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La psicoterapia a confronto

La notizia
All'interno di un'inconsueta indagine condotta da Altroconsumo, ad un campione di 14 mila europei – di cui 2.550 italiani – in terapia da almeno sei mesi o che l'abbiano terminata da non più di due anni, è stata chiesta una valutazione dei risultati ottenuti. Un confronto tra scuole e figure professionali per capire a chi è meglio rivolgersi per guarire le ferite dell'anima.

Donna, settimanale di Repubblica, 2 agosto 2003

Il commento
La notizia è un po' particolare perché certamente non di attualità, visto che risale alla calda estate appena trascorsa. La tematica, però, riesce a catturare: la psicoterapia serve? Altroconsumo ha cercato di conoscere la valutazione di chi ha fatto questa scelta, forse oggi non particolarmente popolare. L'indagine un po' sorprende per la positività non attesa delle risposte. Ecco i risultati: psichiatri e psicologi realizzano il pareggio quando si tratta di rispondere alla domanda: il problema che vi ha portato a cercare un aiuto, è migliorato? Il 75% dei pazienti degli psichiatri e il 74% di quelli degli psicologi rispondono affermativamente. Una successiva domanda, però – le vostre relazioni con gli altri sono migliorate?- pone già delle differenze: è si per il 63% di coloro che si sono rivolti ad uno psicologo e sempre si per il 49% di quelli che sono andati dallo psichiatra.

Il fatidico quesito: vi godete di più la vita grazie alla terapia, ha una risposta affermativa per il 67% di coloro che sono andati dallo psicologo e per il 44% di quelli che si sono rivolti allo psichiatra. Ancora: conoscete meglio voi stessi? trova parere positivo per il 76% dei pazienti degli psicologi e per il 67% dei pazienti degli psichiatri. Infine, un'aumentata fiducia in se stessi è fatto che accade al 73% del partito degli psicologi e al 58% del partito degli psichiatri.

Per essere precisi, sotto la voce psicologi sono comprese differenti scuole e modalità di intervento. Dal momento che, come ricorda Massimo Ammaniti, la cui intervista è riportata all'interno dell'articolo, le scuole di psicoterapia sono molteplici e, accanto all'approccio psicoanalitico, se ne pongono molti altri, da quello cognitivo-comportamentale a quello sistemico-familiare, dagli interventi di tipo psicosociale alla gestalt, il sondaggio di Altroconsumo ha tentato di tenere conto della pluralità, scegliendo tre indirizzi rappresentativi per tutti: quello psicodinamico, quello cognitivo-comportamentale e quello dei gruppi di autoaiuto.

Gli esiti del sondaggio, dicevamo, sorprendono, li sentiamo in contrasto con lo spirito dei tempi che elegge velocità ed immediatezza a valori per sé fondamentali. Uno spazio dedicato all'introspezione, alla ricerca dei personali significati interiori, spesso viene sentito come tempo sprecato e, proprio per questo, inutile ed inefficace. Così, non ci aspetteremmo che una psicoterapia venga valutata in modo positivo e, ancor meno, che l'intervento dello psicologo risulti più soddisfacente di quello dello psichiatra. Non solo: a guardare i dati nel loro dettaglio, emerge che l'intervento cognitivo-comportamentale raccoglie meno favori di quello psicodinamico. Anche questo è fatto decisamente inatteso; dal momento che il cognitivismo interviene localmente solo sul sintomo, volutamente disinteressandosi della retrostante strutturazione di personalità, ci saremmo attesi il maggiore consenso proprio per questo metodo.

La preoccupazione della società in cui viviamo sembra, infatti, decisamente orientata all'eliminazione di ogni imperfezione, quindi del sintomo, inatteso e fastidioso neo che altera e ferisce il senso della propria efficienza ed integrità.

Che cosa ho mai fatto per meritarmi tutto questo! Un destino cieco, incomprensibile nella sua ostilità, ha aperto piaghe dolorose ed impresentabili. Sapevo bene quello che volevo diventare ed invece, contro la mia volontà, l'esistere si è fatto sentiero interrotto che non conosce più destinazione possibile. A dire la verità, tutto è iniziato in modo impalpabile, come cosa di poco conto, un contrattempo a cui dedicare l'attenzione di qualche rimedio occasionale, ai margini della coscienza. Però la faccenda non si è fatta dimenticare; con sorpresa, anche dopo tempo, si è ripresentata immutata con la pretesa insopportabile, quella dell'ultimo parvenu, di avere aria di famiglia. Ogni volta appesantita da una quantità muta di incomprensibile consistenza. E poi la violenza dell'invasione, la vita risucchiata nel suo futuro. Nulla sembra più importante, ormai, di quel problemuccio, niente è sopravvissuto.

