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Ai confini della realtà

La notizia
Dall’otto al dieci ottobre si è tenuto ad Abano Terme e per la prima volta in Italia il quinto World Skeptics Congress, dedicato al tema Misteri risolti. Il congresso, promosso dalla CICAP (Comitato per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale), ha offerto lo spazio per un incontro ed un confronto tra i massimi studiosi mondiali di tutte quelle notizie che, pur risultando apparentemente incredibili, riescono ugualmente ad avere considerazione e diffusione nelle diverse comunità sociali del nostro pianeta. Come possono propagarsi leggende così totalmente false? Che cosa ci guadagna chi le mette in circolazione? Quali i principali danni che possono provocare? Queste ed altre sono le domande cui i congressisti – filosofi, astrofisici, chimici, neurologi, ma anche prestigiatori ed illusionisti – hanno cercato di dare una risposta, ben consapevoli dell’attualità e della vastità del fenomeno affrontato. Tanto è vero che i lavori congressuali sono terminati con un nuovo appuntamento per altro convegno che si terrà questa volta a Torino il sei e sette novembre, dal titolo: Voci, bufale, leggende metropolitane nell’era di internet.

Repubblica, 7 ottobre 2004

Il commento
Notizie apparentemente poco credibili, vengono tributate, contrariamente ad ogni aspettativa, di larga diffusione; un considerevole numero di persone le accettano, senza manifestare dubbi o perplessità di alcun genere, al punto che essi stessi diventano, poi, divulgatori presso altri dell’informazione sentita. Grazie ad internet, inoltre, le favole metropolitane si veicolano molto più rapidamente, al punto che sono nati appositi siti che possono aiutare nella discriminazione.

Le leggende sono dei generi più disparati: nel deserto dell’Iraq esisterebbero giganteschi ragni urlatori, aggressivi e carnivori che, quando mordono, iniettano una sostanza simile alla novocaina. I ristoranti di Taiwan, invece, tra le loro specialità possono offrire carne di neonato e, per le tasche dei meno facoltosi, ci sono prodotti inscatolati con tanto di etichetta che illustra il contenuto: cervello di piccolo uomo. Esistono, poi, i gatti bonsai, allevati in vasetti di vetro al fine di ottenere le dimensioni desiderate; ovviamente, le sofferenze dei gattini prescelti sono inaudite, pari solo a quelle delle giovani giapponesi che la tradizione voleva costringere a misure ridotte, per fortuna solo limitatamente ai piedi. Spostandoci dall’altra parte del pianeta, troviamo un’agenzia statunitense – Hunting for Bamby – che propone safari dove, in parchi protetti destinati alla caccia, si spara a donne nude con proiettili di vernice.

Non è poi da dimenticare un vero e proprio cucciolo di drago, alto ben trenta centimetri, conservato in un vaso di formalina sin dal 1890. Come non si può certo tacere il fatto che sono presenti aghi all’HIV nelle poltrone dei cinema oppure virus che colpiscono anche a computer spento, oppure ancora che gli squilli a vuoto del cellulare si pagano…

Sembra infinita ed inarrestabile la quantità di notizie del tutto infondate che invadono e si stratificano nel bagaglio informativo che ogni giorno ci raggiunge. Tra l’altro, la difficoltà di selezione aumenta considerevolmente quando, come nella maggior parte dei casi, la notizia falsa si mescola ad altre vere, diventa solo piccolo segmento di un’intera parte, dove “il confine tra realtà e fiction – dice l’articolista Laura Laurenzi – diventa uno zig zag del possibile”.

Ci sorprendiamo a sorridere, siamo del tutto certi che noi non crederemmo mai a fantasie del genere, ma finiamo con l’avvertire anche una malcelata inquietudine. In realtà, ci sembra di muoverci in un’atmosfera nota, abbiamo l’impressione di incontrare un modo caratteristico che la mente utilizza per pensare la realtà. Non possiamo non ricordare, per esempio, l’infinita letteratura sulle possibili forme di vita al di fuori della terra: libri, film, spettacoli televisivi guardati con sufficienza eppure con una sotterranea, pervasiava e puntuale partecipazione. Sono tutte favole, certo, eppure favole avvincenti, in grado di catturare l’attenzione e il desiderio.

Verrebbe da pensare ad un estremo tentativo di controllo: quello che non possiamo conoscere, proprio per questo ci suscita inquietudine. Certi pensieri, come quello degli extraterrestri, non hanno nessuna esperienza, nessun dato certo cui appoggiarsi, eppure potrebbero indicare un’esistenza. L’estrema indeterminatezza, però, non rimane tale, ma si riempie subito di immagini precise e tangibili: ci sono i marziani, sono verdi, gommosi, affettuosi e feroci e vogliono sterminare la razza umana per soggiogare la terra.

Non sapere e non poter sapere colma d’angoscia insopportabile; c’è qualcosa di non catalogabile, che non rientra nel quadro di senso che abbiamo provveduto a costruire circa il mondo che ci circonda. E se c’è qualcosa che sfugge, provincia barbara e oscura, allora, forse, tutto il sistema di significati è minato nella sua radice, corriamo il rischio di vedere incrinate le nostre certezze, la nostra sapienza, la sicurezza con cui possiamo muoverci nella vita.

Non solo: non poter sapere intorno a qualcosa diventa icona, marchio scomodo e bruciante, di un ben più doloroso non sapere, ineludibile e tragico aspetto della dimensione umana: di noi, in realtà, non conosciamo nemmeno il perché, il senso ultimo della nostra nascita come ignoriamo il significato della nostra finitudine. Ogni spazio di mancanza di consapevolezza si apre, probabilmente, su questa primaria assenza e ne risuona.

Sfuggire a tale inquietudine, potersi immaginare come struttura perfetta che contiene, quale dotazione originaria, ogni sapienza del tempo e della materia, è sogno irrinunciabile dell’uomo. Sogno rappresentato da innumerevoli immagini come quella mitica del dio provvisto di ali infinite su cui sono disseminati migliaia di occhi; un solo battere delle ali genera la perfezione della conoscenza. Già il pensiero classico aveva sviluppato il progetto di un’opera scientifica che potesse convalidare tale aspirazione di compiutezza. Le Antichità di Varrone sono andate perdute, ma Agostino era ancora riuscito a consultarle e aveva formulato il desiderio di una raccolta simile per l’interpretazione delle Sacre Scritture. Il Medioevo ha cercato di dare compimento a tale proposito: Isidoro di Siviglia compila le Etimologie, Beda il Venerabile il suo De rerum natura. Nel IX secolo abbiamo, invece, il De rerum naturis di Rabano Mauro mentre, all’interno di tale genere, l’opera più rappresentativa del XII secolo è, forse, il De imagine mundi di Onorio d’Autun.

