagno da «amare ogni giorno di più», compagno indicato da un dio che assomiglia, in modo molto terrestre, al padre di ognuna.

Possiamo stupirci, irritarci, prendere le distanze da costumi che ci sembrano arcaici e restrittivi. Ci ribelliamo all'idea che altri, in special modo i genitori, possano scegliere ed imporre a noi qualcosa nella sfera degli affetti secondo le loro esigenze; l'idea di essere determinati anche a tale livello, ci preoccupa e ci rattrista. Sembra la condanna più definitiva a non potere diventare noi stessi. Rimanere per sempre piccoli, figli gestiti e decisi da altri.

In realtà, però, frequentemente capita che siamo proprio noi a non nutrire molta fiducia nei nostri sentimenti. Spesso li sentiamo confusi e contraddittori; troppo spesso, soprattutto, li sappiamo dolorosi, traboccanti, nel caso peggiore, di tutta la sofferenza che possiamo sopportare e anche di più. Sempre cangianti, a volte dirompenti e indubitabili, ma già il momento dopo disfatti e trascolorati, vestiti di nuove sembianze. Senza il ricordo di quello che è stato, ci costringono a credere vero e certo solo ciò che è presente, lasciandoci sguarniti di fronte alle inattese imboscate di passato e futuro.

Proprio per i sentimenti andiamo soggetti ad errore e temiamo di rendere visibile un'immagine di noi incerta ed inadeguata. Del resto, sembra che mai l'uomo si sia fidato del suo sentire. Già l'antica Grecia, una tra le nostre più antiche memorie storiche, ci parla di questo timore:
«Amore, che trasformi la ricchezza in desolazione, che vegli sulla morbida guancia di una fanciulla; tu vaghi sul mare e tra le dimore più selvagge. Nessuno tra gli umani ti può sfuggire, quand'anche vivesse un solo giorno; e colui al quale infine giungi, rendi folle.»
Sofocle, Antigone
Sul friabile terreno di un impalpabile incedere, ci sembra di decrescere piuttosto che crescere. Abbiamo bisogno di certezze. Ad una società che ci chiede azioni logicamente concatenate, sicurezza del nostro essere, non possiamo offrire il lacerante dubbio dell'incertezza, l'ansia di una telefonata mancata, la gioia travolgente per una carezza a lungo attesa, l'umidità vischiosa di una inconsolabile malinconia. Alla nostra società che ci vuole ogni giorno vincenti, non sappiamo nemmeno come presentare quella tenerezza frastagliata che ci rabbrivida il cuore tutte le volte che un odore, un preciso timbro di voce – inezie della materia – ci attraversa il corpo.

Sembra folle immaginare di impegnare, per quello e su quello, tutta la nostra vita. Nel nostro mondo delle dichiarazioni di guerra, delle guerre per il nostro bene, può sembrare risibile il nostro segreto struggimento, forma impura ed imprecisa dell'essere, labile e lieve come orme sulla sabbia.
«O dea, le nubi del cielo su di te vanno e vengono; per te la terra produce i dolci fiori, per te le grandi distese del mare ridono […] Ognuno ti segue bramoso, fatto schiavo del tuo fascino […] Tu sola, infatti, puoi allietare i mortali con la tua pace tranquilla perché anche il potente Marte che regola battagliero le leggi feroci della guerra, spesso si lascia cadere sul tuo seno, completamente conquistato dall'eterna ferita dell'amore.»
Così si esprime Lucrezio nel De rerum natura quando invoca Venere, rappresentata come la forza cosmica e creatrice dell'amore.

«Ognuno ti segue … fatto schiavo del tuo fascino». Anche questo può spaventare: sapersi prigionieri di un imperativo sentire che ci incatena ad un altro da noi e ci toglie la libertà di scelta, rendendoci determinati e dipendenti sino alla passione più ardente come alla tenerezza più disperata.