Se solo questo non ci fosse, se solo scomparisse quell'ansia sudaticcia sulle mani, se potessi consegnare la tesi, se lui finalmente cambiasse, se avessi più amici, se la smettessi di arrossire nei momenti meno indicati, quando tutti mi guardano...

Il desiderio è quello di liberarsi di una quantità negativa che avvelena l'esistere, poterlo fare subito, preferibilmente senza essere presente. Paradossalmente, se la terapia prevedesse l'uso di strumenti chirurgici, i dubbi e le perplessità nei suoi confronti potrebbero essere minori. L'anestesia, l'intervento ed ecco eliminata la causa del malfunzionamento e del dolore, ecco eliminato l'agente estraneo portatore di disordine, rispetto a cui terapeuta e paziente sono alleati in vista di una di una distruzione radicale. Una logica bellica volta allo sterminio. La parte malata, dolorosa e pericolosa imperfezione del creato, è poi buttata via; sia il terapeuta chwe il paziente, nulla ne vogliono sapere.

Se l'intervento psicochirurgico è una fantasia, certo il farmaco può essere sentito come il rimedio più idoneo ed efficace. Si "aggredisce" il sintomo e, dall'esterno, si cerca di restituire all'organismo quello che gli occorre per funzionare bene. Tutti sono animati da buone intenzioni, attenti, generosi; è solo il sintomo che si assume il male di tutto, sorta di catalizzatore di qualsiasi anormalità.

Se solo questo non ci fosse!

Pensandoci, nonostante il tempo, anni e millenni, il nostro stupore è ancora quello di Fedone che ascolta Socrate formulare le sue ipotesi: "Stando così le cose, dobbiamo allora ammettere due ordini di esseri:, quelli che si vedono e quelli che non si vedono". Il nostro pensiero di atomi e molecole cartesiane, ammette verbalmente, ma di fatto, non riesce ad immaginare ed accettare quell'essere che non si vede. Non è questo o quel singolo elemento, è la vita stessa ad essere rifiutata. Sono le emozioni a non esserci, epifenomeno marginale di un funzionamento organico che procede secondo leggi descritte dalla biologia, dalla fisica, dalla precisione scientifica. I nostri sentimenti ci sembrano un effetto assolutamente accidentale e non significano nulla per noi se non il perdurare di una debolezza, vergognosa fragilità infantile.

In effetti, è un peso insostenibile la coscienza di noi stessi: quel rossore ricorda che temiamo e desideriamo, che tutto non è sotto controllo, che la nostra vita può essere cambiata da eventi insignificanti e di poco conto come uno sguardo, una carezza, una telefonata mancata. E noi, signori della guerra, conquistatori della Luna, non abbiamo potere, anche una parola può farci piangere. Siamo fragili, dipendenti dai nostri sentimenti e dagli altri che questi sentimenti suscitano in noi.

E' forse questo ciò che non può essere pensato, l'orrore di una minorità balbettante ed impacciata fatta di limiti, di mancanze, di dipendenza. Un controsenso rispetto all'uomo che vorremmo essere, che tutti gli altri ci sembrano essere, soggetto che crea il mondo nel momento stesso in cui lo pensa.

E' pena infinita aprire una breccia in questa corazza scintillante, ricordare le nostre vere ragioni sotto le costruzioni sofisticate di una regale e perfetta autonomia. Dalla breccia, i significati escono e si moltiplicano, sappiamo che non solo oggi, ma da sempre è stato così, il passato ci assale nella tridimensionalità della gioia, della speranza, delle rabbie, dei dolori.

Per questo ci stupiscono i risultati positivi dell'indagine di Altroconsumo, anche se non possiamo che concordare pienamente con essi. Nel prevalere della logica della scissione, il sintomo può certo essere isolato e forse anche eliminato, ma l'operazione è precaria, visto che non si conoscono le ragioni che lo hanno prodotto. Se il sintomo è un messaggio che quel mondo che non si vede, la nostra anima, ci manda, vuol forse dirci, prima di tutto, che il nostro sistema non funziona più, che ciò che cerchiamo di ignorare e non conoscere e ora dolorosamente presente e chiede di venire ascoltato ed integrato.