Da essa apprendiamo che la superficie della Terra si distribuisce in cinque zone di cui solo una è abitata dall’uomo ed è divisa dal mar Mediterraneo in tre parti: Europa, Africa ed Asia. Quest’ultima prende il nome da una regina ed è la prima regione ad est, partendo dal Paradiso Terrestre. Sulle montagne della parte dell’Asia denominata India, vivono i Pigmei che sono alti due cubiti, si riproducono a tre anni di età e ad otto sono vecchi. Nelle vallate, invece, ci sono i Macrobi che combattono contro i grifoni, animali pericolosi con il corpo di leone e le ali dell’aquila. Altri popoli ancora, uccidono i loro parenti anziani, li fanno cuocere per mangiarli e considerano empio chi si rifiuta di farlo. Non bisogna, poi, dimenticare la popolazione degli Sciopodi che, su un piede solo, corrono più veloci del vento e, con questo stesso piede, si riparano dal calore del sole. Ma ci sono anche uomini senza testa, con gli occhi sulle spalle, il naso e la bocca sul petto. Alcuni vivono del solo profumo di un certo frutto e se viaggiano, lo portano con sé; sono molto fragili poiché un cattivo odore è sufficiente a farli morire.

Metodo scientifico universalmente accolto all’epoca, era quello dell’etimologia delle parole; partendo dall’assunto che i nomi sono stati dati alle cose per esprimerne la natura, si affermava di poter conoscere, a ritroso, qualsiasi cosa sulla sola base del nome o meglio, del significato primitivo del nome. Tale metodo, in realtà, non fu abbandonato molto presto e ancora Shakespeare, nel XVII secolo, si divertiva con l’etimologia di mulier: mollis aer.

Alla spiegazione etimologica, si univa l’interpretazione simbolica secondo la quale gli esseri sono semplicemente dei segni che esprimono significati in ordine alla concezione generale del mondo. Il significato simbolico delle cose era di un’importanza tale che ci si dimenticava, talvolta, di verificarne l’esistenza. La fenice, ad esempio, era un simbolo talmente prezioso della resurrezione di Cristo che non si pensava nemmeno di chiedersi se esistesse.

Proprio l’interpretazione simbolica sembra permettere il riferimento ad un altro importante fattore, anch’esso, con tutta probabilità, collegato alla produzione delle notizie “incredibili”.

Questa volta non si tratta solo del desiderio di possedere ogni sapere, quanto del bisogno di rappresentazione che sembra insito alla nostra esperienza emotiva.

Sicuramente nessuno di noi ha mai incontrato un drago in carne ed ossa, ma un qualsiasi litigio può averci spaventato. Nello “scontro”, l’altra persona, a volte, ci è sembrata potente e minacciosa e le sue parole ci hanno ustionato come lava incandescente. Non solo: ci siamo anche spaventati della nostra rabbia incontenibile e feroce, ci siamo sentiti terribili, pieni di un fuoco distruttore pronto a riversarsi su chi ci circondava.

Nella nostra esperienza, il drago esiste davvero, è l’immagine di una costellazione di affetti particolarmente pregnante ed angosciante.

Da questo punto di vista, allora, probabilmente è rassicurante pensare ad un cucciolo di drago: se anche orchi e draghi generano piccoli, prendendosene cura e facendoli crescere, forse persino l’odio più devastante può essere abitato dalle dimensioni della cura e dell’affetto. Forse anche noi, come i draghi, possiamo controllare la nostra rabbia e manifestarla solo in circostanze ritenute utili per realizzare una protezione di noi stessi e degli altri.

Analoghe osservazioni si potrebbero condurre per gli aghi all’HIV nelle poltrone dei cinema o per gli squilli a vuoto del cellulare che sarebbero a pagamento.

Quante volte abbiamo l’impressione di non poter mai abbassare la guardia, di dovere sempre tenere tutto sotto controllo perché il mondo che ci circonda è solo ingannevolmente amico; ci lusinga e ci illude con la promessa di appagamenti apparentemente a portata di mano e direttamente fruibili, ma proprio quando ci abbandoniamo con totale fiducia ad ogni attraente prospettiva, ci aspetta la varco, irridente, con la più aspra tra le frustrazioni. L’amarezza è incontenibile come la rabbia nei confronti di noi stessi che così ingenuamente abbiamo immaginato una realtà accogliente rispetto ai nostri desideri.

Anche in questo caso, la poltrona avvelenata è profondamente esistente in quanto simbolo di ogni abbandono non riuscito, della fiducia tradita. Il dolore dell’esperienza resta dentro di noi come il segno di una malattia che contamina la mente, malattia che spesso temiamo e viviamo come incurabile.

Potremmo procedere in questo modo per tutte le notizie di cui abbiamo raccontato: quante volte avremmo voluto “fare arrosto” le persone cui siamo maggiormente legati per poi, magari, cibarcene, distruggendo, in tal modo, un legame troppo soffocante e costringente, senza perdere, però, la forza e le doti di cui gli altri ci sembravano depositari. E quante volte un profumo sentito nell’aria ci ha irreparabilmente commossi, condizionando l’umore di un’ora o di molti giorni?

Attraverso le notizie impossibili, è come se cercassimo di dire che sono le nostre esperienze emotive quelle dotate di maggiore “concretezza” e “realtà”, anche se non le vediamo e non le tocchiamo mai. I nostri sensi non hanno modo di trovarle, raccontarle, presentarle ai nostri occhi. Eppure la nostra esistenza dipende interamente da esse, molto più che dagli oggetti concreti che ci circondano.

Le storie che abbiamo sentito, le notizie fantastiche, assomigliano ad una irruzione della nostra anima nel mondo della materia, la nostra anima che ogni giorno si stupisce di essere immateriale e chiede perentoriamente una tangibilità al mondo delle cose, sotto la spinta imprescindibile dell’esigenza di un’incarnazione.

Le armi da guerra al supermarket

La notizia
Nel settembre del 1994, l'allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton firmava il bando alle armi, varando una legge comunemente conosciuta come “legge Brady”, dal nome del suo sostenitore, portavoce di Ronal Regan, rimasto paralizzato nel fallito attentato del 1981 contro lo stesso Regan. Per 10 anni la legge ha proibito la vendita ai civili di 19 tipi di armi automatiche e semiautomatiche. Dal 13 settembre di quest'anno il bando non è più in vigore. La legge, infatti, scadeva naturalmente dopo 10 anni, a meno di una modifica da parte del Congresso, ma l'amministrazione Busch non ha programmato nessun intervento in merito. Il problema della scadenza non è stato sollevato nemmeno dal candidato democratico John Kerry durante la campagna elettorale per le presidenziali.

La Repubblica, 13 settembre 2004

Il commento
Con crescente angoscia continuiamo a seguire gli avvenimenti internazionali. In questo momento, apprendiamo, quasi increduli, della liberazione delle due italiane rapite in Iraq, quando ancora non si è spenta l'eco dolorosa della morte del loro collega ed amico, il giornalista Enzo Baldoni. Né, tantomeno, l'impatto terribile dell'atto terroristico nella scuola russa e dei troppi volti bambini che abbiamo visto viaggiare veloci, apparentemente eterei, sui teleschermi di tutto il mondo. Teleschermi che solo recentemente hanno involontariamente trasmesso in diretta la morte di un cronista di Al – Arabiya mentre mostrava un blindato americano attaccato e bruciato dai ribelli. Immagini ancora una volta terribili che potremmo pensare come la testimonianza, il simbolo più fedele di quanto sta accadendo: non abbiamo neanche il tempo di guardare perché il sangue ci macchia gli occhi.

