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Il peso della povertà in tempo di opulenza

La notizia
L’articolo di Michele Smargiassi tenta di fotografare quello che sta accadendo nelle famiglie italiane alle prese con il difficile compito di metabolizzare l’aumento del costo della vita che, con marcia inarrestabile, è iniziato a salire con l’avvento dell’euro e non si è più fermato, da allora ad oggi. Quali conseguenze comporta questo evento sul piano della percezione di se stessi e della realtà sociale in cui si vive?

La Repubblica, 9 marzo 2004

Il commento
È un dato molto recente – pochi anni – quello dell’aumento vertiginoso del costo della vita, inatteso elemento di cui tenere, con fatica, conto e memoria. Talmente inatteso che sembra non essere nemmeno del tutto reale: una difficoltà destinata a risolversi e dissolversi in breve: questo può essere lo stato d’animo immediato, sostenuto dai dati ISTAT che parlano di immutate condizioni economiche, di allarmismi esagerati ed ingiustificati dei comitati consumatori, al servizio di forze politiche tese solo a creare, distruttivamente, malcontento e inquietudine. Ma il passare del tempo sta sedimentando e testimoniando una realtà diversa con la quale sembra difficile entrare in contatto, difficile persino da dire e da descrivere.

Michele Smargiassi ha scelto di fare parlare direttamente i protagonisti, arrivando al dettaglio crudo e concreto del nome e cognome, ha scelto la voce delle persone – tante – delle più diverse parti d’Italia, voci che ci arrivano anche dai luoghi tradizionalmente associati con la diffusione del benessere. Una scelta aggressiva, per certi versi, forse l’unica ritenuta adeguata a svolgere un ruolo di contrapposizione rispetto alle frequenti comunicazioni ufficiali che insistono sul “nulla è cambiato”, a volte persino recitano di insperato insieme di esclusivi vantaggi.

Non è vero che accade ciò che accade: è l’immdiatezza dell’esperienza ad essere annullata in una vertigine destabilizzante. Vertigine che si muta in ombra morale: allora dipende da me, ho le mani bucate, non so regolarmi e limitarmi, sono malato di un’emorragia non visibile, silente, del tutto mortale.

Smargiassi, sull’altro piatto della bilancia, sceglie di mettere i nomi e cognomi, il peso delle storie e delle esistenze. Paola Gambino, dipendente di un’azienda tessile di Vercelli, percepisce 900 euro al mese e il suo compagno, tecnico qualificato, 1500. Non male, un tempo, ma ora la gestione è difficile: un mutuo, un bambino piccolo … “A gennaio ho deciso di rimandare di un mese il bollo auto, meglio pagare il 3% di mora che non il 6% di scoperto sul conto in banca.”

Loredana Risso, impiegata parastatale, cerca un secondo lavoro per arrotondare il 1250 euro suoi e quelli quasi uguali del marito, mamma a carico e mutuo “firmato quando credevamo di potercelo permettere.” I soldi non bastano mai.

“Nel corso del mese si arriva dove si arriva – dice Marco Minghetti – poi, per sbarcare sulla terraferma dello stipendio, si fa il salto in lungo.”

Sonia Agostani è la responsabile amministrativa di una fabbrica di ventilatori industriali di Nova Milanese e fa le busta paga per 110 dipendenti. “Solo qualche mese fa, erano poche le persone che chiedevano anticipi. Ora sono più di venti e temo che aumenteranno. Si vede che è una cosa inconsueta per loro, sono imbarazzati, ritengono di dovermi dare delle spiegazioni.”

Tagliare il superfluo è la parola d’ordine, ma la sensazione è quella di vivere solo per lavorare e per pagare le bollette. Nei newsgroup di internet fioriscono i consigli per risparmiare, mentre sistematica si è fatta la caccia a saldi ed offerte e prezioso si rivela avere degli amici cui chiedere qualche prestito nelle ultime settimane del mese.

Un sottobosco di rimedi ed espedienti si è teso come improvvisata rete di sostegno, ma tutto è ancora confinato nel non detto, nel non ufficiale, nel non esistente. Troppo pesante, forse, è sentirsi, di colpo, assimilati, per modi e costumi, all’aerea della marginalità sociale, dove nulla, per scelta o per interna fragilità, può essere sicuro e continuativo.

Il sociologo De Masi così commenta i dati di Smargiassi: “Già Marx osservava che il proletariato non è chi non ha il necessario oggi, ma chi teme di non averlo domani. Attualmente, questo cambia l’autopercezione che le famiglie hanno di se stesse.”

È l’immagine di sé che subisce il contraccolpo doloroso di un’inaccettabile ferita. Non bastare alla propria vita diventa, inevitabilmente, motivo di inesorabile processo e di conclusiva, inappellabile, sentenza di fallimento. La conferma inattesa di tutti i dubbi, così faticosamente combattuti e contrastati, circa il proprio valore e la fiducia nelle personali capacità. La conferma di una identità negativa che condanna ad una esistenza dimezzata, deprivata e derubata. Solo una sciocca speranza ha permesso di immaginare la possibilità di realizzazione affettiva ed umana, ed è stato stolto abbandonarsi, come bambini, senza remore ed incondizionatamente, ad un sogno disperato nella sua follia. Non dovevamo dimenticare la nostra invincibile, geneticamente strutturale, inadeguatezza alla vita. Abbiamo anche sprecato la speranza di generazioni, di padri e madri che hanno visto crescere con noi, l’amarezza della definitiva disillusione.

È un effetto a catena sulla china dell’insicurezza e dell’autosvalutazione.

Anche perché, nello stesso quotidiano, sono ampiamente riportate le notizie delle sfilate di moda di Parigi e di Roma e descritte in dettaglio le scelte sofferte di Valentino, come quelle di Ford che abbandona per sempre la casa di Saint Laurent. Le borse di Prada offrono le loro ultime creazioni, metà pagina ospita la notizia del salone degli antiquari a Stpinigi, una fotocamera digitale rimanda il suo luccicare su una carta di credito che permetterebbe rapidi acquisti.