Questo, poi, è possibile solo all'interno di una relazione, visto che tutti i nostri sentimenti, la vita mentale stessa, sono nati in tale imprevisto e fragile spazio.

Il perduto mondo delle emozioni, quasi fattosi materia inerte, può ancora venire a parola nella zona delicata di un incontro e di un legame, può ancora essere conosciuto e riconosciuto come il proprio vero volto.

Ma è davvero un'operazione controcorrente rispetto alla logica dell'onnipotenza che così profondamente permea il nostro tempo e la nostra cultura. E probabilmente non solo la nostra; da sempre, forse, l'uomo tenta di sfuggire in mille modi, ritardare per lo meno il più possibile, l'angoscia dell'incontro con una coscienza che parla di un consistere insicuro, poco codificabile e poco dominabile, imperfetto, quasi rarefatto e sempre, purtroppo, limitato e caduco.

Curarsi, in fondo, significa soprattutto questo, dimettere gli orpelli artificiali della volontà di potenza per lasciare spazio alla personale fragilità, anche perché solo a partire da quella possiamo amare ed essere amati.

C'era una volta

La notizia
Nell'articolo "Le gatte con gli stivali" Giacomo Leso riferisce dell'ultima fatica letteraria di Christine Angot e Catherine Millet, note scrittrici francesi contemporanee . Invitate dall'editore Stock in occasione del trecentesimo anniversario della morte di Perrault, le scrittrici reinterpretano ognuna una fiaba (rispettivamente in due diversi libricini), raccontando, con una sorta di autofinzione, la loro vita. "Pelle d'asino" e "Riccardino dal ciuffo" diventano spunto per parlare di incesto e nevrosi.
L'espresso, 31 luglio 2003

Il commento
Fin dal titolo l'articolo, peraltro inserito nella sezione "Cultura", evoca immagini di seduzione femminile (le gatte) supportate da elementi più mascolini (gli stivali), e proseguendo la lettura invia, oltre che al contenuto di un paio di fiabe di Perrault, alla biografia intima e "stuzzicante" delle autrici.

In questo caso delle protagoniste della riscrittura fiabesca si sa tutto o quasi. Christine Angot, "Pelle d'asino-bella addormentata" svegliata da un bacio incestuoso, è conosciuta in Francia per avere scritto sul tema dell'incesto; Catherine Millet, che già ha pubblicato raccontando della propria vita sessuale, si cala ora nei panni di bella principessa che incontra il brutto di turno e ripropone una vicenda analoga a quella della Bella e la Bestia.

Del resto Perrault - sulla cui produzione esiste una considerevole letteratura - pur attingendo alla favolistica popolare, dato che le sue fiabe erano destinate anche alla corte di Versailles, intervenne con abbellimenti e simulazioni: "Nei fervorini e nelle morali aggiunte alle storie, Perrault parla come se stesse strizzando l'occhio agli adulti al di sopra delle teste dei bambini". Così si esprime Bettelheim (da Il mondo incantato, 1977, p.163), che sottolinea altresì come Perrault, nel tentativo di portare un messaggio morale, impoverisca le vicende raccontate lasciando poco spazio all'immaginazione dell'ascoltatore e alla possibilità di trasferirvi i propri contenuti personali.

Anche le due autrici probabilmente strizzano l'occhio al loro pubblico, parzialmente in linea con l'Illustre di cui si fanno interpreti. Mostrano però l'altra faccia del discorso moralistico, sollevando la cortina polverosa del "non si fa" e "non si dice".

Ci si può interrogare sulla fiaba nel mondo di oggi e non si può fare a meno di concordare con Bettelheim sulla preferenza ad esempio per la versione integrale delle fiabe raccolte dai fratelli Grimm, che riescono a parlare non solo ai bambini, ma anche agli adulti che sappiano porgere orecchio.

Le fiabe dei Grimm, come alcune delle "Mille e una notte", o molte altre della tradizione dei vari popoli, ci trasportano in un tempo e in un luogo lontani, dove possiamo permetterci, al pari di ciò che avviene nello scenario onirico, di lasciarci andare senza che nulla ci venga chiesto. Possiamo allearci con le nostre parti più obsolete e perdenti, quelle che solitamente non hanno voce nella vita di tutti i giorni, e seguirle nei loro percorsi di riscatto e di sicura riuscita, cogliendo le tracce di possibili evoluzioni alternative al presente.

