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Quando l'abito fa il monaco

La notizia
L'industriale sui teenager. "Infedeli ed esigenti". L'industria della moda salvata dai teenager. Gli unici ormai a spendere per vestirsi: compro, indosso, mi stufo, butto e ricompro. Lo afferma uno che se ne intende, l'industriale della moda fiorentina Alessandro Bastagli che con la sua azienda A.Moda produce e distribuisce ben tre marchi giovani, da Everlast a Alpha Industries e ora anche Muscle, che veste i cantanti Neck e Cremonini e promuoverà 50 concerti da adesso all'anno prossimo.
La Repubblica, venerdì 20 giugno 2003

Eraldo Walter Machet Il commento
Mi colpisce questa intervista dell'industriale fiorentino Alessandro Bastagli sui teenager, definiti sbrigativamente "infedeli ed esigenti" nei confronti della moda. L'interesse della psicoanalisi per l'età adolescenziale, anche se relativamente recente rispetto alle prime fasi dello sviluppo umano, credo che ci possa aiutare a comprendere meglio anche il fenomeno della moda giovanile.

Come è noto, con la pubertà si verificano quelle trasformazioni fisiologiche ed emotive che con l'adolescenza si consolidano a raggiungere una stabilità nell'età adulta anche attraverso quell'immagine corporea di sè, unica ed irripetibile. Ma queste trasformazioni del corpo sono sempre fonti di grosse angosce, come Kafka ha saputo cogliere suggestivamente in quella "metamorfosi" di Gregorio Samsa da essere umano a ripugnante scarafaggio: simbolo tragico, questo, del rifiuto, del sentirsi indegni, inferiori, sgradevoli al punto tale da non poter più essere accettati. I cambiamenti fisici, sottolineano infatti gli psicoanalisti, sono sperimentati inconsciamente come la richiesta di cambiare l'immagine di sè esistente e la pubertà può allora rappresentare la perdita di quell'immagine idealizzata che ha permesso al bambino di un tempo di sentirsi sicuro ed amato. Da qui il "doloroso distacco" dalla famiglia di cui parla Freud nei "Tre saggi sulla teoria sessuale", che può portare il giovane a diventare una persona relativamente consapevole delle proprie capacità e dei propri limiti, in grado di proseguire, nello sviluppo della propria identità, malgrado quelle difficoltà e confusioni da Melzer evidenziate nella "Teoria psicoanalitica dell'adolescenza". Oppure può condurre a diventare un individuo continuamente bisognoso di riconoscimenti esterni, insicuro, nel quale il "falso Sè", cioè il Sè sociale direbbe Winnicott, prevale sempre più sul "vero sè".