La sensazione di inadeguatezza è ancora più pesante: non siamo quello che dovremmo essere. I soldi che non bastano diventano il segno infamante di diversità e di minorità.

Osserva ancora De Masi: “Gli italiani non stanno programmando la propria discesa realistica nella scala sociale, stanno solo cercando di resistere e non vedono l’ora di risalire.”

I conti che non tornano sono solo qualcosa da nascondere perché segno di una mancata normalità, sinonimo di debolezza e di ammorbante bisogno. Salvare le apparenze, nonostante tutto, può essere l’unica soluzione possibile.

L’immagine di quell’uomo bianco, europeo, occidentale che tutti dovremmo essere continua ad imporsi con violenza perentoria. Un uomo che ha istruzione universitaria, viaggia su macchine scintillanti che sanno dire dove ci si trova e che tempo farà, vive in ville ovattate da parchi e giardini e non conosce la fatica abbruttente del contatto con la materia: un puro, seducente, ricchissimo spirito.

È difficile reggere un tale sfolgorante ideale. Al di là dell’apparenza che si tenta di salvare, ci sono risorse che non bastano più per vivere, c’è il dissennato utilizzo dei beni della terra, la povertà spaventosa, ferita e disperata di chi sta nell’altra parte del mondo.

Al di là dell’apparenza, confusione ed angoscia possono espandersi a dismisura. Il prezzo, a volte, è tragico: piuttosto che rendere manifesta una povertà sentita come disonorante, si preferisce rinunciare alla vita stessa. Anche di questo parlano i quotidiani.

È esigente sino alla consumazione estrema, il nostro luccicante ideale.

Esigente sino ad indurci a continuare a tributare ammirazione e consenso nei confronti di chi sembra riuscire ad ottenere tutto quello che vuole, appagare ogni desiderio senza sottostare a limitazione alcuna, scivolando lieve sulle ore dei giorni, incontaminato da fatica e dolore. Essere quello che vorremmo essere e non siamo.

Sogno ammaliante per il quale finiamo con il non difendere nemmeno più i nostri diritti, segno di un vergognoso ed inammissibile limite.

Infatti, in questi giorni, a Genova, ha fatto rumore l’omelia pronunciata dell’arcivescovo Tarcisio Bertone, in occasione della festività di S. Giuseppe. L’omelia riguardava proprio il mondo del lavoro, presentato nei suoi aspetti di criticità.

“Molti di quelli che riescono a lavorare a Genova, svolgono occupazioni a tempo determinato: questa condizione rende difficile l’assunzione di responsabilità sociali stabili. […] La disoccupazione e le forme di precarietà colpiscono innumerevoli cittadini mentre, secondo i principi di giustizia, bisogna che tutti partecipino ai benefici come alle difficoltà.”

“Per questo, continua l’arcivescovo, con molta chiarezza desideriamo affermare che è inaccettabile il permanere di stipendi ingiusti ed inadeguati; che vengano imposti orari di lavoro inconciliabili con il bisogno di riposo; che si abusi della precarietà del rapporto lavorativo o si sfrutti il lavoro nero od irregolare.”

Non sono parole particolarmente sorprendenti nel loro significato: è l’amara denuncia di una situazione cittadina nella quale, facilmente, si può riconoscere non solo il nostro paese, ma l’intero mondo industrializzato. Il pensiero corre a quei non pochi giovani americani che sempre più frequentemente ricorrono alle mense della Caritas internazionale e ai dormitori pubblici per poterne riemergere, durante il giorno, in giacca, cravatta e valigetta ventiquattrore.

Non sono le parole dell’omelia, piuttosto è lo stupore che le ha accolte che ci sorprende. Si è parlato di rigore, di coraggio, proprio quel coraggio, forse, che sentiamo di non avere di fronte ad un’immagine di noi che ci coglie con sgomento, quasi anacronistica memoria di una primitività imperfetta e dolorosa che credevamo di avere per sempre eliminato.

La consolazione della filosofia. Psicoterapia e filosofia a confronto.

La notizia
In un articolo dell'ottobre scorso, Umberto Galimberti ci informa di come anche in Italia stiano nascendo corsi di laurea, scuole e centri di consulenza filosofica. La domanda intorno al significato dell'esistere non è, secondo l'autore, questione attinente alla psicoterapia e non si riferisce esclusivamente all'area del patologico, bensì riguarda un terreno più generalmente umano che non può eludere l'interrogativo circa il senso del suo essere e del suo destino.

La Repubblica, 22 ottobre 2003

Il commento
Uno scritto apparso un po' di tempo fa su Repubblica e messo da parte per la riflessione. Articolo inaspettato, quello di Galimberti. Ci sentiamo ricondotti alla tensione dolorosa dell'adolescenza, quando la sete di sapere e di assoluto riempiono imperiosamente ogni attesa e rendono estremo ogni bisogno. Non è facile immergersi nuovamente in una così scomoda condizione emotiva e nemmeno è semplice assumerla nella sua verità: il desiderio di sapere chi siamo ha la sua radice prima, come domanda, proprio nella constatazione della finitudine della vita.

Forse per la prima volta questo dato ci si impone nella sua irrinunciabilità proprio quando ci apprestiamo a lasciare per sempre la condizione di bambini. Amaro dono e inattesa responsabilità.

Che senso possono avere le regole, i divieti e le richieste del mondo, se proprio il mondo, e noi con esso, è destinato a finire? Se la nostra vita ha un termine, perché non rubare e uccidere, perché sottomettersi ad autorità incomprensibili … in vista di quale guadagno, in ragione di che cosa?

Come sfuggire ad un'esistenza in cui il rispetto può essere solo timore della diversità, stanca e trascinata abitudine? Per non uscire e nemmeno farsi perseguitare dal branco, condannarsi alla ripetizione di gesti vuoti, meccanicamente preordinati. Non ci sarà altro tempo per noi, per essere quello che siamo e per sentirci felici.