Per i primitivi raccontare e ascoltare fiabe era vitale; l'uomo contemporaneo, inflazionato di contenuti razionali, potrebbe forse trovare proprio nella dimensione fiabesca alcune esperienze di vita che non ha modo di esperire. Ma i modelli fiabeschi - come quello che riguarda l'essenza del principio femminile - possono aiutarci a fare luce ad esempio sulla femminilità, solo se sono così astratti e vaghi da portarci su un piano simbolico e non concreto: "In tal modo queste storie parlano alla nostra anima e c'illuminano senza erigere schemi di comportamento e allo stesso tempo senza defraudarci della responsabilità tutta nostra di trovare la via interiore a noi stessi" (M.L.von Franz, Il femminile nella fiaba, 1983, p.205).

Pur nel contesto di una polemica diretta all'approccio superficiale di taluni psicologi che si accostano al testo letterario per trovare conferma a teorie psicologiche prestabilite, anche Yehosha sottolinea la necessità del fragile equilibrio fra l'unicità di un personaggio letterario e la sua genericità, necessari al processo di identificazione del lettore (Yehoshua, "Sul lettino non c'è poesia", in La Stampa - tuttolibri, 19 luglio 2003).

In conclusione ci piace osservare che "le gatte con gli stivali" si possono certamente confrontare con principi, Riccardini, belle e brutte addormentate, ma possono riscrivere solo se stesse.

Una pistola per dormire

La notizia
Un portuale di 47 anni, per poter riposare in pace con la famiglia, infastidito dal vociare fuori orario di una compagnia di ragazzi, è sceso in strada impugnando una 357 Magnum, (quella dell’Ispettore Callaghan…), ha puntato la canna della pistola alla testa di almeno quattro giovanissimi, due dei quali di 16 anni, per ottenere, e lo ha ottenuto, il silenzio (oltre che la denuncia per porto abusivo di arma da fuoco e per minacce).
La Repubblica, 15 luglio 2003

Gisella Troglia Il commento
Viene voglia di pensare al gran caldo, che in questi giorni ci stanca e ci innervosisce, e in contemporanea ai film, troppo visti e troppo uguali, con l’eroe che, solo al suo apparire o mostrando la sua arma, ottiene all’istante quello che vuole... mi verrebbe anche da sorridere, se però il fatto accaduto non fosse vero. Invece, lo è. Così, ancora sgomenta per la recentissima strage familiare compiuta nella nostra città (sulla quale si è soffermato il mio collega la scorsa settimana) provo a pensare intorno all’aggressività con gli strumenti che la psicoanalisi mi ha fornito. Infatti, su questo tema sento ragionare da tanti altri “vertici”, per esempio da quello socio-politico, con riflessioni sulla violenza, sulla delinquenza, sulla pena di morte, oppure da quello etologico-sociologico, se l'aggressività nell'umanità sia innata o indotta dall'ambiente, ma questi punti di vista mi sembrano incompleti senza la voce della riflessione psicoanalitica.

La definizione dell'aggressività data dal vocabolario di lingua italiana Devoto-Oli recita: "Aspetto del carattere o del comportamento che si configura in reazioni eccitate o violente".

Ma se prendiamo come punto di riferimento l'etimologia latina della parola, scopriamo che la parola deriva dal verbo AD-GRADIOR, (gradior = muovere il passo, avanzare, camminare) la cui traduzione è: “avvicinarsi a, con intenzioni benigne, per cercare di guadagnare, oppure con intenzioni maligne, per attaccare, aggredire, assalire; e ancora, in senso traslato: dirigersi verso, assumersi, intraprendere, cercare di, fare il tentativo”.

Quindi l’etimologia riporta ad un doppio aspetto dell’aggressività, ma nella nostra lingua si è perso nel tempo il senso benigno di "avvicinarsi a", "intraprendere", mentre si è conservato quello maligno. Di questo doppio versante di ad-gradior è rimasta però qualche traccia, poiché il Dizionario di Psicologia (Ed. Paoline) è costretto a specificare all'inizio del suo discorso: "In questo articolo, l'aggressività è intesa come condotta il cui fine è un danneggiamento o un'offesa ... ecc. ecc.".

Quindi nella nostra cultura il senso di "andare verso" è, appunto, aggressivo, cioè cattivo, pieno di violenza, di odio, di morte. (E immagino quei ragazzi chiassosi, l’altra notte, mentre vedono arrivare verso di loro un uomo furibondo, pistola alla mano…).