Un terribile decentramento del nostro essere che sembra farci perdere la memoria di ciò che siamo per costringerci a rinascere in nuova forma, confusi e legati al volto oscuro e luminoso di un altro che non possiamo più non pensare.
«Ricordo i suoi occhi mai del tutto chiusi, anche nel sonno più profondo. Quando non sapevo darmi pace, scrutavo quel minuscolo spiraglio tra le ciglia nella speranza di intravedere il mondo misterioso dove lei si allontanava a mia insaputa. Al mattino, le chiedevo il resoconto della notte, e lei mi raccontava di un giardino di sera e di un angelo con le mani sugli occhi, e per tranquillizzarmi mi diceva che io ero con loro, anche se non lo ricordavo.»
P. Runfola, Lezioni di tenebre.
Al fondo dell'innamoramento, riconosciamo uno struggimento potente. Sono ancora i greci che ce ne parlano, dicono di qualcosa che, allora come ora, sembra appartenere alla natura più intima di questa esperienza emotiva.
«Supponi che Efesto, con tutti i suoi arnesi, piombi su due innamorati stretti in un abbraccio e dica loro: “Desiderate forse essere un'unica unità e restare giorno e notte l'uno in compagnia dell'altra? Perché se questo è ciò che desiderate, sono pronto a fondervi insieme e a trasformarvi in uno, e a lasciarvi crescere insieme”. Non troverete nessuno che, sentendo una proposta simile, potrebbe negare che l'idea di questa unione e di questa fusione, di questo essere uno anziché due, è la reale espressione di un bisogno antico.»
Platone, Simposio
È il desiderio di una intimità illimitata, senza confini e senza termine. Potere non smettere più di sperimentare una compagnia che quasi si è fatta compenetrazione. Essere per sempre esentati dalla sofferenza della nostra incompiutezza, lo spettro buio della solitudine e dell'insignificanza.

Potere non avere più paura visto che, ormai, qualcuno è sempre accanto a noi e c'è perché per lui siamo irrinunciabili. Non siamo più cosa di poco conto, raggelato oggetto tra gli altri nel buio senza memoria dell'universo perché siamo, per qualcuno, il sole dell'esistenza. Ogni nostra più piccola fibra, tratto del volto, abbozzo di pensiero, prende vita e bellezza, è fontana di gioia, visto che qualcuno è assetato ed incantato, teneramente grato per ciò che, adesso in noi, è ruscello e cascata.

È intollerabile, a questo punto, venire riconsegnati al limite angusto ed estraniante, alla fredda povertà di ciò che siamo, anche solo per una sera o qualche minuto. Persino un solo minuto diventa il volto di una intollerabile perdita, la musica ripetitiva e martellante di un rifiuto. Siamo soli.

Avevamo creduto di essere principi della terra e invece siamo inarticolata particella di materia travolta dal tempo e da infiniti mondi che nulla sanno di noi. La struttura degli affetti che ci aveva fatto credere in un mondo a nostra misura, familiare e sovrabbondante di significato, ci porta ora ad un deserto senza speranza.
«Così Sylvia brucia dalie gialle mentre il sole si fa debole sino all'impotenza e il mondo affonda nell'inverno. Le piante si arrendono alle onnipotenti brine bianche che crudeli chiudono i colori in esagonali cuori di ghiaccio. Così vaghiamo ed aspettiamo nell'aria di novembre grigia come una pelliccia di topo irrigidita di lacrime gelate. Resistere, resistere e le sillabe si induriscono come stoiche lenzuola bianche colpite da rigor mortis sul filo da stendere dell'inverno.»
S. Plath, Diari
Non possiamo permetterci il lusso dell'amore. Per quanto siano grandi le nostre arti e le nostre conoscenze, non sappiamo se l'altro vorrà accettarci; del resto, già riusciamo così poco a tollerare quella che ci sembra, di noi, fragilità ed imperfezione infamante. E certo siamo sicuri di non avere potere sulla vita e sulla morte; chi amiamo, potrà sparire per sempre, spogliandoci di tutte le nostre certezze e di tutta la nostra allegria senza chiederci il consenso, un giorno del tutto uguale agli altri, condannandoci al più straziante degli abbandoni.

Non possiamo innamorarci; in sorprendente accordo con lo sceicco Ahmad Kutty, ci sembra più protettivo e sicuro scegliere un compagno in base a qualcosa di altro da noi, un progetto, un bene da condividere, foss'anche un patrimonio economico.