La sotterranea inquietudine che accompagna queste domande non è sinonimo di patologia, dice Galimberti, la richiesta di senso non riguarda l'ambito terapeutico, ma è territorio della filosofia, nella misura in cui si dirige verso qualcosa che è proprio dell'uomo in quanto tale. La psicoterapia, e in particolare la psicoanalisi, da sempre luogo di accoglimento di una richiesta di chiarificazione circa se stessi, gioverebbe, invece, di un contatto più diretto con il mondo delle idee; proprio la psicoanalisi, invece, si è tenuta troppo distante dalla filosofia, impedendosi crescite ed arricchimenti.

Galimberti sembra sottolineare come la psicoterapia abbia, forse, appiattito il disagio nell'area della patologia - sintomo e parola di identità imperfette - non svincolando da questa la forma di inquietudine strutturalmente appartenente alla condizione umana in quanto legata alle coordinate della contingenza. Dovrebbe esserci una maggiore distinzione ed autonomia dei distinti ambiti, ma l'impresa non è semplice, visto che, poi, è ancora Galimberti a parlare della religione come di una "poderosa terapia di massa" e della filosofia quale ricerca non solo di sapere, ma anche di saggezza ispiratrice di una pratica di vita.

"Nessuno abita l'universo, ma la sua visione dell'universo. Il senso della nostra esistenza dipende dalla chiarificazione della visione del mondo, responsabile del nostro agire, soffrire, gioire."

E' una prospettiva – potremmo persino dire una pretesa – a lungo coltivata dal cuore: che la decifrazione del nostro esistere faccia discendere da sé i criteri della morale, dell'emotività, della convivenza civile. Come nei grandi sistemi della filosofia greca, la metafisica precedeva e giustificava le concezioni etiche, politiche, psicologiche.

La morte illumina la vita: se la morte ha un senso, anche la vita lo possiede.

Ancora oggi potremmo desiderare che le caratteristiche del fondamento assoluto, dell'essere che non può non essere, conformino di sé l'inestricabile confusione dell'umano. Potremmo voler sapere che questo mondo che abitiamo, così continuamente sottoposto al cambiamento e al finire: la pioggia, il vento, la lava dei vulcani, il caldo torrido, la sabbia del deserto, quella che inizia è l'ultima primavera per me, i primi mandarini profumati; questo mondo è il volto, la testimonianza e la metafora del Dio che è da sempre e per sempre, che per amore ci ha dato terra, pioggia e dolore.

Ogni cosa cessa di essere angoscia aperta sulla non conoscenza, diventa volto nascosto, ma sensibile di un essere che vuole avere a che fare con noi e che conosce il nostro nome.

La filosofia, però, è fatta di concetti che, per loro natura, sono universali, illuminano l'esperienza sensitiva solo per i caratteri generali, mentre la concretezza è destinata, inevitabilmente, a sfuggire. Dice Pascal:

"Che farà, dunque, l'uomo, all'infuori di scorgere qualche apparenza di ciò che vi è di intermedio tra le cose, in una eterna disperazione di poter conoscere sia il loro principio, sia la loro fine? […] Eppure bruciamo per il desiderio di trovare un assetto stabile ed una base ultima, ben consistente per edificarvi una torre che s'innalzi all'infinito, ma ogni nostro fondamento si screpola, e la terra si apre sino agli abissi."
(Blaise Pascal, Pensieri).

La trama, fitta e fragile, del nostro esistere sembra abbandonata a se stessa, solo nell'impalcatura illuminata ed attraversata dai trascendentali dell'essere; il suo contenuto, così specifico e determinato, resta ineffabile. Per noi, però, proprio la specificità è importante, è delle mille e mille specificità che corriamo il rischio di morire.

Potremmo dire, con Tommaso D'Aquino, che "l'oggetto proprio dell'intelletto umano nella vita presente è la quidditas rei materialis", la natura più intima delle cose materiali, da cui dipende, ad ogni istante, il nostro sentire e il nostro agire. (Summa Theologiae, I, q. 84, art.7)

La nostra anima si rabbuia per un saluto mancato, frettoloso, freddo; perdiamo sicurezza per uno sguardo un po' più duro ed irridente; il timore ci assale per un ritardo imprevisto, per una dimenticanza fortuita. Un bicchiere che cade riempie del suo fragore e dei suoi frantumi mille minuti, una risata allaga di calore la moltitudine dei sogni.

Il nostro equilibrio è delicato, ci basta, come dice ancora Pascal, un vapore per fare morire l'anima e la sua speranza. Siamo alle prese con questo doloroso bilanciarsi ogni minuto dei nostri giorni, tesi a trattenere e proteggere la centralità di un bene e di un senso da cui partire per continuare a vivere e a costruire nuovi significati.

"All'improvviso oggi ho capito, con un'illuminazione segreta, di essere stato derubato dal poter esistere prima che esistesse il mondo. Da una botola appesa lassù sto precipitando per uno spazio infinito, in una caduta senza direzione.

La mia anima è un maëlstrom nero, una vasta vertigine intorno al vuoto, un movimento di un oceano senza confini intorno ad un buco nel nulla, e nelle acque, che più che acque sono turbini, galleggiano le immagini di ciò che ho visto e sentito nel mondo: vorticano case, volti, libri, casse, echi di musiche e spezzoni di voce in un turbine sinistro e senza fondo. E io, proprio io, sono il nulla intorno a cui questo movimento gira, la fine di tutti i mondi che fluttua oscuramente al vento, senza un Dio che l'abbia creata, senza neppure se stessa che sta girando nelle tenebre delle tenebre. Mia madre è morta molto presto e io non l'ho conosciuta …"

(Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine)

Niente è mio, nemmeno i miei pensieri e le cose che vedo o sento, dice Pessoa, tutto è insignificante, privo di peso e misura nel nulla che sono perché, per lunghissimi strazianti momenti, troppo lunghi per lasciare spazio al futuro, non c'era nessuno a guardarmi e io non sono stato per nessuno. L'assenza si è fissata al centro dei pensieri ed ha preso la forma di una incarnazione: sono quel nessuno che è stato con me, sono questa costante discesa agli inferi, questo muto abbandono, porto sulle spalle la vergogna di non essere stato degno di una compagnia, forse la colpa di avere distrutto quella compagnia.