Del doppio senso dell’etimologia deve essere stato in qualche modo consapevole S. Freud, che fin dall'inizio delle sue riflessioni (Studi sull'isteria, 1896), s’interroga sull'aggressività quando parla della sessualità come "una pulsione nettamente aggressiva", rivolta verso l'esterno; ma nell’elaborazione teorica definitiva sugli istinti, include sessualità e autoconservazione nella pulsione di vita, ed enuncia l'esistenza di una pulsione di morte contrapposta ad essa, nella quale pone l’aggressività, (Al di là del principio del piacere, 1920), lasciandoci così in eredità il concetto di istinto di morte e dell’aggressività come suo derivato e principale rappresentante.

Questa stretta relazione tra sessualità e aggressività si fonda sullo studio e sull'osservazione della natura aggressiva della sessualità infantile che compare nei vari stadi, orale, anale, fallico, che si susseguono fino alla genitalità adulta.

Da subito, nel suo tempo, non è stato facile, ma non lo è nemmeno oggi, accettare che lo scopo della vita è la continua lotta tra l’istinto di vita e l’istinto di morte, tanto più che questa polarità è studiata e scoperta, in stadi di sviluppo sempre più precoci, nel formarsi della mente del bambino (M. Klein).

L'Io infantile, alla nascita scarsamente organizzato, è sottoposto da subito al conflitto tra i due istinti di base, di vita e di morte; come risposta a questo conflitto e alla tensione e angoscia che ne conseguono, l'Io opera un processo di "scissione", proiettando al di fuori la parte di Sé che sente "cattiva" e minacciante, espressa dall'istinto di morte; prima il seno materno, poi la madre intera, poi gli altri oggetti esterni, sono il bersaglio di questa proiezione e diventano via via essi stessi "cattivi" e fonte di minaccia.

Durante il percorso di formazione, la mente del bambino arriva a distinguere nella realtà fuori di lui gli oggetti buoni da quelli cattivi, persecutori; ma la parte di istinto di morte che non viene proiettata fuori si converte in aggressività e tende a scaricarsi contro gli oggetti cattivi, persecutori, esterni, con l’aggiunta angosciosa che questa aggressività possa colpire e distruggere gli oggetti buoni.

L'ambivalenza amore-odio si estende in tutte le manifestazioni di vita adulta. Tutti noi abbiamo esperienza che non esiste attività in cui la presenza dell'aggressività non sia rilevabile in maniera diretta o, molto più spesso, latente, come l'ostilità trasferita nella fantasia, nel gioco, nell'antagonismo lavorativo, nell'opposizione a determinati principi politici, religiosi ecc.; sappiamo anche quanto spesso e facilmente si possa arrivare all’aggressione esplicita, e non solo fantasticata, perché l’azione consente alla persona di attribuire all’altro la responsabilità del proprio malessere, di liberarsi cioè da quelle parti indesiderate e insopportabilmente angosciose che la pulsione di morte tiene vive in noi.

Per tutta la vita l'uomo deve reprimere tutto ciò che non gli piace di se' e in particolare proprio gli impulsi aggressivi, e mette in atto diversi meccanismi di difesa, prodotti dagli aspetti più profondi di noi, per contrastare le frustrazioni che continuamente l’impatto con la realtà ci impone.

Sia nel soggetto sia nelle relazioni, odio e amore sono dunque divisi e contrapposti, con la differenza però che, mentre la pulsione di vita, attraversando alcune fasi, ha la tendenza a dirigersi verso una stabilizzazione costante dell'oggetto, raggiungendo il livello più alto con gli attaccamenti amorosi permanenti, la pulsione aggressiva, invece, e con essa gli affetti dell'odio, della rabbia, del risentimento ecc., resta molto più a lungo legata alle esperienze del piacere/dolore, bisogno/frustrazione, vissute durante il processo di formazione della mente della prima infanzia, e non ha perciò alcuna costanza dell'oggetto: è come se l’aggressività fosse più libera di essere investita su qualunque oggetto.

Mi chiedo allora, al di là di commenti sociologici e/o politici, il senso di possedere un’arma funzionante nella propria casa: segnale, forse, di una profonda angoscia di non saper contenere le proprie parti cattive e arrabbiate, evidentemente molto attive e pulsanti, e di un grande bisogno di farsi difendere da fuori, persino da un’arma pericolosa e spaventosa in sé.

Scendere inoltre in strada, seppure nel pieno di una calda e insonne notte estiva, per puntare quest’arma alla testa di ragazzi, per quanto chiassosi e ineducati, appare una reazione talmente esagerata da lasciar intuire una profonda fragilità interiore, di una mente che, tanti anni prima, non è stata sostenuta nello sforzo di imparare a tollerare il dolore provocato dalle frustrazioni, dolorose ma inevitabili se si è vivi e destinati a diventare esseri pensanti.