La moda, sotto questo punto di vista, può essere considerata come espressione appunto di quel Sè sociale, "come una sorta di involucro protettivo rispetto al vero Sè, un contenitore facilmente scambiabile e senza gravi danni per la persona ... (che) lo sappia utilizzare" (S.Stella in "Relazioni sviluppo", cap.7 pag.178 ed. Boringhieri TO, 1990). In questo contenitore l'adolescente può sentire di trovare allora un sostituto alla famiglia della quale sta faticosamente cercando di prendere le distanze, in una sorta di identificazione con la moda e con il gruppo dei pari. Ecco perché più che in ogni altra età della vita e più che in ogni altro ambito, esiste nell'adolescente una vera e propria religione del vestire, anche se non è sempre stato così. Ancora nel XIX secolo l'abbigliamento era segno dell'appartenenza di classe, e in questo spazio il giovane si vestiva ... secondo il costume. In una società, come la nostra, in cui si esalta l'espressione (e lo sfruttamento) di valori individuali, quell'uniforme segno visibile d'appartenenza ad un ambiente, ad un ceto, ad un'istituzione, perde la sua funzione identificante. Ma, paradossalmente, in quest'aria di libertà nel vestire si ricreano delle vere e proprie "sette", dei gruppi con un certo numero di regole, con la condivisione di ideali comuni, la definizione di un certo modo di essere tra di loro e di porsi nei confronti degli adulti. L'impressione però è che questa coesione emerga più dal senso che accordano all'abbigliamento, ad una sua virtù magica di far scomparire la loro insicurezza, più che della condivisione di valori sul piano ideologico o anche solo sul piano estetico. Questo dell'adolescenza è dunque un tempo in cui si può davvero dire che è l'abito che fa il monaco. L'abbigliamento qui è davvero una "seconda pelle", in grado di sostenere un narcisismo fragile, la cui virtù di rassicurazione è assoluta. "Il vestito" acquista così una virtù protettiva in grado di tenere a distanza le minacce reali o meno che vengono dal mondo esterno, ma ancor più - stando alle osservazioni psicoanalitiche - in grado di impedire lo straripamento di ciò è vissuto nel proprio mondo interno. Scrive A. Birraux in "L'adolescente e il suo corpo" (ed. Borla, Roma, 1993): “Si conosce la sensibilità degli adolescenti agli standards proposti dai media: ciò che è più difficile misurare è il loro grado di libertà in rapporto a questi modelli e la loro capacità di discriminazione di ciò che appartiene al loro desiderio, da ciò che essi percepiscono come norma alla quale sottomettersi per essere riconosciuti e riconoscersi. E' difficile valutare ciò che appartiene ad una scelta emblematica autentica; la fragilità del loro sentimento di esistenza li porta in effetti a sperimentare la realtà nella diversità dei suoi modelli, nel tentativo di accrescere la certezza relativamente al loro sentimento d'esistenza” (pag.161).

Ora, è in questo desiderio di sostituire con un'immagine esterna che rappresenta un certo valore, un'immagine interna vissuta come inafferrabile e portatrice d'incertezze dolorose, che il corpo rivestito di certi indumenti (e anche ornato ed acconciato in un certo modo) può servire per sovvertire l'autenticità dei desideri del giovane piegandoli alle esigenze di mode effimere che danno, anche se per poco tempo, la certezza di esistere o "la coscienza di essere". Un po' come se gli attribuiti dell'oggetto, dell'ornamento, dell'abbigliamento fossero sentiti dal ragazzo come attributi propri, dei distintivi che gli conferiscono un valore, se non addirittura, una identità. E' in questo senso allora, che ben emerge, come non è il sistema sociale, con l'industria della moda, a creare questo bisogno. Il vero "grande stimolo" è l'incertezza interiore dei teenager è il vuoto profondo di "oggetti" che hanno segnato le prime relazioni infantili, che si ritrovano nel corso di tutta la vita, che in questo periodo si fanno acutamente sentire.

Sappiamo che non c'è cambiamento, non c'è evoluzione senza sofferenza ed anche questa esigenza del giovane di un loock da rinnovare continuamente è una manovra il cui scopo è chiaro: evitare quella sofferenza. E, qualunque essa sia: immaginaria o reale, esterna o interna, pericolosa o meno, la sofferenza non può essere ignorata o trattata come un capriccio, o pensata come uno stato transitorio che prima o poi troverà una soluzione spontanea; essa va ascoltata, prima di tutto dagli adulti, perché sempre più spesso è proprio l'adolescenza il periodo della vita più colpito dal rimosso, che poi viene portato in analisi.

Ha ucciso per paura o insicurezza

La notizia
Ha affogato la sua bimba di appena tre mesi e mezzo in una vasca del bagno del reparto di pediatria di Desio nel milanese. La donna, mamma della piccola, peruviana, 28 anni, e' in stato di fermo per omicidio volontario aggravato. E' successo questa mattina poco dopo le 4 quando il personale dell'ospedale si e' accorto che la piccola non era più al suo posto. Sono cominciate le ricerche e poi un'infermiera ha trovato Helga R. in stato di choc che mormorava frasi senza senso. Sul posto sono intervenuti i carabinieri di Desio che hanno arrestato la donna. La piccola era stata ricoverata qualche giorno prima per un sospetto trauma cranico
La Repubblica del 4 giugno 2003

Floriana Betta Il commento
L’articolo riguarda un fatto di cronaca, accaduto a Desio, provincia di Milano, dove una madre peruviana, Helga, ha affogato la propria bimba di tre mesi nella tazza del water nell’ospedale dove l’aveva ricoverata. Erano lì da sole, dopo che la piccola era stata trattenuta per accertamenti perché il giorno prima era- forse solo accidentalmente- caduta dal passeggino con cui la madre la portava a spasso.