"Padre, se anche non fossi il mio
padre, se anche fossi un estraneo,
per te stesso ugualmente t'amerei.
Ché mi ricordo di un mattino d'inverno
che la prima viola sull'opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l'appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

[…]

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi un uomo estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
per il tuo cuore fanciullo ti amerei.

(Camillo Sbarbaro, da Pianissimo)

Il muto e meccanico scorrere delle stagioni è trasformato da un cuore fanciullo che ricrea il mondo inanimato e lo rende pianeta familiare, attraversato dalle coordinate dell'affetto, del ricordo e del dono. Qualcuno c'è e c'è per noi, ci salva dall'insignificanza del nulla, rende possibile la vita e la gratitudine.

Prima e accanto alla filosofia, l'esperienza del senso si costruisce nel commercio emotivo dei legami. É dai nostri legami che, come frutti, nascono i nomi di amore, speranza, gioia, morte, disperazione. Etichette di esperienze sensibili che si offrono a noi come zattere per navigare nel mai prevedibile caos dell'esistenza. A volte tutto questo può sembrarci imbarcazione anche troppo fragile, segno del nostro codice di dei decaduti, a volte desidereremmo più potente e dignitosa nave per attraversare il mare della vita.

Il rischio della metafisica, però, è che possa dimenticare l'umano e il suo linguaggio emotivo. Il dolore di Pessoa può non essere solo il volto dell'assoluto quando questi si presenta come imprescindibile assenza, ma anche il timore che una mancanza originaria condanni la vita all'insignificanza, la chiuda ad ogni nuova esperienza e ad ogni amore, consegnandola, prima del finire, ad una dolorosa morte affettiva.

Il rischio filosofico è che questo timore sia sottaciuto e soffocato da un dolore che si erige a sistema.

Una concezione teorica dove il fondamento ultimo, sia pure negativo e disperante, trasforma l'angoscia in un sapere definitivo, conferisce una pacificazione mentre toglie l'incompiutezza della mancanza di significato. Ma una tale pacificazione può spegnere il pensiero in se stesso, privarlo dell'energia che lo spingerebbe a cercare nei rapporti il senso possibile di un diverso esistere; gli altri, infatti, non hanno più niente da offrire, sono già stati spiegati ed interpretati, tutto è conosciuto, tutto è compiuto.

Forse il ricorso ad un sapere sicuro e definitivo nella sua assolutezza, è un modo per sfuggire proprio al costante decentramento, alla miseria del bisogno degli altri, della loro tenerezza e della loro comprensione per fondare la nostra forza di vivere.

Dice ancora Pessoa:

"Com'è lontano! …
(Nemmeno lo ritrovo …)
Il tempo in cui festeggiavano il mio compleanno!
Quel che sono oggi è come l'umidità nel corridoio in fondo alla casa,
Che affiora alle pareti,
Quel che sono oggi è la casa di coloro che mi amarono che trema attraverso le mie lacrime,
Quel che sono oggi è il fatto che abbiano venduto la casa,
É che siano tutti morti,
É che io sopravviva a me stesso come un fiammifero freddo …"

(Fernando Pessoa, Il compleanno)

Forse non è un caso che nel nostro tempo, così profondamente segnato dall'incertezza, dove nulla di consolidato sembra sopravvivere ed è sempre più alta la richiesta al singolo di essere referente a se stesso, si chieda e si ricerchi un sapere definitivo, solido, la parola pacificatrice di un sistema.

La famiglia non dura più tutta la vita, ma è quasi diventata prassi quella di un matrimonio che si scioglie e che è seguito da nuove unioni e nuovi figli. Anche il lavoro è sempre a termine, flessibile, contemporaneo, spesso, ad altre occupazioni. L'impegno civile e sociale è contenitore debole e frammentato: associazioni e partiti nascono e muoiono molto velocemente, finendo per assomigliarsi tutti. Le coordinate politiche sembrano essere internamente corrose dalla primitiva e brutale legge del più forte …

Non è semplice trovare ugualmente un orientamento per il proprio agire e le energie per reggere l'affanno degli infiniti cambiamenti di ruolo.

Non è, forse, un caso, allora, che più urgente si senta l'esigenza di una consulenza filosofica, apparentemente in grado di dirimere la complessità e capace di fondare un'immagine di noi stessi priva di lacerazioni, potente, dipendente solo dal fondamento ultimo di tutte le cose.

Questo potrebbe condannarci, però, a coltivare e proteggere solo di nascosto – la vergogna di un troppo terrestre dipendere - quel senso che ci viene dagli altri, senza i quali ci sentiamo "fiammifero freddo sopravvissuto a se stesso".

È solo a partire da tale senso che possiamo esistere e farci domande, persino quella sul significato del nostro essere, contaminato inevitabilmente da un misterioso e non atteso finire.

Se è necessario, dunque, che la psicoterapia non appiattisca nell'area della patologia un aspetto dell'inquietudine che appartiene allo statuto dell'uomo, è altrettanto importante che la filosofia non si proponga come sapere esaustivo che finisce per sostituire, nella sua omnicomprensività, anche l'ambito psicoterapeutico.

In questo modo, sarebbe il mondo stesso delle emozioni e del significato racchiuso nel loro accadere, a venire reso marginale sino all'annullamento, rispetto al codice conoscitivo della dimensione filosofica.

Da questo punto di vista, il sorgere dei centri di consulenza filosofica potrebbe essere letto come segno di un'estrema fragilità della società in cui viviamo, priva delle risorse per affrontare il disagio testimoniato e rimandato dalla concretezza emotiva, per questo affannata nella ricerca di una conoscenza in grado di conoscere e controllare tutto.