Una speranza di cinquemila terre

La notizia
Alcuni astronomi americani hanno scoperto la nascita di molti pianeti simili al nostro, contrariamente a quanto sino ad oggi si riteneva. Nella sola via Lattea le "Terre" sarebbero circa cinquemila.
La Repubblica, 21 luglio 2003

Nicoletta Massone Il commento
Abbiamo sempre saputo che nello spazio, almeno in quello a noi più conosciuto, le probabilità di esistenza di un pianeta simile al nostro, capace, quindi, di ospitare la vita umana, non erano molto alte. Per questo, la notizia data dagli astronomi americani circa la presenza allinterno della nostra galassia di numerose altre "Terre", ci coglie decisamente di sorpresa, tanto più che le osservazioni effettuate si riferiscono solo ad una piccola porzione di spazio, quello più vicino a noi.

Con il passare del tempo, esplosione dopo esplosione di supernove, sembra che il pulviscolo interstellare si sia arricchito di metalli, in particolare di ferro, considerato il seme di nascita di futuri corpi celesti

Una bella notizia: quando il cuore del nostro pianeta si farà sempre più freddo, ci saranno altri mondi possibili dove abitare. Forse il tempo ci basterà per imparare a raggiungerli; razzi e navette ci trasborderanno in spazi ancora fertili, tutti a nostra disposizione. Non siamo destinati a scomparire per sempre; sembra cadere la claustrofobia di un tempo, certo esteso, esteso al punto che la nostra mente non riesce nemmeno a pensarne la dimensione, ma pur sempre chiuso e definito.

Quel termine estremo non riguarderà sicuramente noi, ma sapere di un limite del nostro mondo rende più definitiva e cupa la personale caducità.

Cinquemila terre forse equivalgono allinfinito. Già immaginiamo libri di storia che ci descriveranno come gli abitatori lontani e selvaggi della prima terra. Già ci sentiamo evocati da un giovane pensiero che non riesce ad immaginare come siano potuti esistere antenati che non sapevano nulla degli spostamenti interstellari. Saremo confusi, nella distanza siderale, con le caverne e le clave da cui, sino ad oggi, ci siamo sentiti definitivamente lontani. Non sarà solo Dio, ma il nostro stesso futuro a pensare lintera nostra civiltà di millenni in un battito di ciglia.

Con un po di malinconia, ci sentiamo accolti da una sorta di preistoria spaziale, mentre vorremmo invece anche noi partecipare del luminoso futuro, dellesistenza più perfetta della razza umana.

La nostra vecchia terra, al pensiero, ci appare ancora più ferita e depauperata; credevamo di essere giganti sulle spalle del passato, il risultato compiuto e perfetto di uno sforzo millenario di conoscenza e invece ci sentiamo riprecipitare nella fragilità di un inizio oscuro ed incerto. Forse è questo il prezzo di uneternità solo umana che prevede maturità e compimento allinterno dello scorrere del tempo, risultato da raccogliere come frutto che cresce pian piano nel susseguirsi dei giorni, nel dolore delle esperienze.

Ma forse anche questo dolore è il risultato di una illusione ottica della nostra mente: non serve confinare fragilità e finitudine nella preistoria per ricavare un futuro libero da ogni imperfezione, non basta una eternità di tempo per cambiare quello che siamo.

Nella stessa pagina, Adriano Sofri parla della costruzione di Virgo, un laboratorio scientifico che dovrebbe rilevare le onde gravitazionali prodotte, secondo la relatività generale, da eventi astronomici come lesplosione di una supernova, lo scontro tra stelle o tra buchi neri. Per assicurarci unimmortalità almeno nel tempo, di generazione in generazione, diventerebbe di importanza imprescindibile dialogare con gli astri, ma Sofri così conclude il suo articolo:

Verrà pure in mente a qualcuno di riscattare i passi perduti dei prigionieri – e il loro bel titolo etereo: ora daria – per qualche avventura della conoscenza.

I passi dei prigionieri non saranno riscattati in nessun luminoso universo di riserva dove non potremo essere; è altra la speranza di cui sentiamo bisogno. Ad ogni istante, in effetti, facciamo i conti con i segni della nostra quotidiana fragilità: tutto quello che siamo e che amiamo si trasforma e finisce, siamo esposti senza rimedio, costantemente, alla perdita e alla solitudine.