Non vogliamo uscire da noi stessi, non vogliamo che qualcuno tocchi il nostro cuore e ci faccia sorridere di speranza, ridere sino alle lacrime della creazione. Vogliamo dominare i nostri legami e, per non correre il rischio di essere travolti dalla sofferenza, decidiamo di non metterci mai in rapporto con nessuno. Decidiamo di tenere per noi il patrimonio dei nostri affetti, consumandoli nel segreto della nostra anima che ne confeziona ogni giorno qual tanto che ci permette di rimanere in vita, rinunciando ai sapori travolgenti dell'incontro e della condivisione.

Non è nemmeno necessario un padre autoritario che ci impedisca di seguire il nostro sentire; siamo già noi a svolgere questo ruolo quando ci incarceriamo e chiudiamo la nostra vita alla possibilità di amare.

Il prezzo, ovviamente, è molto alto, è il lieve essere nel tempo senza toccarlo e conoscerlo, è il peso schiacciante e immedicabile della nostra mancata nascita.

Per il timore di incontrare nuovamente il volto di quella nostra infanzia così turbolenta, sofferente e fragile, corriamo il rischio di consegnarci, ancora bambini, ad un finire spoglio e scarnificato che non conosce i nomi e i gusti della terra.

I giganti della montagna

La notizia
In Gran Bretagna, l’Association of Teachers and Lectures ha realizzato un allarmante studio tra 300 insegnanti di scuole superiori di tutto il paese. Dall’indagine emerge che, a motivo della turbolenza quando non dell’aggressività diretta degli alunni, i docenti non vogliono più andare a scuola. Tra essi, infatti, la ragguardevole percentuale del 72% ha dichiarato di voler addirittura abbandonare la professione e questo per motivi decisamente preoccupanti: perché non più capaci di reggere gli insulti, il venire chiusi fuori della classe, trovare le ruote dell’auto bucate, essere fatti oggetti di sputi e di lanci di uova. Mary Bonsted, segretario generale dell’Associazione che rappresenta centosessantamila docenti del regno Unito, ha girato l’emergenza al ministro dell’istruzione Ruth Kelly: «Ci vorrebbe più sostegno per gli insegnanti e più guardiani per gli studenti»

La Repubblica, 24 marzo 2005

Il commento
In Inghilterra le cose non sembrano andare molto bene in ambito scolastico. Forse pensavamo che i più grandi disagi riguardassero solo gli Stati Uniti, a causa e come conseguenza delle scelte politiche fatte circa la scuola pubblica. Istituti ormai presidiati dalle forze dell’ordine, allievi e professori che entrano in aula scortati, spazi comuni sfigurati da slogan offensivi e deturpanti. E, fuori dai cancelli, bande di ragazzini armati di coltelli e spranghe pronti, in ogni momento, all’aggressione. Chi può permetterselo, manda i suoi figli ad istituti privati, chi è privo di risorse economiche, non ha alternative rispetto a queste nuove collegi tanto simili ad istituti minorili di contenzione.

Forse non pensavamo che tutto questo riguardasse il vecchio continente, soprattutto l’Inghilterra, da sempre garantista rispetto ai servizi pubblici. Invece, purtroppo, sembra non essere così. Non solo: anche uno studio effettuato in Italia, di cui si dà resoconto nello stesso quotidiano, ha dato risultati decisamente avvicinabili a quelli inglesi. Anna Salerni, ricercatrice presso l’Università La Sapienza di Roma, ha intervistato oltre 100 docenti sul tema apparentemente desueto, ma drammaticamente attuale, della disciplina. I dati non sono stati particolarmente confortanti; è risultato che – si legge nell’articolo “al Nord, il 25% degli studenti diserta le lezioni, mentre al Sud la percentuale sale al 54%. Inoltre, l’assenza non è sanzionata ed allievi bocciati a causa delle troppe assenze sono stati riammessi in classe dal TAR; del resto […] ogni infrazione sancita non influisce sul profitto generale”.Probabilmente, però, l’immagine più aderente allo stato delle cose emerge dalla graduatoria, fatta dai docenti, in merito a ciò che più desidererebbero fosse rispettato dai loro allievi. Al primo posto viene indicato “venire in orario a scuola”, poi “svolgere i compiti, fare poche assenze, portare i libri in classe, non fumare non dire parolacce”. Solo a questo punto compare: “prestare attenzione durante le lezioni”, la caratteristica che il filosofo John Dewey definiva “l’unica attitudine che importa, il desiderio di imparare”.