La cattura del tiranno

La notizia
Il trofeo! La barba lunga e arruffata, lo sguardo spento, una valigetta piena di dollari e armi che non ha usato. Saddam Hussein è stato catturato da 600 soldati americani. Era nascosto in una tana scavata vicino a Tikrit, è stato tradito da una soffiata. Tra gli iracheni entusiasmo e attentati, due solo ieri. Esulta Bush con tutti gli alleati: «Un'era oscura è finita». Ora l'ex rais sarà processato. Da chi e dove, non si sa.

Il Manifesto, 15 dicembre 2003

Il commento
In queste ore c’è poco spazio per l’immaginazione: le colonne dei quotidiani e tutte le fonti d’informazione sono popolate, assiepate, saturate dal volto del Rais.

Non ce lo aspettavamo più, forse davamo per scontata una latitanza infinita come quella di Bin Laden o quelle più italiane, cui ci hanno abituato i nostri capi mafia. Quasi equilibrio acquisito, era parte ormai della nostra geografia quotidiana il pensiero che, da qualche parte, in una dacia russa o addirittura nel cuore dell’America, ci fosse lui, la personificazione del male del nostro tempo.

Invece messaggi e immagini rimandano le scene della cattura e un volto inconsueto di dittatore: barba lunga, tratti scavati, ferite, occhi timidi come quelli di un bambino. E poi le immagini del rifugio, spazio angusto e ripugnante per quanto racconta di povertà, paura e solitudine. Scappato con una valigetta di dollari, come il più comune ed oscuro dei malfattori.

Un articolista scrive: “Così l’America – e noi con essa – passerà un tranquillo Natale. Soddisfazione e sollievo, infatti, esprimono i commenti unanimi di tutti i Capi di Stato europei; il presidente degli Stati Uniti, che gioca affettuosamente con il suo cane in un delicato paesaggio innevato, non cela il suo compiacimento.

Eppure le immagini viste non corrispondono ai pensieri che abbiamo coltivato e conservato per molti anni. Sembra impossibile, ma evidentemente i nostri ideali, anche quelli negativi, ci sfuggono sempre di mano. A contatto con la realtà, si trasformano e si degradano inesorabilmente; la realtà svilisce tutto, rende opaco ogni argento, sommesse tutte le luci.

Non è il Rais che volevamo catturare, “non si cattura così un capo dell’Islam”, commentano a Bagdad le persone intervistate e non è certo per stima o gratitudine che gli iracheni vogliono continuare a pensare Saddam libero. L’uomo vinto e ferito esposto agli sguardi del mondo, è inaccettabile anche per noi, distrugge un protettivo sogno di potenza e di invincibilità.

Se c’è solo un uomo dall’altra parte del mondo, il male si fa più diffuso e vicino. Se non c’è più un tiranno sanguinario e violento, la nostra avidità altrettanto violenta diventa più visibile, ora che i messaggi sconcertanti della cattura non la contrastano più a sufficienza.

I preziosi arredi dei palazzi di Saddam sono stati fatti a pezzi, come a Versailles, dalla furia del popolo. I nostri oggetti di valore, invece, i nostri “lustrini”, sono collocati in ordine nelle vetrine, fotografati nella giusta luce di ammirazione, simbolo di un potere assoluto sul tempo e sulla contaminazione. Sono i nostri beni di culto, scaldati al fuoco del nostro desiderio di immortalità e dal petrolio iracheno.

Abbiamo ragioni per essere violenti. E’ una questione di sopravvivenza, continuare ad alimentare un sogno di perfezione nel quale solo possiamo riconoscerci, unico antidoto da opporre all’anonimato di una vita seriale, abbandonata e corruttibile.

Questo potrebbe essere il nostro più autentico terrore e il nostro più profondo bisogno: non sapere nulla, allontanare i segni della caducità che ci condanna ad un tempo senza sbocco, la temporalità dell’inferno. Che ci confina nella perdita di ogni fiducia e ci consegna ad una follia del reale dove niente ha più senso, dove sperimentiamo la nostra stessa morte emotiva.

Anche perché morte e precarietà risuonano come i segni di un tragico fallimento: non siamo per sempre desiderabili agli occhi degli altri, non sappiamo tutto il sapere, non abbiamo neanche il tempo per ottenere il nostro riscatto. Questo certamente è tragico perché, sotto il peso della frustrazione, i fallimenti interni, nascosti e dimenticati in pensieri di seconda fila, possono tornare violentemente alla ribalta per inchiodarci, con furia inaudita, ad una condanna implacabile.

Una condanna che ci consegna ad una intollerabile, disperata e spaventosa identità negativa di noi stessi.

Osserva Meltzer “La tirannia è piuttosto una perversione sociale per difendersi dalle ansie depressive e per attuare un commercio di oggetti interni apparentemente mutilati e senza speranza”. Il tiranno, con un’azione potente perché violenta, annienta i pensieri di rovina, li copre e li vince con maestosi sogni di gloria. Per fortuna da qualche parte c’è chi non si fa prendere dall’incertezza e dalla paura, qualcuno che non è come noi, eternamente insicuri, fragili, incompiuti.

“La persona malvagia cerca qualcuno che sia in stato di necessità e gli si presenta in vesti benevole. Pur essendo esitante nell’accettare il contratto, è comunque convinto di potere trarre beneficio dallo scambio”.

Così ci dice Bollas parlando del modo in cui i serial killer convincono le loro vittime a seguirli. Ora che dall’altra parte del mondo c’è un uomo sconfitto e prostrato, più evidenti ci risultano i segni delle altre tirannie cui diamo il nostro consenso e che governano quotidianamente la nostra vita. Il lusso patinato delle riviste, le mille bibbie del nostro tempo, sembra poter essere difeso solo dall’idea di un occidente lungimirante e benevolo che rafforza i confini del paradiso terrestre per non essere invaso e degradato dalla barbarie del bisogno di chi non ha niente.