Ultimamente, c’è un’intera teoria di madri che compaiono sui giornali per questi infanticidi,e non solo la mamma di Cogne: come se questa gravissima patologia, la depressione post partum, che era stata fino agli anni ottanta considerata in via di estinzione, fosse nuovamente in ripresa.

Il fatto è ben spiegato dall’articolo: sono donne fragili, provate dall’esperienza del parto ma ancor più da quella della maternità, che si spaventano, si sentono inadeguate, o sono a loro volta talmente afflitte dal dolore morale e dalla chiusura di ogni orizzonte, da non voler che la creatura affronti una vita così pensata in quel momento come assolutamente distruttiva.

Si pensava che dopo gli anni ottanta, con una maggiore responsabilizzazione alla maternità da parte della coppia, con più sostegni di prevenzione sul territorio da parte della psichiatria e dell’assistenza sociale, con più facilitazioni sociali – si pensi, ad esempio, a come negli ultimi anni una maternità fuori del matrimonio sia meno difficile da portare avanti rispetto ai pregiudizi socio culturali che si sono ammorbiditi – questa patologia, che resta una patologia tra le maggiori in psichiatria, si fosse ridotta.

Quando sono andata a lavorare in Ospedale Psichiatrico, a Voghera, provincia di Pavia, c’era ricoverato nel settore femminile, un certo numero di madri “residuate” dopo magari vent’anni da un episodio di psicosi puerperale. Donne magari che non erano riuscite ad eliminare i figli, o che si erano fatte il manicomio criminale ed erano poi state depositate in ospedale per anni dopo l’episodio, diventando delle croniche senza esser state curate.

Personaggi di un’infelicità drammatica perché si presentavano come dolorosamente sane nel microuniverso della psicosi manicomiale, ma dannatamente espulse da un sociale che tutto perdona tranne che alla mamma di non esser mamma.

Personaggi che, dopo l’episodio critico, in genere recuperano con le cure, un certo stato di ritorno alla condizione quo ante, ma che si portano dietro e dentro il marchio indelebile dell’essere totalmente incomprese, fino ad non comprendere neppure loro questo momento di inadeguatezza e di sofferenza.

Anche se, come già sottolineava Balduzzi, negli anni cinquanta, primo psichiatra italiano ad essersi occupato di questa patologia a fondo, sono donne che presentano dei tratti particolari nella storia antecedente al fatto. Donne con madri iperpresenti e passivizzanti che tendono ad espropriare la figlia della sua maternità, donne che non sono mai potute esser figlie e quindi non possono esser madri, che hanno un coniuge in genere molto infantile e poco capace di essere di sostegno nell’esperienza mentale della maternità, donne chenon sono in grado di regredire, nei nove mesi della gestazione ad uno stato di intimità mentale col bambino tale da renderle capaci di identificazione e di sostegno dopo la nascita, per ragioni varie. Alcune, insite nella struttura di personalità – una fragilità psicotica dell’Io – altre riferite a difficoltà sociali, reali- la povertà, il maltrattamento, se la maternità è stata desiderata o no ecc –

Quel processo che accade in gravidanza, di oscillazione dell’identità materna verso il riviversi, contemporaneamente, figlia della propria madre e madre del proprio figlio comporta la possibilità di identificarsi profondamente col proprio bambino e di sentirlo come parte di sé. Ma comporta anche e in tempi brevi, un notevole grado di destrutturazione dell’Io della madre che si deve, contemporaneamente rendere flessibile alle esigenze di un corpo che cambia, e che cambia rapidamente, alle esigenze di un mettersi a disposizione del bimbo e del suo narcisismo , a quelle di prepararsi ad una serie di incrementate responsabilità sul piano reale, che possono esser vissute come deprivanti di un proprio narcisismo fragile e precario a tutto sfavore di un sentirsi intere e centrali davanti ad esigenze obiettivamente aumentate.