L'orrore non si lascia vedere né pensare, l'orrore permette, semplicemente, solo di venire vissuto. Del resto, lo sappiamo: potremmo essere le prime vittime italiane di un attentato kamikaze, subito confusi e cancellati da una nuova, abbagliante tragedia. L'odio e la morte possono stare seduti su una panchina, passeggiare nell'atrio di una stazione, passare in un bar. La morte nascosta dietro il volto di un giovane uomo o di una giovane donna, volto senza sguardo, devastato e devastante. Morte e guerra ci catturano per la strada al lavoro, nelle ore pigre di queste giornate di fine settembre che trattengono, ostinate, vestigia dell'oro dell'estate.

Nulla più sembra consueto.

Non ce lo diciamo, ma ci sentiamo in guerra. Dopo quella fredda, questa potrebbe essere la quarta guerra mondiale, lo scontro inimmaginabile e terribile delle civiltà. Una scintilla innescata dall'avidità dell'occidente, temiamo possa avere fatto esplodere un processo planetario apparentemente inarginabile. Non abbiamo neppure bisogno di cercare le ragioni: è troppo tempo che siamo abituati ed informati della miseria del terzo e quarto mondo. Non siamo tranquilli, crediamo, neanche troppo inconsapevolmente, che una rabbia proporzionale ai soprusi ci possa annientare. Soprusi che ora ci paiono infiniti; il pensiero, con sgomento, si spinge persino alle deportazioni dei negri d'Africa per tornare rapido al presente, alle leggi razziali promulgate in paesi non nostri, agli sfruttamenti indiscriminati delle grandi multinazionali che hanno inaridito per sempre enormi spazi di terra, condannandone a morte per fame gli abitanti. Non riusciamo a smettere di pensare: la creazione di governi di comodo ed amici negli stati ricchi di materie prime, non importa se poi erano governi sanguinari e violenti. Tanto, se le cose sfuggivano di mano, per riprendere il controllo bastava una dichiarazione di guerra contro il tiranno, guerra che costava lo stesso un numero infinito di dolori, di vite scomparse nel nulla. Il nostro pensiero si ferma con sgomento di fronte alla nostra inammissibile impotenza, la chiama indifferenza, emette una sentenza di condanna. Potevamo intervenire, protestare e non abbiamo saputo farlo …

Quanta rabbia può essere cresciuta, sedimentata, accumulata nel corso di così tanto tempo?

Temiamo di poter essere colpiti in ogni momento perché, in ogni momento, ci sentiamo colpevoli. Una posizione non semplice, in realtà intollerabile. Come sembra testimoniare l'articolo di Vittorio Zucconi apparso due settimane fa su Repubblica.

In America è tornato possibile acquistare, senza problemi particolari, veri e propri strumenti di guerra come l'AK 47, prediletto dal terrorismo, l'Uzi israeliano o la carabina M16 in dotazione all'esercito che può sparare, tenendo premuto il grilletto, 30 proiettili in circa 5 secondi. Armi, dunque, che vanno oltre ogni concepibile uso sportivo o di caccia e sono certamente più appropriate al contesto di una trincea. Da sempre la legge Brady, che vietava l'uso di tali micidiali strumenti di offesa, è stata sottoposta alla dura opposizione dei costruttori di armi, ma non solo: anche associazioni del tutto “laiche” come la National Rifle Association con i suoi quattro milioni di aderenti non ha mai cessato di contrastare, presentandola come strumento totalitario di controllo, insopportabile lesione ai diritti garantiti dalla costituzione e soprattutto atto di esposizione a golpe totalitari. Infatti, secondo l'Associazione, proprio il fatto che ciascun cittadino possieda un'arma e il diritto di portarla, è la migliore protezione rispetto a possibili dittature o attentati terroristici. Suonano terribili le parole di Charlton Heston, membro onorario e per tre volte presidente della NRA: «Potranno togliermi la pistola soltanto strappandomela dalle mia dita fredde, da morto.»

Sembra che l'universo emotivo che è stato nostro agli inizi della vita, continui ad accompagnarci nella sua intensità e nella sua tragica rudimentalità. Allora paura e dolore ci hanno portato a desiderare di distruggere ed annientare, almeno fare molto soffrire, chi ci sembrava si fosse reso responsabile della nostra pene, visto che non ci aveva protetto da esse, abbandonandoci ad una desertificante solitudine, priva di conforto e compagnia. Abbiamo poi temuto che chi avevamo così odiato, potesse rivalersi su di noi, trattandoci con identica violenza, rendendoci colpi e ferite. Ma abbiamo soprattutto temuto di avere distrutto sul serio e per sempre chi di noi si prendeva cura, chi per noi allora era il sole della vita e della sopravvivenza.

Col tempo, abbiamo imparato a distinguere la fantasia dalla realtà e abbiamo cercato, con infinita fatica, di tenere insieme i nostri sentimenti di odio e di amore, ricordandoci che chi era deludente era anche chi, attimo dopo, riusciva a donarci il calore e l'affetto della sua presenza.

Abbiamo cercato di sopportare le mancanze per non distruggere i nostri legami e la nostra possibilità di metterci in comunicazione, di mantenere un dialogo con coloro che amiamo.

Oggi, però, lo scenario del mondo sembra precipitarci nuovamente alle origini primitive dell'esistenza. Proprio perché sappiamo che mille dolori sono stati inferti, temiamo che ora questo male ci torni addosso per distruggerci. Ogni particella della realtà sembra farsi minacciosa, occhio animato che guarda malevolo e catturante. Dobbiamo essere sempre pronti a difenderci, visto che la coscienza della nostra colpa non ci abbandona mai. Angoscia infinita, soprattutto perché l'offesa arrecata sembra senza rimedio. Abbiamo infranto l'ordine, la bellezza e la vita e non sopportiamo i resti doloranti e straziati della nostra furia. Non sappiamo tollerare di essere violenti, ciechi, limitati, fallibili e non sappiamo perdonarci.

Come facevamo da bambini, buttiamo fuori di noi questa incandescente coscienza, terrorizzati all'idea di venirne sopraffatti e spariamo mille pallottole al secondo, nella folle speranza di tornare ad una purezza incontaminata da cui ricominciare.

È la nostra rabbia omicida a farci paura; ancora una volta sembra dircelo un'ulteriore notizia pubblicata sempre da Repubblica nella prima settimana di agosto, notizia che ci informa di come siano state trovate tracce di Prozac nelle acque del Tamigi e, più in generale, in quelle di tutta l'Inghilterra, ivi compresa anche l'acqua utilizzata in casa, quella che esce dal rubinetto. Il Prozac, dunque, un farmaco ad effetto calmante e rilassante, sembra essere diventato oggetto di consumo di massa e consumo davvero ingente, superiore ad ogni possibile supposizione, visto che le sue tracce si ritrovano ancora nell'acqua potabile, dopo tutte le possibili depurazioni.