La nostra stessa vita è destinata a finire e da sé sola, proprio per questo, ci appare senza significato. Sono gli altri, lo sappiamo, che illuminano le nostre ore e le riempiono di sensi inaspettati; diventiamo esistenti nei pensieri e nelle parole di coloro che possiamo amare e che ci amano.

Limmagine della morte ci assale ben prima della morte fisica tutte le volte che quello che siamo precipita in mille passi perduti di cui nessuno più conosce niente e niente vuole sapere.

Anche noi, allora, possiamo sentirci licona di quella terra che vorremmo abbandonare; perduti in uninnominabile solitudine e per questo avvelenati, schiantati da un sole rovente, sopraffatti da rifiuti tossici che non abbiamo saputo bonificare, destinati a scomparire, corrosi dalla nostra stessa rabbia.

Come Sofri, anche noi sentiamo che ogni giorno ci porta lurgenza di ricondurre ogni nostro abbandono, satellite di dolore, ad un legame significativo che ancora sia capace di trasformare terrore e distruzione nel suono familiare di un incontro e di una condivisione.

Forse per questo la morte è tanto inaccettabile: di colpo, tutte le relazioni che abbiamo si interrompono, senza che noi sappiamo di andare da nessuno.

Se non abbiamo amato, se non siamo stati amati, la morte può imporre senza riserve la sua immagine di vuoto, di inutilità, di solitudine assoluta.

Non ci pacifica sapere che cè un altro mondo da popolare, se questo altro mondo è solo lillusione di una infinità onnipotente che non lascia spazio di consolazione per le nostre autentiche pene.

La separazione e la morte

La notizia
Tragedia della follia a Genova. Un ispettore di polizia ha ucciso martedì sera a colpi di pistola, prima la moglie, poi i suoi due figli, di otto e quattro anni, e infine si è ammazzato. È accaduto nell'abitazione del poliziotto, in via Cornigliano a Genova. LA STRAGE - L'ispettore si chiamava Saverio Galoppo, aveva 47 anni ed era in servizio alla squadra informativa dell' ufficio di gabinetto della questura. La moglie, Assunta, aveva 43 anni. La figlia maggiore aveva otto anni, il figlio minore quattro. La follia dell'uomo è esplosa in tarda serata. I vicini di casa hanno udito diversi spari e, allarmati, hanno chiamato 113 e 112. Sul posto sono accorse pattuglie della polizia e dei carabinieri, che hanno cercato di entrare nell'abitazione, la cui porta d'ingresso era chiusa dall' interno. In un primo tempo si era ritenuto che l'uomo si fosse barricato in casa. Quando però gli agenti sono riusciti ad entrare nell'appartamento, nel popoloso quartiere di Cornigliano, hanno trovato soltanto i cadaveri dei quattro.
La Repubblica, mercoledì 9 luglio 2003

Il commento
Capita sempre più spesso di leggere notizie come questa e – sempre – si ritrova nella cronaca che riporta la notizia, la testimonianza di qualcuno che conosceva bene l’autore del delitto, che si trattava di una persona normalissima, del tutto a posto.

Questo caso non fa eccezione, un superiore del poliziotto afferma: “ S. non aveva mai dato segni di squilibrio – ricorda il questore di Genova che lo aveva fra i suoi collaboratori – era un uomo tranquillissimo”. Non c’è motivo di mettere in dubbio questa affermazione, è molto probabile che il comportamento dell’Ispettore di Polizia sia sempre stato normale e molto controllato e che, osservandolo in ambito lavorativo o sociale, non ci fosse modo di pensare che, dentro, qualcosa si fosse spezzato.

La cronaca ci racconta che l’uomo ha ucciso la sua seconda moglie e che questo secondo matrimonio era finito da alcuni anni dopo che il Giudice aveva accolto la domanda di separazione della donna e aveva ordinato all’Ispettore di lasciare la casa di famiglia. Si cita anche il fatto che una figlia trentenne avuta dal primo matrimonio era gravemente malata e che questo aveva sottoposto l’uomo ad una grave situazione di stress.