Nemmeno del nostro bisogno può tenere conto, anch’esso barbaro e spaventoso nella sua voracità e nella sua rabbia.

Il paradosso per noi, allora, è che tutte le nostre capacità costruttive – la pazienza, l’abnegazione, la possibilità di conservare la speranza – consegnano il frutto del loro lavoro al il mantenimento di un sistema violento prima di tutto conto noi stessi.. I sacrifici e la sopportazione delle reali difficoltà sono quasi passati sotto silenzio, affinché l’unico aspetto visibile sia quello di un successo brillante, semplice da ottenere, imperituro. Ma questo, dicevamo, potrebbe essere il nostro desiderio più profondo, la base del nostro patto con il diavolo.

La nostalgia del grande inquisitore

La notizia
Il professor Giorgio Agamben è venuto a conoscenza, attraverso la lettura dei giornali, di come i cittadini stranieri che si recano negli Stati Uniti con un visto, debbano essere schedati e lasciare le loro impronte digitali all'ingresso nel paese. Per protesta contro tale procedura, ha annullato il ciclo di lezioni che doveva tenere il prossimo marzo presso la New York University. Il professore, docente di estetica all'Università di Verona e di Macerata, insegna filosofia al College International de Fhilosophie di Parigi e da anni collabora con l'Ateneo americano. É, quindi, con un malcelato rammarico che si è visto costretto ad annullare l'impegno preso.

La Repubblica, 8 gennaio 2004

Il commento
L'accorato appello del professor Giogo Agamben sembra un po' fuori campo rispetto alle notizie che i quotidiani ospitano in questi faticosi giorni di inizio anno. Sopraggiunti dall'inesorabile scorrere del tempo ed impegnati in un nuovo bilancio esistenziale, riusciamo a farci colpire più facilmente da notizie che speravamo, forse, di non ritrovare più: si muore sempre di guerra, si muore ancora di immigrazione, miliardi e miliardi – quell'opulenza straripante da cui ci sentiamo sempre più separati – spariscono in posti poco rassicuranti che suonano "isole Caiman".

A noi, alla nostra realtà, restano le proteste per salari che non danno da vivere, ironia, proprio nell'era del consumismo, dove la pubblicità ci ringrazia per gli acquisti che dovremmo fare. Non a caso, forse, la notizia battuta all'unisono da tutti i mezzi d'informazione, con dovizia di dettagli, raccomandazioni, mappe dei negozi aperti anche la domenica, è quella dei saldi invernali. Mai come quest'anno l'evento ha avuto una risonanza così ampia, forse per la prima volta assurta a titolo di testa, ultima consolazione sociale, il nostro residuo angolo caraibico di paradiso terrestre.

Tutto questo poco sembra collegabile con le preoccupazioni di Agamben che ci parla di una lontana America, ora più che mai impegnata a gestire sospetto e timore nei confronti di uno straniero potenzialmente distruttore.

Ma in realtà il professore, nella sua denuncia, parla ancora dello stesso mondo in cui siamo, di qualcosa che, accadendo in sordina, senza parere, finisce per cambiare la natura stessa del contratto sociale. Osserva Agamben:

"Ormai da anni, in modo prima occasionale e subliminale e poi sempre più esplicito e insistente, si cerca di persuadere i cittadini ad accettare come normali dispositivi e pratiche di controllo (la schedatura elettronica delle impronte digitali e della retina, il tatuaggio sottocutaneo, ecc.) che sono stati sempre considerati eccezionali ed inumani. [...] Le ragioni di sicurezza che vengono adottate per giustificarle non devono trarre in inganno. L'esperienza insegna che le pratiche inizialmente riservate agli stranieri, vengono poi estese a tutti".

Con sorpresa, ci troviamo a considerare l'italianissima innovazione burocratica relativa alla produzione dei documenti d'identità. Le nuove "carte", in tutto simili a quelle di credito, più moderne ed accattivanti, prevedono la presenza delle nostre impronte digitali condensate in un grazioso ologramma insieme agli altri dati personali. L'eleganza occulta il segno indelebile del nostro corpo consegnato, con indifferenza, agli schedari informatizzati. Quel segno è anche l'unico elemento che interessa: ad un rinnovo di documento, per esempio, vengono semplicemente acquisite le informazioni precedenti, al di fuori dell'esatto indirizzo di residenza. Tutto il resto sembra intercambiabile, persino il nome pare diventare obsoleto accessorio.

Allo stato, cioè a noi, non importa più sapere chi siamo, la nostra professione, i segni della nostra identità fisica osservabile. Interessano le nostre impronte digitali. Per lo Stato, ossia per noi, ogni cittadino è tristemente pensato solo in quanto può non rispettare le regole che vigono nella società; questa non collaborazione diventa dato di fatto, assunto di base, criterio definitorio, rispetto al quale cautelarsi opportunamente.

Per lo Stato siamo tutti stranieri, tutti terroristi in attesa del prossimo attentato.

Non solo questo processo, come dice Agamben, "non riguarda più la partecipazione libera e attiva alla dimensione pubblica", ma si pone in direzione diametralmente opposta. Non siamo più piccola porzione della società nella misura in cui ne condividiamo gli scopi e collaboriamo alla sua salvaguardia; siamo strutturalmente nemici da trovare ed incriminare, all'occorrenza, nel più breve tempo possibile.

Il bene della società, per contro, è conosciuto, incarnato e difeso solo da coloro che esercitano il controllo, protettori di giustizia e verità contro la barbarie, quella barbarie che noi rappresentiamo. Per lo Stato siamo solo dei bugiardi, persone che formalmente si dicono cittadini, ma disposti, di fatto, solo alla contravvenzione della legge, alla cura del proprio immediato interesse, all'estorsione, all'omicidio.