Ma proprio il desiderio di apprendere sembra messo in discussione, almeno l’apprendere da figure adulte non più sentite come persone capaci di trasmettere conoscenze, bensì bersagli da disconfermare nella loro autorità e da attaccare aggressivamente.

In fondo, però, è sempre stato così, verrebbe da pensare; ogni adolescente, nella difficile ricerca della propria identità, sente di dovere distaccarsi dai modelli familiari e compie il passo a volte anche con irruenza, nel timore di non riuscire mai più a differenziarsi.

Allora, forse, in tutto questo, ad essere in una posizione abbastanza inattesa e dissonante sembrano soprattutto gli adulti che trovano difficile riconoscersi nel ruolo di chi impartisce regole e presiede ad una loro osservanza. Sappiamo come i cambiamenti culturali dell’ultimo scorcio del XX secolo abbiano portato a pensare le regole prevalentemente come impedimento alla libera espressione delle potenzialità e delle inclinazioni della persona, sorta di soffocamento e di coartazione sociale rispetto alla possibilità di uno sviluppo più pieno e più ricco.

Certamente, un’eredità culturale di questo tipo può avere importanza, ma forse è anch’essa già il risultato di quel disagio provato di fronte all’eventualità di esercitare un ruolo normativo.

Potremmo supporre, allora, che probabilmente, per noi avere regole e limiti è stato così frustrante da farci desiderare di esentare altri da tale fatica. I nostri figli, i giovani in generale, diventano quell’area che facciamo vivere come avremmo voluto, senza l’ingiuria di restrizioni sentite come inutili quando non umilianti. Umilianti perché segno dell’esistenza di qualcuno che ha potere su di noi, qualcuno che ci può determinare al di là del nostro volere.

In passato, tale potere di determinazione nasceva dalla diversità: dovevamo obbedire gli adulti perché avevano più conoscenze ed esperienze, risorse più numerose e duttili per gestire con successo difficoltà ed impegni. Noi eravamo piccoli, sprovveduti, bisognosi, in ogni momento, di supporto ed appoggio. Condizione, spesso, non molto gratificante, anche perché non sapevamo con sicurezza che saremmo davvero cresciuti ed avremmo aumentato le nostre potenzialità. Certo, i genitori ci rassicuravano continuamente: “Vedrai, un giorno diventerai grande!” Ma tutto quello che, invece, noi sapevamo ed avevamo era la quotidiana constatazione delle nostre mancanze e degli infiniti, apparentemente interminabili, fallimenti. Disperavamo di potere mai avere un futuro diverso. Senza contare, poi, che un risultato colto dopo molti anni e al prezzo di minuta fatica, finiva con il sembrarci ben poco attraente. Il nostro desiderio, allora come ora, vuole fare a meno della dedizione ed è tentato di spegnersi di fronte al primo contatto con la frustrazione. Nel nostro pensiero è tutto luminosamente presente e perfetto; non comprendiamo perché sprecare i nostri giorni sotto il peso del tempo e del dolore.

«Capirò, forse, meglio la vita dopo vent’anni di lavori forzati, logorato dal patimento, dall’idiozia, dall’impotenza, dalla vecchiaia? A che cosa mi servirà allora la vita?» dice il Raskolnikov di Delitto e Castigo.

Forse anche per questo, oggi come allora, ci può riuscire difficile accettare le differenze. Non sopportiamo nessun tipo di limite, quasi non confessiamo nemmeno a noi stessi che altri hanno competenze a noi sconosciute che pure vorremmo possedere in proprio. È una constatazione che sembra riportarci al passato e pare confermare il sospetto di un tempo: quella minorità umiliante di cui volevamo liberarci ad ogni costo, non siamo riusciti a superarla, proprio come temevamo.