Nell'ultima settimana di agosto, invece, ancora Repubblica riportava alcuni recenti risultati dell'ingegneria biomedicale: sarebbe possibile impiantare piccoli microcip vicino alle zone corticali deputate alla gestione degli impulsi aggressivi. Quando una persona si sentisse eccessivamente turbata od arrabbiata, potrebbe, tramite un telecomando in sua dotazione, inviare un impulso ai microcip che, a loro volta, provocherebbero una piccola scarica elettrica sui centri nervosi con effetto depressivo ed inibente. In questo modo, potrebbe essere evitato il trasformarsi di quello stato d'animo esacerbato ed irritato che si sta provando in concrete azioni direttamente offensive.

Non crediamo di potere essere in grado di gestire e contenere il nostro dolore e il nostro odio sconfinato, finiamo per armarci anche contro noi stessi, i veri terribili nemici, per sparare nella mente trenta proiettili al secondo appena avvertiamo il minimo segno di disagio. Oppure scegliamo l'artificiale ottundimento di un farmaco che, come killer su commissione, ancora più sottilmente del microcip, raggiunga la nostra anima rovente e la spenga.

Ci sentiamo inadeguati non solo rispetto alle notizie che ci giungono dai paesi in guerra; prima ancora di questo, ci sentiamo impotenti verso noi stessi, incapaci di prenderci la responsabilità di quello che siamo, soprattutto dei nostri difetti e di quello che questi ci hanno portato ad agire e ad essere.

Certo non è semplice riuscire ad accettare i fatti e i sentimenti distruttivi che fanno parte della nostra storia, sicuramente è questa l'opera più faticosa che ogni giorno ci attende, mai compiuta e sempre bisognosa di cure e di attenzione, ma notizie del genere non possono che inquietare e preoccupare, visto che vanno proprio nella direzione opposta rispetto all'integrazione e possono solo aumentare il circolo vizioso della rabbia, della paura e dell'odio, tramutando il mondo, quello esterno e quello interno a noi, nell'immagine disperata che oggi abbiamo di Bagdad, dove le stragi si accavallano senza senso e sembrano annegare in un dolore privo di redenzione.

Democrazia e tortura

La notizia
In questi giorni, la morte di Antonio Amato si aggiunge alle notizie sempre più terribili che ci giungono dal conflitto iracheno. Questa volta, la vittima non è un soldato, ma un civile spostatosi in Arabia Saudita per ragioni di lavoro. A 35 anni Amato aveva, infatti, deciso di recarsi nel paese arabo per lavorare come cuoco nel residence Oasis Resort; era lui a dare l'impronta italiana al ristorante Casa Mia, appartenente al lussuoso complesso alberghiero.

La Repubblica, 30 maggio 2004

Il commento
Pochi giorni fa, a Genova, si sono celebrate le esequie di Fabrizio Quattrocchi. Nell'omelia funebre, l'Arcivescovo invitava a leggere come segno di speranza e di possibile dialogo, la restituzione del corpo del nostro connazionale. Purtroppo, come sappiamo, quest'invito si è rivelato difficile da mantenere a causa delle notizie, giunte solo poche ore più tardi, relative all'attentato in Arabia Saudita. Un attentato che ha comportato l'uccisione di quanti erano stati catturati e, tra essi, l'italiano Antonio Amato.

«La barbara uccisione del giovane è un crimine efferato che scuote la coscienza degli italiani», ha scritto il presidente della Repubblica nel suo messaggio di cordoglio alla famiglia, sottolineando la necessità che «diritto e legalità internazionale prevalgano sull'odio».

Sempre maggiore è la preoccupazione per l'incalzare di avvenimenti che rimandano ad un non previsto, costantemente più ingovernabile, certamente tragico, scenario di guerra.

Doveva essere, per l'immaginario collettivo, uno scontro rapido e risolutivo, preciso in modo millimetrico, orientato ad estirpare il "male" di una tirannia per restituire un paese alla sua dignità e ad una disponibilità non aggressiva nei confronti dell'Occidente. Qualcosa quasi di asettico, dunque, guerra dal cielo, combattuta da soldati visti come l'incarnazione di un ordine di superiore giustizia che si risolvevano a quel gesto per sollevare l'umanità, e soprattutto gli iracheni, dai residui di una barbarie lacerante. Ancora oggi ritroviamo nella memoria le immagini dei soldati americani che sottraggono alle bombe e proteggono dal fuoco della trincea i soldati dell'opposta fazione, quegli stessi uomini che erano andati a combattere.

Icona perfetta che l'Occidente cercava di dare di sé.

Oggi, a solo un anno di distanza, le cose sono molto diverse; la sensazione più diffusa è quella della discesa agli inferi in una guerra vera, da combattere corpo a corpo.

«Sta diventando sempre più chiaro – scrive Domenico Starnone sul Manifesto – che non basta piegare la resistenza di uno stato, dopo un'esibizione di muscoli. Bisogna dispiegare un vero e proprio esercito, fare fuoco e fiamme tra cielo e terra per imporre a tutti, ai singoli corpi di molti sparsi nemici, quasi uno per uno, la disciplina dell'occidente, i suoi valori, le sue urgenze, le sue necessità».

Torna inevitabilmente alla memoria il capitolo pesante e tragico del Vietnam. Qualche tempo fa su Repubblica è comparsa l'intervista ai due veterani che nel 1968 si opposero alla strage di May Lai. Dichiarava uno di questi, Lerry Colburn:

«Sono felice di essere sopravvissuto perché evidentemente, finchè sono vivo, potrò continuare a dire ciò che penso da quella mattina del 16 marzo. Che non può che finire decisamente male quando pretendi di portare la democrazia in un paese di cui non sai nulla. Di cui non conosci nulla. Di cui non ti importa nulla».

La situazione attuale, purtroppo, non sembra molto diversa da quella di allora. Siamo andati in Iraq sulla base dell'esistenza di minacce che non è stato possibile verificare e confermare, sostanzialmente sotto l'egida di un falso posto come copertura di altro progetto, mirante a salvaguardare interessi politici ed economici. Salvaguardia, tra l'altro, che si è immaginato di poter compiere in un limitatissimo spazio di tempo.

Il sogno della guerra lampo ha continuato a sedurre le menti. Pensare che in un breve periodo, senza quasi perdite interne, ci si possa impadronire di terre ed uomini, sostituendosi dall'esterno ai vertici del potere per governare secondo la propria volontà, acquisendo ricchezze e risorse, liberi dal peso di conoscere un popolo, vissuto solo come massa di anonimi sottoposti … Sogno mai sopito che, ci verrebbe da pensare, se gli esseri umani fossero fatti in serie come in molta letteratura fantascientifica, sarebbe persino possibile realizzare.

Forse, però, un sogno di questo tipo affonda la sua possibilità di venire sognato anche nella bugia che precede l'ultimo nostro intervento bellico.

Se davvero il nostro scopo fosse stato quello di riportare la democrazia, rimuovere un tiranno sostenitore ormai di uno stato di terrore non più solo nazionale, non ci saremmo potuti esimere dall'entrare in contatto e dal dialogare con coloro che erano più direttamente coinvolti in quell'orrore, gli uomini e le donne dell'Iraq, da tempo sottoposti alla pesantezza del regime. Ma il nostro scopo non era – e non è - propriamente questo, aveva le sue radici in altri bisogni ed eventi, certamente anche in quell'11 settembre di tre anni fa che brucia indelebile nella memoria. Ricordo di una catastrofe che, ora come allora, blocca il pensiero, lasciandolo libero di procedere a rapide e terribili semplificazioni.