A nessuno viene in mente – ridicolo tentativo per la salvezza delle apparenze – di chiedere una collaborazione ed una libera scelta dal momento che queste sarebbero solo menzogna. Per non perdere tempo, per proteggersi da delusioni, per fare prima, si chiedono le impronte digitali. Con il nostro pensiero e con i nostri desideri non si vuole più avere niente a che fare. Osserva ancora Agamben:

"Il paradigma politico dell'occidente non è più la città, ma il campo di concentramento, non Atene, ma Aushwitz. [...] È probabile che il tatuaggio ad Aushwitz apparisse come il metodo più normale ed economico di regolare l'iscrizione dei deportati nel campo. Il tatuaggio biopolitico che oggi ci impongono per entrare negli stati Uniti è la staffetta di quello che domani potrebbero farci accettare come l'iscrizione normale dell'identità del buon cittadino nei meccanismi e negli ingranaggi dello Stato."

In effetti, per i tedeschi di Aushwitz, gli ebrei e tutti i deportati avevano cessato di essere delle persone, non potevano venire considerati come interlocutori e nessun interesse rivestivano le loro attività, pensieri, doti, meno che mai legami affettivi. Erano creature inferiori, da sempre invidiosamente e avidamente contro il bene comune; erano volti di una sola menzogna e il tatuaggio diventava la loro unica forma di identità possibile. Si classificavano le infinite forme di un unico essere. Perché perdere tempo con l'inesistenza?

I deportati di tutta Europa, gli ebrei di allora come noi oggi, erano un'unica bugia dell'umano.

Secondo Bion, colui che mente è qualcuno che conosce la verità, ma la occulta intenzionalmente e ad essa oppone una proposizione falsa per difendersi dalla verità che appare inaffrontabile, troppo cruda e dirompente, tale da distruggere l'equilibrio mentale.

Potremmo pensare che lo Stato partecipa a questa difesa, ci protegge, come fragili bambini, dall'impatto con le cose vere e si incarica, per noi, di gestire questo peso. Si aumentano solo le misure di sicurezza per lasciarci ai nostri giochi.

Ma se lo Stato siamo noi, varrebbe la pena di chiedersi coma mai ci riteniamo così fragili da attuare, nei nostri confronti, procedure da campo di concentramento. Come mai la disistima e la sfiducia per noi stessi sono cosi massicce ed inappellabili.

Forse quelle immagini di miseria e di spavento del cosiddetto sud del mondo, bambini senza casa, macerie, occhi troppo grandi per la fame e la paura, perseguitano segretamente, martellanti, le nostre coscienze, al punto da indurci a volere scontare una pena liberatoria in patria, lasciando che la nostra casa si trasformi in cella di rigore, nella nuda essenzialità dell'orrore del lager.

Forse ci condanniamo persino per lo scorrere del tempo, cui non sappiamo opporre nessuna certezza emotiva. É il vuoto interiore di un comprare e consumare, unico elemento in cui si sostanzia la nostra attuale identità seriale di cittadini. Un vuoto che ci travolge, che diventa il timore di essere niente e di non poter mai essere niente e siamo pronti a svendere ogni speranza ed ogni amore.

Alla fine, ne possiamo anche essere lieti. Ci condanniamo a rimanere vivi il meno possibile per non portare il peso della nostra umanità e ci consegniamo, come criminali, ad un sistema che deve controllare, per noi, l'irrompere della verità.

Meglio criminali che uomini, meglio malfattori che liberi cittadini cui non resta che partecipare, costruire il sogno di un bene comune, soffrire e morire. Anche i criminali muoiono, ma forse non lo sanno di preciso, visto che il loro pensiero è catalizzato dal desiderio di inganno e di rapina. Quasi un risarcimento in anticipo su ogni delusione e su ogni finire.

Il tragico di tutto questo è che tali drammi interni a volte, come nel nostro caso, non si limitano a rappresentare un momento del nostro stato emotivo da bonificare nella sua distruttività, ma vengono direttamente rappresentati, incarnati nel reale, come se lo spazio della coscienza non fosse stato sufficientemente grande da contenerli.

Con il problema, poi, che la realtà, per noi e per gli altri, diventa effettivamente nientificante e procede ad un ulteriore impoverimento delle nostre vite.

La cultura della sfiducia

La notizia
TG e GR: la fabbrica di notizie che non disturba mai il governo. Sebastiano Messina illustra il modo in cui è confezionato il nuovo telegiornale di RAI 1 che prevede la sparizione del contraddittorio, la selezione e l'edulcorazione delle notizie [...] Due marescialli erano le talpe della mafia. Attilio Bolzoni cerca di tratteggiare il volto di cosa nostra e della nuova generazione che la dirige: manager, ingegneri, medici, uomini politici e superpoliziotti non più propensi alla brutalità dell'omicidio e della violenza diretta, quanto impegnati a controllare tutto dall'interno del sistema [...] Umberto Galimberti commenta l'opera Una questione di fiducia di Onora O'Neill, docente all'Università di Cambridge, che ha tenuto, dietro invito della Bbc, una serie di conferenze su questo argomento.

La Repubblica, 6 novembre 2003

Il commento
Sembrerebbe una giornata ricca di notizie quella del sei novembre. Per noi, un ritmo incalzante di rinnovate insicurezze anche a partire dal titolo di testa, dedicato a Castelli, vittima dei regolamenti di conti che sempre più furiosi fanno crescere la temperatura nella sua stessa coalizione. Uno spettacolo noto, tutto sommato, quello di una collaborazione impossibile, subito sopraffatta dalla rivalità, dalla lotta affamata per il potere assoluto.

Non ci stupiamo molto, anzi: rimaniamo rafforzati nell'idea di una realtà politica inevitabilmente destinata all'accecamento, estranea, indifferente ed impotente rispetto agli affanni concreti della nostra esistenza. Anche se i messaggi, gli slogan, le comunicazioni alla nazione a reti unificate, parlano di preoccupazione e di responsabilità, di consapevolezza e dedizione verso la custodia di un equilibrio e di un bene comune.