Un’immagine negativa di noi stessi, fatta di incapacità e di impossibilità, torna a prendere forza e a perseguitarci. Sino al punto che proprio gli altri, ai nostri occhi, diventano i responsabili del dramma: se non ci fossero stati, se non ci avessero ricordato di essere manchevoli e inermi, avremmo potuto non conoscere questa cocente delusione.

Da tutto questo, a volte, vorremmo risparmiare i giovani e, con loro, anche noi stessi. Preferiamo pensarci amici dei nostri figli e creare un’area dove le coordinate della realtà possano essere sovvertite, dove la maturità del giudizio non è più legata al lento apprendere dall’esperienza, dove non esistono differenze e si è uguali e intercambiabili. Tutti giovani già adulti, esentati dall’onere di crescere e adulti interminabilmente giovani, con un tempo infinito a disposizione. Ai giovani, in realtà, non abbiamo niente da dire, rappresentano già perfettamente così il nostro sogno di onnipotenza.

Non solo; allora come adesso, ci può risultare non immediatamente evidente che ciò che gli altri sono è frutto autentico di una loro creativa crescita. Più frequentemente, possiamo avere l’impressione che gli altri, semplicemente, si arroghino funzioni e privilegi a nostro scapito. Non si meritano ciò che hanno, sono solo arrivati prima nella corsa all’accaparramento; molto banalmente, sono più avidi e sfrontati di noi. Ci sentiamo vittime di un’ingiustizia che chiede di venire svelata per procedere ad una più corretta distribuzione. Dobbiamo riprenderci quello che in modo fraudolento è stato sottratto alla nostra vita e alla nostra possibilità di essere felici.

La rabbia, il desiderio di rivalsa quando non di vendetta, la denigrazione degli altri, invadono e catturano il nostro pensiero.

Da questo punto di vista, i figli possono diventare il visibile vessillo della nostra ribellione. Non li desideriamo diversi, né desideriamo che smettano di scacciare il professore dalla classe. Soprattutto per noi, quel professore è il pallido, l’esausto e poco credibile rappresentante di un mondo di grandi che detengono, con il sopruso e la violenza, ogni potere e centellinano ciò che di prezioso possiedono, lasciandone andare solo poche briciole a chi, bambino, non ha niente.

Senza saperlo, dunque, possiamo far vivere ai giovani la rabbia che non ci siamo concessi e finiamo per sostenere, in loro, ogni forma di intolleranza.

Solo che, poi, tutta questa costellazione emotiva finisce con il farci sentire a disagio. Ci spaventiamo e non ci riconosciamo in quell’immagine di noi così piena di rancore, così tagliente e denigratoria nei confronti degli altri. Non riusciamo a perdonarci e nessuna espiazione ci sembra sufficiente, a volte, per cancellare l’onta di pensieri che non avrebbero dovuto essere pensati.

Il nostro universo morale si può abbattere con furia su ciò che consideriamo una pericolosa ed infamante deviazione del nostro essere. E tale intransigenza può colpire, con identica ferocia, tutti coloro in cui riconosciamo posizioni e sentimenti analoghi ai nostri. Quei giovani che, sino al momento prima erano le ammirate divinità delle nostre rivincite, di colpo diventano il segno disonorante di una insopportabile confusione etica, da estinguere con il massimo rigore.

Ma proprio questo potremmo temere: di applicare le regole in modo violento, come qualcosa che, prima di tutto, deve punire e provocare dolore, piuttosto che attivare confini e contenimento. Abbiamo paura di impartire norme come fossero condanne e che uno spietato ordine morale cali, per nostra mano, come guaina infuocata di ferro, su chiunque ci sembri “portatore di colpa”.

Del resto, ci dice lo psicoanalista Leon Grinberg, forse, questo è ciò che da sempre accade nella storia, quando gli adulti, non più in grado di gestire il senso interno di persecuzione, immaginano e costruiscono le guerre per distruggere definitivamente l’intollerabilità del male. Ma la guerra purificatrice, la guerra giusta, purtroppo, è sempre fatta combattere dai giovani, i figli della patria. I nostri figli vengono, da noi stessi, esposti alla morte, estremo olocausto sull’altare di una tragica espiazione.