Le semplificazioni note ad ogni propaganda e ad ogni guerra che sembrano togliere, di colpo, il peso della fatica di comprendere. Tutto, infatti, pare farsi improvvisamente chiaro e il pensiero apparentemente procede sotto il sigillo di un'indubitabile verità; ci sono dei "nemici" del tutto inaccessibili nella loro malvagità, ci sono dei "buoni" che si devono difendere da quella assoluta forza distruttiva. Il fatto tragico, l'orrore non pensabile, rende possibile una diversa distribuzione della negatività che subisce un brusco accorpamento: non più diffusa ed ubiquitaria, peso per ciascuno, ma quantità raggrumata in un preciso luogo geografico, in una singola persona, in un gruppo, in una razza.

Forse è in questo punto preciso che nasce l'uomo seriale: la realtà delle persone si fa infinitamente lontana, per essere sostituita da categorie astratte: il malvagio, il menzognero, il distruttore. Ancora una volta, tutto è chiaro; non c'è più nessuno da conoscere, ma solo qualcuno da eliminare.

Ma ad essere annientato, in realtà, è il legame emotivo con l'altro.

E se l'altro non è più, come dice Pavese, "qualcuno che ci somiglia", è possibile, semplificando, depositare in lui ogni male, sospendere e sostituire il pensiero con l'azione. Un'azione che cancelli l'ingiustizia.

L'attacco al WTC ha permesso, all'America e all'Occidente, di procedere alla semplificazione e alla distribuzione del male di cui stiamo dicendo; ha concesso di pensare che esisteva una guerra diversa dalle convenzionali, da condursi con nuove armi e che i terroristi erano "combattenti illegali", privi, per questo, del diritto di venire difesi dalle leggi internazionali.

Forse è questo il punto che ci ha inchiodati ad una guerra che mostra di noi, nonostante la propaganda, un inaccettabile volto brutale e violento. Forse è questo il punto della discesa agli inferi nell'orrore della tortura.

La completa depositazione dell'immoralità in qualcuno di esterno, muta questi in "non uomo", in oggetto di totale appartenenza di chi, catturandolo, non può che limitarsi a distruggerlo.

Tali coordinate rigide e schematiche fanno si che le condizioni particolari della cattura si rivelino terreno friabile per chi lo percorre, sottile linea di confine nel contenimento della violenza.

In effetti, chi viene fatto prigioniero, si trova in uno stato di assoluta disparità di forze e di dipendenza totale rispetto a coloro che lo tengono sequestrato; in qualche modo, diventa proprietà di chi lo custodisce, potenzialmente determinabile in modo completo. Non c'è più nulla che possa fare in modo autonomo e, se questo succede, è solo per concessione. Si crea lo spazio di una possibilità totale nei confronti dell'altro, non più segnata dai limiti di realtà diverse che si incontrano.

Una condizione come questa è molto simile a quella che ogni essere umano vive quando viene al mondo, dipendente completamente com'è per la sua sopravvivenza dagli adulti che lo circondano.

A fatica, riusciamo ad immaginare l'intensità che i sentimenti possono raggiungere in una così totale dimensione di impotenza. Un ritardo per il pasto, una solitudine che si prolunga eccessivamente, tutto può diventare qualcosa di intollerabile, volto e segno di un abbandono senza rimedio, anticipo di una precoce morte, esposizione ad un orrore per cui non esiste nemmeno il nome.

Nell'assenza di risorse proprie, il piccolo essere umano non può che fidarsi ed affidarsi ad una realtà pensata come benevola e portatrice di salvezza. Tutte le volte che questa fiducia viene disattesa, a livello emotivo il trauma è devastante. Il mondo non è più spazio arricchente, ma incubo senza uscita che inchioda ad una lenta agonia.

L'incarcerato, il prigioniero, inevitabilmente rende nuovamente quasi tangibile per tutti la lontana, ma mai dimenticata fragilità delle origini.

In tal senso, allora, ferire, denudare, umiliare e tutte le altre varie forme di tortura sembrano ricreare all'infinito l'orrore di un mondo malevolo che non custodisce, ma distrugge ciò che a lui è stato affidato. Sembra ricreare il dolore senza limiti dell'attesa di una carezza riempita dall'inspiegabile bruciare di una percossa. E sembra volere deridere all'infinito quella sciocca ed ingiustificata fiducia nella bontà e nell'accoglienza del reale.

Forse un desiderio profondo di liberazione è proprio questo: far vivere e rivivere ad altri l'onta indicibile di una intollerabile dipendenza impotente, l'attesa infamante, sciocca e cieca di un affetto mai arrivato al cuore, nonostante la fede assoluta che, al tempo, abitava nei nostri cuori per quelli che allora erano i nostri dei, re e regine incondizionatamente amati.

Introdurre a forza qualcun altro in quel tempo malefico, quando la sofferenza mentale distrugge il significato prezioso dello scorrere dei minuti come progresso, sostituendolo con un precipitare incarcerante e disumanizzante, senza sbocco, senso o speranza.

Mettere tutto questo in altri e trionfare nella liberazione, ripristinando un'immagine di sé priva dell'abbandono, della minorità e della disillusione.

Già Pietro Verri nel 1776 nel suo saggio Osservazioni sulla tortura, lodava Maria Teresa d'Austria per aver avuto la grazia di abolire questa pratica, sottolineando come solo i popoli arretrati la usino. Nel corso del tempo, la legislazione e le convenzioni internazionali hanno cercato di porsi a difesa dell'integrità morale di chi combatte. A più di due secoli di distanza, quello che è accaduto in Iraq testimonia quanto sia profonda la tentazione cui l'uomo si espone nel momento in cui si trova ad agire in uno scenario di guerra.

Dovevamo essere i salvatori, portare la buona novella della democrazia, sconfiggere il tiranno che aveva come suoi strumenti abituali di governo la brutalità, la coercizione e l'omicidio ed invece siamo inchiodati da immagini che ci ritraggono mentre oltraggiamo uomini inermi.

Immagini forse persino spudorate, di chi si sente tassello di un potere ineguagliabile, la democrazia più opulenta ed orgogliosamente esibita della storia.

Il dolore, la vergogna e la fragilità che abbiamo cercato di ricacciare lontano da noi, in altri esseri umani, ci rimbalza addosso, centuplicata nella sua mostruosità.

Ai nostri "nemici" abbiamo finito per opporci con lo stesso volto primitivo e indegno.

La bella principessa dei ghiacci

La notizia
Undici anni fa sull’altopiano di Ukok, nella regione degli Altai, tra Mongolia e Cina, un gruppo di archeologi si è imbattuto in un sarcofago di epoca scizia. All’interno, custodito in una bolla di ghiaccio a quasi tremila metri di altezza, il corpo perfettamente conservato di una donna vissuta duemilacinquecento anni fa. Una principessa, presumibilmente, vista la ricchezza della sepoltura, ed una principessa giovane e bella. Oggi, una rivolta infiamma la remota regione e si organizza una petizione perché il suo corpo sia riportato immediatamente in patria.