Ci sembra parte del gioco – così funzionano le cose – se le notizie di palazzo e degli organi di informazione non corrispondono a quelle che ogni giorno leggiamo in un sacco a pelo in più nell'atrio della stazione, nelle code chilometriche fuori della Questura o sui cartellini dei prezzi, tra neve di polistirolo, delle nostre scintillanti vetrine.

Sono immagini che mancano nelle statistiche, nelle dichiarazioni programmatiche, nei patti di solidarietà. Restano una quantità negativa, di sconcerto e di orrore, che sembra destinata ad una impossibile metabolizzazione sociale, abbandonata alla solitudine di ore ferite, lontane dai fasti di una specchiata ed opulenta ufficialità compiaciuta di se stessa. Non ci stupiamo: una gelida indifferenza da uomini vissuti, come coltre di piombo, annulla ogni emozione.

Quale novità, dopo tutto? Non ci si può fidare, lo sapevamo. Come farlo, quando gli stessi tutori dell'ordine appartengono al potere occulto di cosa nostra, perfetta icona dell'inversione dei ruoli e dei significati cui sembriamo consegnati, ceduti per sempre.

Nessuno dice la verità. Anche se chi mente sono proprio le persone da cui dipendiamo: i politici che governano il nostro paese; gli industriali che producono i cibi, i vestiti, le macchine di cui non possiamo fare a meno; gli insegnanti che presiedono alla nostra formazione culturale e sociale; i costruttori delle nostre case, i medici e i farmaci per le nostre malattie. É una dipendenza sicura dell'inganno. Proviamo, certo, a tutelarci: le regole di produzione diventano sempre più capillari e precise; ai servizi chiediamo trasparenza, pretendiamo di poter controllare la natura delle procedure in ogni momento del loro processo di attuazione. Una creazione infinita di certificati e di dichiarazioni, diventa il nostro referente diretto, in cui dovremmo trovare quelle certezze e quella sicurezza che ormai ci mancano.

Paradossalmente, il rimedio sembra peggiore del male. "È sempre più difficile distinguere il messaggio dal rumore" dice Galimberti. Tutti parlano semplicemente di più, ma nulla ci assicura che la quantità corrisponda alla verità, mentre è proprio la verità che stiamo cercando.

Del resto, saremmo, forse, decisamente stupiti e un po' a disagio, nello scoprire in noi una disponibilità fiduciosa, ci sentiremmo ancora confinati in una dolorosa adolescenza aperta, senza protezione, al calore bruciante degli ideali. Noi, più avveduti, più colti, più raffinati e smaliziati, non ci facciamo certo cogliere nell'infantile flagranza di illusione. Lasciamo ad altri il peso tragico dell'impegno sociale, anche se poi la delega ci rimbalza addosso le immagini cruente delle manifestazioni, i volti morti di ragazzi che, al nostro posto, si sono abbandonati ai nostri sogni.

Dal nostro universo chiuso, dalle nostre ben congegnate ed informatizzate torri d'avorio, nulla più sembra poterci sorprendere. Come nei telegiornali patinati dell'era berlusconiana, dove viene tolto il sonoro quando qualcosa non deve essere sentito e tutto è edulcorato secondo la grammatica della famiglia felice, anche noi attutiamo il rumore aspro della contraddizione. Nulla più ci obbliga a metterci in relazione. Se nessuno ci aiuta, se tutto è solo astuta messa in scena, siamo per sempre esentati da una comunicazione-farsa, confinati e congelati in rapporti vuoti, schiacciati dalla denigrazione.

Ma forse desideriamo che sia così. Diversamente, dovremmo uscire allo scoperto, rinunciare ad avere una ragione ormai garantita dalla demagogia che opera indisturbata nei nostri pensieri. Dovremmo affrontare, ancora una volta, la fatica delle mille sfumature – angoscia infinita del bene che si confonde con il male: l'unica forma in cui sembra declinarsi l'essere sensibile.

Un mondo sfiduciato, così, sta anche al posto, nasconde e rappresenta, l'immagine di una interiorità solitaria e diffidente. Anche dentro di noi, di fatto, l'altro è apparenza ingannevole, solo superficialmente accettato, ma in realtà screditato quale interlocutore reale.

Non siamo, poi, così tanto diversi da quell'adolescente da cui volevamo, ad ogni costo, prendere le distanze. Come lui, non rinunciamo a pensare ad un mondo perfetto, come lui ancora non abbiamo imparato, né intendiamo farlo – non vogliamo sporcarci le mani – con il peso dell'accettazione della mancanza, dell'incompiutezza. Il nostro equilibrio interiore, la casa-anima dove abitiamo, ci sembra pacificata e da essa cerchiamo di muoverci verso il mondo senza essere sopraffatti dall'angoscia. Ma la tranquillità degli spazi e delle ore scandite dal ritmo di significati familiari, è irrimediabilmente fragile.

Esibiamo la stabilità raggiunta, ma ben separata dall'identità dominante, che mima e non percorre il dolore dell'integrazione, ancora vive il sogno di un mondo perfetto, senza sofferenza, contraddizioni, limiti, separazioni.

Ben separata dall'identità dominante, sorretta dall'irrisione della sfiducia, ne manteniamo un'altra che non conosce la capacità di accettare e compatire, ma è violenta nei modi, perentoria, primordiale.

Neanche di noi stessi, ovviamente, ci fidiamo, forse anche in noi disperdiamo e disperiamo la verità in una geometria infinita di certificazioni, mentre vorremmo solo sapere per sempre che il nostro male e la nostra rabbia sono entrati nel campo della comunicazione degli affetti.

Ma non ne siamo certi, temiamo che sia impossibile imparare a sopportare il peso della delusione e poi, forse, non vogliamo nemmeno disfarci di quelle potenti armi, così lucide e impeccabili, perfette e mortali, fabbricate al fuoco rovente e smagliante dell'amarezza.

È questo che ci rende, come dice Galimberti, "singolarità precarie che non sanno più muoversi nel mondo se non all'interno di una cultura del sospetto. Sembra il punto in cui le nostre società sono più vulnerabili, più di quanto vulnerabili non le renda il terrorismo".