Se per un momento, inconsapevolmente, possiamo sostenere l’irruenza violenta ed irridente dei giovani che attaccano e ridicolizzano i rappresentanti del potere, subito dopo possiamo, invece, scagliarci con durezza verso quegli stessi giovani, identificati con sentimenti che non possiamo riconoscere e tollerare.

Sia l’adesione inconscia quanto il timore di non saper contenere una normatività esercitata con violenza, possono condurci ad abdicare al nostro ruolo. Un ruolo che i nostri figli, in realtà, molto attendono da noi; hanno ancora bisogno di alleatati che li aiutino a gestire la rabbia e il dolore suscitati dalle mille fatiche del crescere, senza cadere nella tentazione di fuggire e distruggere una condizione che non è, come si desiderava, completamente appagante.

Il nostro abdicare si può trasformare in una terribile assenza, in un disperante rifiuto, forse nella più spietata delle vendette. Fragili giganti, finiamo per abbandonare chi ancora da noi dipende alla più completa solitudine di fronte alle esperienze più difficili che la crescita e la vita inevitabilmente comportano.

Se l'Europa sparisce

La notizia
Esce oggi il volume di Marcello Pera e di Joseph Ratzinger Senza radici. La lectio magistralis del Presidente del Senato presso la Pontificia Università Lateranense e una conferenza tenuta dal Cardinale in Senato, sono alla base di questo volume che ruota intorno ai problemi dell’Europa, del cristianesimo, dell’islam, della guerra e delle questioni bioetiche.

La Repubblica, 23 novembre 2004

Il commento
Un’opera scritta a due mani, quella di Marcello Pera e del Cardinal Ratzinger che affronta problemi di indubbia attualità, quei problemi che in questo assaggio di millennio impegnano i nostri pensieri e presiedono alla nascita di non poche inquietudini. Verso quale destino sta andando l’Europa?

Se dal punto di vista politico ed economico, osserva Pera, la crescita in benessere e il processo di unione dei popoli può essere un elemento di rassicurazione, non così accade per il versante culturale e morale.

Il Trattato Costituzionale europeo, pochissimo discusso dai parlamentari e quasi per nulla dall’opinione pubblica, dovrebbe contenere quegli “elementi morali fondanti”, senza i quali la Costituzione stessa non è altro che semplice giustapposizione di principi oltre che di istituzioni.

In realtà, all’Europa sembra mancare il convincimento nei suoi stessi valori che tendono a venire imprigionati in un “ghetto di soggettività”. Con un’operazione chirurgica, poi, si tenta di estrarre da tale area qualcosa di sufficientemente generale e valido per tutti. Termini come “Europa religiosa” e “patrimonio comune dei popoli” sono quello che rimane. Troppo poco, dice Pera, per fondare un qualsiasi soggetto. Così facendo, ogni cosa attenga all’Europa: istituzioni, ordinamenti, Costituzione, finirà per essere attribuito non ad un’individualità politica definita, bensì ad un ente indistinto nella sua sostanza. Rarefatto e disincarnato come i concetti più generali della matematica.

Come ritrovare in questa massima astrazione culturale il segno delle nostre radici? Il Cardinal Ratzinger cerca di individuare le cause del fenomeno. I valori dell’Europa sono fondamentalmente valori cristiani, ma oggi il nostro continente è decisamente in rotta di collisione con la propria storia e spesso si fa portavoce di una negazione quasi assoluta circa una possibile dimensione pubblica della “cristianità”. Siamo diversi dagli Stati Uniti, dove la Costituzione è profondamente ispirata a convinzioni religiose e morali di ispirazione cristiano-protestante, non codificate esplicitamente da nessuno, ma semplicemente presupposte quale riferimento unitario per un numero considerevole di nazioni.

Secondo il Cardinale, questo è stato possibile poiché i cittadini americani, fuggiti dal sistema di Chiese di Stato vigenti in Europa, avevano trovato collocazione nelle libere comunità d’oltre Oceano. La dimensione religiosa, in tal modo, aveva perso il carattere di costrizione per assumere la connotazione di uno spazio vitale, aperto all’espressione della creatività dei singoli.