La Repubblica, 28 giugno 2004

Il commento
Il ritrovamento di undici anni fa diventò subito leggenda, ma gli sciamani e gli stregoni del luogo cominciarono a diffondere tra il popolo un tremendo vaticinio: la rabbia del cielo e della terra si sarebbe rivelata implacabile a causa della profanazione delle sacre spoglie.

Paradossalmente, da allora la tranquilla regione di montagna sembrò davvero colpita da una maledizione e mali di ogni genere e gravità si abbatterono sulla popolazione: due scosse di terremoto al giorno, frane e cascate d’acqua che sgorgavano all’improvviso, siccità e carestie, un’epidemia di suicidi iniziata con quello di un nonno e un nipote. Centinaia di senzatetto che consumavano il bestiame prima che i capi morissero spontaneamente per mancanza di cibo.

In assenza di un sostegno da parte del governo, ci si ricordò della mummia e della profezia di sventura. Al culmine della disperazione, oggi una petizione con migliaia di firme nella quale si chiede “il ritorno in patria delle sacre reliquie” è appena stata inviata alle autorità competenti e gli sciamani confermano che solo quando la principessa sarà tornata nei ghiacci degli Altai, pace e prosperità guarderanno ancora verso la piccola repubblica della federazione russa.

Da settimane, inoltre, è scattata la caccia agli archeologi che cercano le tombe a solo scopo di saccheggio. Per fare diminuire la tensione, è stato necessario un intervento di Mosca che ha proibito gli scavi, dichiarando l’altopiano zona protetta. Ha, poi, promesso, terminati gli esami scientifici, il ritorno della principessa nella sua terra e la creazione di un grande museo etnografico nel capoluogo della regione.

Sembra che una favola sia diventata evento concreto del nostro mondo: la bella addormentata dei ghiacci, al cui destino è legato quello del suo popolo. Se la sua pace è profanata, anche la vita della piccola repubblica risulta disequilibrata, travolta da dolore e morte. Proprio come nella favola, la vittima dell’incantesimo estende il maleficio a tutto il regno che cade in un sonno buio e senza nome lungo 100 anni. Sonno infinito, imprigionato da altissimi rovi che sembrano soffocare per sempre la vita.

È pericoloso, quindi, turbare la quiete delle regine che, con il loro solo esserci, garantiscono prosperità e pace. Strana alchimia: la garanzia di equilibrio e vita è fatta consistere in una bellissima donna, morta molto presto, proprio al culmine, forse, di perfezione e giovinezza. Se la fine non fosse giunta così in anticipo, certamente ci sarebbe stato ancora un crescere, se pure diverso da quello sperimentato sino a quel momento. Ci sarebbe stata la responsabilità dei ruoli, la difficile realizzazione dei progetti, il peso dei fallimenti, delle scelte e delle rinunce. La trama imprigionante del dolore delle perdite e un lento, inammissibile, invecchiare, scandito dalla paura per un tempo affannato nel suo sfiorire.

Invece, come nelle favole che si fermano sempre sulla soglia della casa dei principi novelli sposi, tutto si è cristallizzato e rarefatto; un respiro impalpabile, appena sufficiente a mantenere la forma estrema del pensiero della vita, ha immortalato un attimo incontaminato e lo ha consegnato all’immortalità.

Prima di tutto e senza che nulla sia ancora avvenuto.

Viene da chiederci se qualcosa di simile facciamo anche noi con noi stessi. Al fondo del nostro esistere, poniamo il silenzioso ardere di un sogno regale. Siamo figli di dei; all’origine del nostro tempo, una principessa bellissima ha intessuto di splendore la nostra carne. Ora, certo, a volte possiamo sembrare povera cosa, sottoposti all’ingiuria di un destino che non ci risparmia umiliazioni e cadute, ma se ci specchiamo, all’insaputa di tutti, non vediamo uomini vinti, trasfigurati da mille dolori, ma le sembianze di un’indiscussa e imperitura affermazione.

Solo apparentemente, accettiamo lo scorrere del tempo e la sua non ripetibile linearità, ma in segreto coltiviamo la certezza di una identità regale. Anche noi, in realtà, ci siamo forse fermati al culmine della giovinezza, quando né corpo ed anima sembrano poter essere contaminati dalla finitudine.

Per analogia, dai ricordi emerge un’altra immagine: alla fine del suo lungo viaggio, il protagonista di Cuore di tenebra, la celebre opera di Joseph Conrad, trova il luogo dove abita Kurtz, un europeo trasferitosi a lavorare in Africa e trasformatosi, in un lento processo di corruzione morale, nel signore del luogo, venerato come divinità dagli indigeni. L’occupazione assegnata dal governo britannico aveva lasciato il posto al commercio di avorio, all’avido appropriarsi, attraverso furto e rapina, dei beni di quella terra. Quando ormai Kurtz è stanato e vinto, i suoi seguaci si mobilitano per l’estrema difesa e tra di essi emerge l’intensità della bellezza di una donna giovane e selvaggia, perfetta nella forza della sua audacia.

«Camminava con passi misurati, calpestando orgogliosa la terra. Teneva alta la testa; i capelli erano acconciati a guisa d’elmo; aveva gambali d’ottone fino al ginocchio, al collo, innumerevoli fili di perle di vetro; oggetti bizzarri, amuleti, doni di stregoni che appesi al suo corpo luccicavano e tremavano ad ogni passo. Era selvaggia e superba, magnifica, con lo sguardo allucinato; c’era qualcosa di minaccioso e solenne nel suo incedere deliberato. E nel silenzio che era caduto all’improvviso su quella terra addolorata, sull’immensità selvaggia, sembrava che quel corpo colossale della vita misteriosa e feconda la guardasse, pensoso, come se stesse osservando l’immagine della propria anima tenebrosa e appassionata.»

Due principesse, due volti, forse, dello stesso desiderio. A fondamento della regalità immortale, ci può essere l’urgenza di una mancanza e di un rimpianto che non sa sopportare il dolore, la delusione sconfinata, la rabbia dell’attesa. Ogni attesa, non pensabile evento, è vissuta al pari di umiliazione infamante, sciagura che corrode la maestosità di un’identità incorruttibile: agli dei tutto è possibile, nulla è vietato. Sono solo i poveri mortali che devono chiedere ed attendere, che devono prendersi cura di ciò che amano, che devono imparare dedizione, rispetto e rinuncia. Ma nessuno ha voglia di diventare un semplice essere mortale, nessuno ha voglia di entrare in un tempo destinato a finire.

È un’inversione emotiva profonda, lento e faticoso processo dove si depongono, poco a poco, le spoglie di una sognata immortalità per imparare a chiedere e ad amare. Inversione dolorosa, ma essenziale, in realtà, visto che il Kurtz di Conrad vive in un mondo desolato e distrutto dalla sua stessa avidità, “un’oscura regione di orrori sottili, dove la barbarie pura e semplice era un vero sollievo”. Eppure non è facile rinunciare, sino all’ultimo Kurtz lotta per affermare il suo mondo artificiale contro quello della realtà degli affetti; lotta per difendere ciò che agli occhi di chi è appena giunto si presenta come l’orrore dell’inferno.