Ho letto un articolo sullo stesso fatto su un altro quotidiano di Genova, IL SECOLO XIX, e ci sono due differenze: la figlia gravemente malata non è quella del primo matrimonio, ma è una di quelle uccise, e la donna lavorava presso la Regione come impiegata, (su Repubblica la donna era impiegata alle Poste). Potrebbero sembrare differenze superficiali o non importanti, ma quando si cerca di capire il perché di un fatto così grave anche i particolari sono importanti. Affiorano naturalmente alcune domande: perché? Quell’uomo è improvvisamente impazzito? Si poteva fare qualcosa prima? Non credo sia facile rispondere alle prime due domande, la lettera che – pare – l’uomo abbia lasciato può forse dare qualche indicazione sui motivi ultimi di disperazione che lo hanno spinto a questo gesto, può sicuramente darci un quadro dello stato emotivo e mentale dell’uomo poco prima del delitto, è comunque la dimostrazione che, se si fosse trovato il modo di affrontare la questione prima, forse non ci sarebbe stato un esito così grave.

E allora, credo si possa dire che si poteva fare qualcosa prima: a quest’uomo è successo un fatto che è frequentissimo nella nostra società (la Liguria, poi, è una delle regioni d’Italia con il più alto numero di separazioni e divorzi), si è separato e ha divorziato, aveva dei figli e il Giudice ha stabilito le regole della separazione.

Una separazione fra due coniugi non è mai un evento che si supera facilmente, tante volte può essere vissuto – da uno o da entrambi – come un’autentica liberazione, ma più spesso è una vera tragedia, se non esteriormente sicuramente interiormente scorrono fiumi di emozioni del tutto incontrollate: si è arrabbiatissimi, infuriati, ci si sente ingannati, offesi, abbandonati, falliti, si diventa all’improvviso gelosi e invidiosi come mai avremmo potuto pensare…

Tutte queste emozioni “cattive” come e dove trovano una possibilità di espressione, una opportunità di elaborazione e trasformazione? A chi i coniugi che si vogliono separare possono rivolgersi per cercare di comprendere l’autentico terremoto emotivo che li sta scuotendo da dentro?

In Italia esistono due vie per separarsi, se non si trova autonomamente un accordo si va davanti ad un Giudice che gestisce come può il conflitto, considera quale può essere l’interesse dei figli minori e sancisce le regole formali e sostanziali della separazione. Questo accade fra coniugi “litigiosi”. Oppure accade che i coniugi riescano autonomamente a trovare un accordo e, risparmiando un po’ di soldi per gli Avvocati vanno davanti al Giudice soltanto per ottenere l’omologazione dei termini della separazione. Quello che accomuna questi tipi di procedimenti di separazione è che - quasi sempre – i coniugi sono soli a gestire le loro, molto spesso, violente e dolorose emozioni, l’unico soggetto con cui si trovano ad avere a che fare è la Legge, sotto forma di Avvocato o di Giudice.

Potrebbe essere invece molto utile prevedere una qualche forma di aiuto alla separazione che - sempre - assista i coniugi in questa occasione: non si tratta di obbligare ad una psicoterapia o ad un qualche trattamento delle persone, si tratta soltanto di prendere in considerazione l’opportunità di avere una serie di colloqui con un professionista appositamente formato che aiuti a esprimere l’aggressività e la rabbia che naturalmente si sviluppano in momenti come questo. Non si tratta di stabilire chi ha torto o chi ha ragione, chi deve tenere con sé i figli, o a quanto ammonterà l’assegno di mantenimento. Si tratta di concedersi un po’ di tempo per pensare, in un ambiente protetto, a quello che sta succedendo, al fatto che una separazione addolora e ferisce profondamente, ma che c’è ugualmente la possibilità di andare avanti senza pensare soltanto di avere fallito su tutta la linea nella propria vita.

Se ciò non avviene, capita che il confronto sia esclusivamente una lite feroce, una guerra per vedere l’altro annientato e punito e non è strano che capitino fatti come quello di Genova anche dopo anni: alla fine uno non ce la fa più a tollerare la propria sofferenza solitaria e deve fare qualcosa, questo qualcosa non può essere altro che un’azione aggressiva o distruttiva rivolta contro di sé o contro le persone … a cui si vuole più bene.

In questo senso, dicevo, sarebbe opportuno dare la possibilità di “litigare civilmente” ai coniugi in via di separazione, esiste la possibilità di rivolgersi ai cosiddetti Mediatori Familiari che appunto hanno questa funzione. Non sarebbe molto complicato imporre – proporre ai coniugi di affrontare, almeno ora che si stanno separando, la loro relazione, non si riuscirebbe a risolvere tutto, ma sono certo che si riuscirebbe a evitare che si verifichino così spesso fatti come quello dell’altro giorno a Genova.