Il problema per noi resta: la mancanza, certamente angosciante, di una identità precisa in cui riconoscerci. In realtà, non ci risultano strane le argomentazioni del Cardinale e del Presidente del Senato. L’angoscia di cui dicono è ormai connaturata al nostro vivere, ne facciamo esperienza ogni giorno, anche solo nell’incontro, cui siamo capillarmente esposti, con altri popoli, altre identità nazionali che ci mostrano una coesione interna maggiore della nostra. Con stupore guardiamo i musulmani rispettare rigorosamente le regole e il lungo digiuno del Ramadan, recarsi regolarmente, a partire dalle più disparate condizioni, spesso dalle precarietà più estreme, alla moschea cittadina, secondo le cadenze degli appuntamenti preordinati. Non siamo più così. Un tempo, anche per noi la parrocchia e lo sgranarsi delle ricorrenze del calendario liturgico, erano riferimenti per tutti, riti che, sedimentando, si trasformavano in parti di vita, strutture interiori di coscienza. Con il passare degli anni, tutto questo è accaduto sempre meno; la religione è, prima, diventata una debolezza delle donne che l’uomo, il rappresentante del libero pensiero, tollerava con affetto o con fastidio. Poi, “cosa da vecchi” che non sanno stare al passo con il rombare dei tempi moderni, alla ricerca di una protezione più semplice e rassicurante, dove cullare il tremore di scoprirsi troppo vicini alla fine della vita.

Oggi, nella parte occidentale del nostro continente, la religione è diventata qualcosa per esperti, tecnici del settore, pensiero altamente specializzato accanto ad altri. Come una sorta di perfezionamento post-universitario, mentre alla società civile sono rimasti frammenti indistinti di quello che è stato, nel bene e nel male, un sistema unitario di senso. La società civile si trova a celebrare, indifferentemente, Natale, Halloween, la festa del raccolto e, recentemente, anche la scoperta dell’America. Qualsiasi tradizione è fagocitata, al di là del suo contesto e del suo valore, nell’indifferenza di una identità che sembra trovare esili criteri definitori solo in azioni e negli oggetti concreti posseduti: la macchina, la casa, l’abbigliamento, il fare vacanza, danza, piscina.

Vissuti per troppo tempo sotto l’egida di una Chiesa di Stato che ha ammantato di assoluto le regole della convivenza civile, si è approdati ad una negazione di qualsiasi possibile dimensione pubblica di quegli stessi valori cristiani.

Le ragioni della negazione poggiano ancora sulle braci dei roghi della santa inquisizione, ma il rifiuto si dirige anche sul sistema di pensiero che ha contenuto e metabolizzato, per secoli, l’evoluzione della nostra capacità simbolica, il modo che abbiamo trovato per celebrare l’amore, la nascita e la morte.

Il rifiuto, paradossalmente, ci separa dalla nostra storia e abbiamo difficoltà ad immaginare che cosa ancora ci accomuni. I nostri legami ci appaiono fragili e limitati, quasi casuali, dipendenti come sono solo da circostanze esterne: il lavoro, la scuola dei figli, la stessa palestra frequentata. Tutto il resto rimane confinato nel privato, materia magmatica ed indistinta di soggettività.

Temiamo che l’identità dell’europeo di oggi sia simile a quella del piccolo Hanno Buddenbroock che, nell’albero genealogico di famiglia, tra lo sgomento generale, tira distrattamente una riga dopo il proprio nome, quasi ad indicare che ogni possibile evoluzione è stata definitivamente consumata. Oggi è un senso pervadente di solitudine che ci tocca affrontare: non avere confini stabiliti, ma nemmeno un criterio interno che ci possa servire da bussola rispetto ad un qualsiasi compito di discernimento, proprio quando, invece, la complessità del reale, l’aumento delle opportunità offerte dalla scienza, chiedono un sempre più costante e raffinato esercizio delle nostre capacità di valutazione e di scelta.