Eppure non è semplice; forse Kurtz, come noi, non vede quello che lo circonda nel suo vero aspetto: in una terribile perversione, è diventato bene il male, piacere il dolore. Certo, a volte la disperazione può esplodere con forza devastante quando sembra di essersi smarriti per sempre e di non poter più tornare all’autenticità degli affetti, quando ci si sente “astronauti dell’anima che viaggiano alla deriva in un universo senza vita”. Ma, nonostante ciò, può sembrare persino preferibile questo tipo di disperazione rispetto al cambiamento. Un cambiamento immaginato come indesiderata vicinanza al peso intollerabile della debolezza, della fragilità, della solitudine, della dipendenza. Forse, a trattenerci, non è nemmeno il timore di perdere la regalità immortale, quanto quello di venire sommersi, di non farcela a sopportare l’impatto con qualcosa di così angoscioso Winnicott, al riguardo, parla di “paura del crollo”:

«Il termine crollo, nel suo complesso, può essere inteso per indicare il fallimento di un’organizzazione di difesa. Difesa contro l’impensabile stato di cose che sta sotto l’organizzazione difensiva stessa, il crollo dell’unità del sé.»

Quante volte i nostri pazienti ci esprimono questo: «Ma mi piacerò davvero, diverso da come sono?», «A volte mi sembra di sfiorare qualcosa che non è quello che io conosco di me e ho l’impressione che se solo mi soffermassi in questo, sarebbe come morire.»

Spesso, in ragione di ciò, la terapia è sentita come qualcosa che aumenta incertezza e fatica, che espone sconsideratamente al pericolo quando non, a volte, come vero e proprio strumento di morte.

Come per gli abitanti della repubblica degli Altai, il timore è quello di vedere sconvolta e devastata la propria terra.

Quasi nessuno, in effetti, intraprende una psicoterapia per ricercare una verità emotiva intorno a se stesso; più generalmente, il desiderio è quello di trovare un aiuto per fortificare un sistema che sembra non funzionare più bene. I pazienti ci chiedono di portare qualche altro dono alla principessa dei ghiacci, in modo che possa ancora rifulgere della sua luce consolatoria e rassicurante. Essere aiutati a rispecchiarsi in lei, in modo da rinascere per sempre ad immagine di dei immortali che non conoscono sconfitta e dolore. Questo non possiamo fare, ma sappiamo di infliggere una terribile delusione. Spesso, allora, come terapeuti siamo contrastati se non considerati alla stregua di imprevidenti e temerari che credono in capacità che il paziente non si riconosce. Oppure, ancora, veniamo percepiti come gelidi capitani che spingono alla battaglia, gettano in pericoli estremi, senza partecipare personalmente, abbandonando a miserie e difficoltà.

Non che tutto questo non rappresenti anche un rischio: se la distanza emotiva è grande, possiamo finire con l’assumere una posizione “scolastica” di chi si limita a raccontare la teoria del dover essere psicoanalitico, rifiutandoci di sentire quello che, in effetti, tale teoria, di volta in volta, significa sul piano degli affetti, in un reale abbandono emotivo del paziente a se stesso.

Ma è altrettanto forte il rischio di colludere con il progetto di potenza proposto dal paziente. Possiamo, segretamente e insieme, continuare a venerare un’immagine di esotica compostezza, la perfezione di una immortale giovinezza selvaggia e audace, la sola che sembra capace di redimere e cancellare ogni fallimento.

Senza prestare attenzione, senza poter vedere che l’oggetto della nostra venerazione è una giovane donna strappata alla vita troppo presto e che certo non ha mai desiderato per sé una così precoce fine. Senza vedere che giovinezza ed immortalità sono solo un povero tessuto mummificato e privo vita, tristemente ricoperto di gioielli luccicanti.

Il "volo di notte" dell'occidente

La notizia
Sono stati ritrovati i resti dell'aereo dello scrittore Antoine de Saint Exupery, scomparso quasi sessant'anni fa. Sono al largo di Marsiglia, vicino all'isola di Riou. Proprio ieri, infatti, il dipartimento francese delle ricerche archeologiche subacquee e sottomarine ha annunciato che i pezzi di apparecchio recuperato al largo di Marsiglia nell'autunno del 2003 sono effettivamente quelli dell'aereo di Saint-Exupéry. A permettere l'identificazione è stato il numero di fabbricazione dell'officina Lockeed, che corrisponde alla matricola militare 42-68223, attribuita al velivolo americano pilotato dall'autore del Piccolo Principe.

Il Manifesto, 7 aprile 2004

Il commento
Il 7 settembre del 1998, i marinai del peschereccio francese L'Horizon avevano ritrovato nelle loro reti un pezzo di braccialetto in maglia metallica e una piastrina argentea coperta di incrostazioni, sulla quale erano incise queste parole «Antoine de Saint-Exupéry (Consuelo), c/o Reynal and Hitchcok Inc, 386t Avenue, N.Y. City, Usa». Non c'erano dubbi che la piastrina fosse autentica: Consuelo si chiamava la moglie di Saint-Exupery, e l'indirizzo era quello dell'editore americano del piccolo principe.

La piastrina apparteneva proprio ad uno degli scrittori più amati del 900, un uomo che non avrebbe dovuto volare mai più e che, in una mattina estiva del 1944, era comunque riuscito a decollare dall'aeroporto corso di Borgo, per un volo di ricognizione sulla Francia occupata. Un volo senza ritorno, perché il Lightning P-38 si inabissò nel golfo di Marsiglia, in un punto rimasto ignoto per sessant'anni, e del quale solo ora conosciamo le coordinate.

Il pilota francese, dunque, ha trovato la morte nelle acque della Costa Azzurra in un oscuro giorno di guerra, il 31 giugno 1944. Le ipotesi sono molte: un guasto meccanico – ne aveva avuti tanti nella sua vita; una manovra più pericolosa delle altre, vista la sua passione per il rischio estremo e il numero impressionante di incidenti occorsi nella sua carriera; un combattimento, anche se quel giorno non sono stati segnalati scontri nel cielo di Marsiglia e le truppe tedesche non hanno rivendicato nessuna vittoria aerea …

«Le eliche non sono deformate e non ci sono buchi di proiettili. L'unica ipotesi che i resti permettono di fare è quella di una caduta in picchiata. Ma è solo un'ipotesi» comunica Patrick Grenjean, direttore del ministero della Cultura.

Una sparizione repentina e assoluta, una morte incredibilmente “letteraria”, l'unica possibile, forse, per colui che Marie Louise Von Franz, nel suo saggio L'eterno fanciullo, definisce il più perfetto esempio di puer aeternus: qualcuno che «non tocca mai del tutto la terra», la sfiora di tanto in tanto, lasciando dietro di sé rare e scarse tracce.

Una lunghissima malinconia e un libro, uno più degli altri, sono tutto quello che ci resta di lui. Il racconto di un piccolo principe che, dopo avere conosciuto mondi e mondi, aveva scelto di tornare al suo pianeta lontano, vinto dalla nostalgia per un prezioso, bellissimo fiore.

Difficile ritorno, visto che occorreva diventare più leggeri di una piuma, liberarsi di un corpo troppo compatto e pesante per affrontare il viaggio nella rarefazione dell’universo.

«Ma sarà come una scorza abbandonata e non sono tristi le vecchie scorze» dice l’ometto biondo al suo amico aviatore a mò di consolazione per quell’irrevocabile, tragico addio. «Sembrerò come morto, ma non sarà così».

Però la sua voce trema e i suoi occhi sono pallidi di paura guardando dentro se stessi, in un destino fattosi improvvisamente troppo vicino. Deve sedersi per fermare il tremore di fronte all’estremo sacrificio. Il sacrificio per un fiore orgoglioso e fragile con le sue sole quattro spine per affrontare il vento pungente della sera.

Forse anche Saint Exupery si è liberato di un corpo troppo terrestre e pesante che lo confinava ad una vita arida da deserto.

In fondo, nel suo libro ci parla proprio di un pianeta «poco più grande di una casa», circondato da adulti di cui non si può avere fiducia.

Uomini “grandi” che non hanno il coraggio di conoscere quello che li circonda e che, per sconfiggere paura ed impotenza, si chiudono in un mondo circolare dove creare l’illusione di un effettivo potere, di un’autorità condivisa. Ma, in realtà, gli adulti non hanno potere su nulla; prigionieri di una farsa tragica, cercano solo qualcuno che li ammiri per non cadere sopraffatti nel loro stesso vuoto.

Non possono e non sanno occuparsi delle cose davvero importanti, di ciò che accade al cuore, e soffocano l’angoscia di un tempo effimero con la ripetizione ossessiva di azioni che spengono il pensiero.

Non sono davvero quelli cui un bambino può chiedere aiuto per imparare a distinguere il bene dal male; è tanto tempo che di questo si sono disinteressati anche se proprio questo è il compito più importante per sopravvivere. Infatti, ogni giorno il piccolo principe deve riconoscere i semi buoni da quelli cattivi che germogliano sul suo pianeta. Sarebbe terribile distrarsi o, peggio, non sapere. Perché i semi cattivi crescono e diventano enormi, dei babobab immensi che, con le loro radici, fanno scoppiare il pianeta, la casa dove è possibile la vita.

Ci deve essere qualcuno che insegna ai bambini come trattare i sentimenti più pericolosi: la rabbia, l’angoscia, l’impotenza, la paura, la disperazione. Altrimenti, anche questi possono diventare giganteschi, montagne di pietra e di dolore che pesano sul cuore.

Senza sapere come fare, è difficile. Può succedere quello che è accaduto al piccolo principe con il suo fiore. Un fiore diverso dagli altri che, dopo molti giorni di attesa, è sbocciato in tutto il suo splendore. «Come sei bello!». È il commovente stupore della nascita degli affetti, miracolo che illumina le ore e dà senso ad ogni più piccola particella di materia.

Ogni spazio, da adesso in poi, sarà la terra che accoglie parole ed abbracci; ogni tempo, lo scorrere breve, lento od affannato posto prima e dopo ogni incontro. Una trasfigurazione. Quello che era indefinita successione, indistinguibile sovrapposizione di unità identiche, acquista una struttura morfologica nitida e profonda, diventa colore, musica, la straziante bellezza del creato.

«Ciò che abbellisce il deserto è che nasconde un pozzo in qualche luogo. La mia casa nasconde un tesoro nel fondo del suo cuore».

La mia casa può essere attraversata dalla sfolgorante dolcezza di un segreto palpitare e finalmente mi sentirò vivo della vita dei miei amori.

Ma come la vita nasce dal legame, così pure dal legame può arrivare distruzione e morte. Non sempre c’è corrispondenza di affetti, a volte il fiore era pretenzioso ed insoddisfatto. Il piccolo principe, «nonostante tutta la buona volontà del suo amore, aveva cominciato a dubitare di lui, aveva preso sul serio parole che lo avevano raggelato».

Il legame lascia cadere semi benefici e semi cattivi e quelli cattivi – baobab enormi di paura – convincono il piccolo principe ad andarsene con la certezza di non essere desiderato. Forse è proprio quello che è accaduto a Saint Exupery che dai suoi amori è sempre fuggito con strazio, preferendo volare alto su questo pianeta fattosi inospitale come un deserto.

«Consuelo, ho bisogno delle vostre lettere come del pane …vorrei dirvi solo che vi amo», scrive il pilota pochi giorni prima di morire, ma la sua compagna non era più accanto a lui ormai da molto tempo e certo non c’era durante il soggiorno americano, quando nasce la storia del piccolo bambino biondo. Una fiaba, si è detto proprio scritta per lei, per riconquistarla. Andarsene da tutto, stanchi di una solitudine aguzza che non si può riempire. Raggiungere il sogno lontano di un bene depositato in un altro mondo. Questo è «tutto secco, pieno di punte e tutto salato», colmo sino all’orlo di un vuoto che risuona di sé all’infinito, abitato da uomini che non hanno radici e che il vento spinge come sabbia in un insensato turbinio di tempesta.

«Da me avevo un fiore e parlava sempre per primo» e riempiva l’infinito orrore della solitudine con il sole della tenerezza. C’è stato qualcuno che mi consolava, forse prima del tempo, prima che ogni casa fosse. Ora il calore di quell’abbraccio non riesce più a raggiungermi. Il piccolo principe se ne va, solo un passo leggero per abbandonare un corpo fattosi opprimente, definitivamente invaso dalle radici enormi di un gelo mortale. Forse anche noi, spesso, possiamo lasciarci sedurre dal sogno segreto e freddo della disperazione. Magari dicendoci che, sì, e vero: gli altri giungono ad illuminare i giorni, ma sono troppo distratti e fragili per rimanere e farci rimanere. Ci lasciano partire impotenti, travolti dalle lacrime e senza ricordarsi il nostro nome.

Ci consegnano ad un immedicato addio, alla certezza di portare dentro solo distruzione e dolore. Sono troppo lontani ed intangibili per noi che, a volte, abbiamo un corpo così pesante di rabbia e solitudine. Potremmo, come gli adulti del piccolo principe, chiuderci in un mondo artificiale, confezionare in laboratorio la sembianza dell’incontro e della conoscenza senza essere, di fatto, da nessuna parte, con occhi che non guardano mai chi è di fronte, sempre concentrati come sono ad ascoltare parole che rendono infelici, che recitano all’infinito l’irrevocabile impossibilità di essere amati.

Potremmo, come Saint Exupery, desiderare veder solo da lontano questo strano mondo pericoloso che può ferire a morte; potremmo farci vincere dallo sgomento e decidere di raggiungere almeno con proiettili infuocati il cuore di uomini che non si lasciano addomesticare.

Un lungo, notturno volo senza fine, popolato di bombe e di accecanti esplosioni di morte.

Come quelle di cui, in queste ore, ci danno notizia i giornali di tutto il mondo, addolorato segno di una comunicazione devastatrice che, a volte, sembra prevalere con arroganza sulle altre, soffocandone i significati e la speranza.