Il nostro passato sembra non appartenerci più, mondo distante e lontano, pianeta da cui siamo partiti molti anni fa e che abbiamo visto rimpicciolirsi dall’oblò dell’astronave. La distanza siderale ha finito con il rendere tutto incredibilmente relativo, al punto che ci sono ora incomprensibili le passioni che si sono accese, le guerre sante precipitate al fondo dei secoli. Ora è nostro, piuttosto, un inquieto senso di smarrimento, un vuoto che prende il volto del buio del cielo, non più circoscritto dalle gradazioni, tenui od intense, dei colori. Uno spazio sconfinato, non decodificabile dai nostri sensi, senza nome, omogeneo, impenetrabile. Forse immagine del nostro mondo interno che ha perso la struttura dello spettro iridescente dei sistemi di credenze. Ogni valore è uguale all’altro, disincarnato come lo sentiamo, dalle ragioni che lo hanno generato, attualmente inattingibili alla nostra coscienza.

Restano frammenti scollegati dal tutto che cerchiamo di incorporare nella nostra esistenza, spinti dall’esigenza di ricomporre un’ossatura unitaria di fondo, estremo baluardo rispetto all’angoscia degli infiniti universi paralleli che sentiamo vivere dentro di noi, frammenti di mondi lontani, ognuno con il suo credo, con le sue regole e le sue usanze.

Ere, stratificazioni storiche che si sono consumate e che richiamiamo paradossalmente in vita, nel tentativo estremo di illuminare un presente indecifrabile. Eppure, verrebbe da pensare, non è solo così. Nel nostro spazio attuale, in modo caotico e disordinato, accogliamo, proprio nel ritmo della quotidianità, usi, costumi, voci, volti di altre tradizioni. Esistenze millenarie si avvicinano alla nostra, ci raccontano sapori di cibi sconosciuti che si imprimono nella nostra memoria, ci cantano il suono di ignoti linguaggi e modi diversissimi di dire padre e madre toccano il nostro cuore.

Siamo sgomenti di fronte a tanta inaspettata ricchezza e temiamo di venirne annientati. Svaniremo, sommersi da musiche straniere e violente, stoltamente irretiti dalla loro lieve bellezza. L’angoscia che oggi viviamo sembra quella che accompagna ogni grande cambiamento; ognuno di noi può temere che cambiare significhi semplicemente morire, non esserci più per come si era stati sino al momento prima e quindi sparire. Di noi si perderà la memoria, come è successo per le civiltà innumerevoli che ci hanno preceduto. Potrebbe nascere il desiderio di opporsi strenuamente alla catastrofe, cercando di evitare ogni contaminazione con la creazione di monadi isolate, non più in contatto con nessuno, nella celebrazione dell’identità dell’identico. Dovremo, come Cassiodoro alla fine dell’impero romano, rifugiarci in una nostra inaccessibile Vivarium per tramandare la cultura della classicità, proteggendola da popoli più giovani e vitali, ignari dei nostri sforzi per declinare il sapere intorno alle umane cose.

Il problema è che nessuno, alle soglie di un cambiamento importante, può dire cosa succederà dopo, se la nostra tradizione verrà conservata o distrutta e i gradi di tale processo. Tollerare l’incertezza, rimanere in una dimensione non definita e ancora scarsamente comprensibile, conservando il senso di integrità interiore, è certamente una delle angosce più profonde che l’essere umano si trovi ad affrontare. A volte l’angoscia può farsi insostenibile e spingere, prima che questo sia possibile, a trovare una sintesi che renda di nuovo palpabile la certezza di muoversi in un mondo coerente, dove ogni cosa – noi compresi, prima di tutto – trovi la sua legittima collocazione. Se la sintesi così ottenuta, non è, però, davvero in consonanza con gli elementi presenti, non solo non rende ragione di essi, ma si muta in operazione violenta di indebita semplificazione nella quale, poi, non possiamo riconoscerci.

Non sappiamo verso quale destino si sta muovendo l’Europa, non sappiamo cosa di noi sopravviverà e che cosa dovremo lasciare per sempre alle nostre spalle, irrimediabilmente consegnare all’inarrestabile precipitare del tempo. E forse non ci consola nemmeno molto, in assenza di qualsiasi possibile conoscenza del futuro, pensare che il dolore della separazione è sempre connesso alla fatica di ogni nuova creazione.

Una creazione dove il sapere, il frutto della nostra storia, potrà essere arricchito da nuove e diverse sapienze, illuminando, con la sua stessa fragilità, misteriosi ed imprevedibili, mai descritti sentieri.