La esperienza della maternità è da tutti gli autori che se ne sono occupati, paragonata ad una crisi di identità per la donna, dell’identità corporea, in primo luogo, con problemi che vanno dalle ansie di malattia ( ultimamente rese ufficiali dai controlli della medicina, che sempre più trasformano un fatto normale come la riproduzione in una malattia globale ! ecografie, esami del sangue, monitoraggi e, last but not least, gli psicologi, col tam tam della realizzazione del buon rapporto col bambino, col dover essere madri attente sensibili e stimolanti ) alle ansie per la fitness del corpo giovane e senza smagliature

Questa povera crista di Helga, peruviana 32enne, che ha dovuto lasciare in Perù una figlia di nove anni, lasciata per motivi di lavoro, si è sposata in Italia col datore di lavoro, vedovo con dei figli grandi, coi quali c’erano problemi di convivenza conflittuale. Nasce la nuova bimba, tre mesi fa. La donna pare contenta.

Poi, primo campanello d’allarme – visto a posteriori- durante la passeggiata domenicale, le cade il passeggino con la bimba dentro ed è per questo ricoverata in ospedale a Desio, per accertamenti prudenziali. Nella notte, affoga la bimba nel water dell’ospedale. Poi chiama dal cellulare il marito dicendogli che “ il mostro non c’è più”.

Sembra quasi riecheggiare le due grandi storie di passione e di morte: Emma Bovary e Anna Karenina: storie come questa, di devastazione depressiva per delle donne che devono sacrificare una precedente maternità ad una nuova storia d’amore.Le due storie letterarie finiscono col suicidio della donna, questa con l’omicidio della figlia, che, vista l’età e la ben nota simbiosi dei primi mesi di vita, è quasi suicidio anche per Helga.

Mi ha colpita questo parallelo tra letteratura e quotidiana follia: come se si ripresentasse, nella forma più grave della patologia, il problema della difficoltà, per la donna già madre, a poter realizzare se stessa armonicamente in una nuova storia d’amore che comprenda e non escluda i figli di tempi precedenti.

La difficoltà, tipicamente femminile, ad affrontare serenamente la maternità e l’amore sessuale – o donna o Madonna, avrebbero detto le femministe degli anni settanta -, le difficoltà coi figli di lui nati nel matrimonio con un’altra, morta e quindi maggiormente idealizzabile: il tema della matrigna, sempre vissuta come cattiva forse, in tanti casi, solo perché donna sessuata che si accompagna al padre.

Non mi interessa recriminare sul fatto che i maschi non hanno questo tipo di difficoltà o ne hanno meno, e su quanto il sociale, con le sue aspettative rigide, possa o meno influire nel creare un disagio a rottura.

Primo, perché non so neanche se sia proprio vero, secondo, perché sono donna e madre e dall’interno provo più una pena di identificazione con la donna, che non una rabbia di disidentificazione col maschio.

Immagino, piuttosto, con il Dostoewskij dei Karamazov, la nostalgia della madre che non sente più i passi dei piedini del proprio bambino acciottolarsi sul pavimento di casa, o della madre che non può più vedere il sorriso della figlia lontana e che , invece, deve confrontarsi col marito e i figli di lui in una vita diversa, con questa assenza della prima figlia che diventa ogni giorno più concreta, più forte. Immagino la gioia del coniuge ad avere la nuova bambina: qualcosa di tanto normale e naturale, e l’impossibilità, per questa donna di condividere con lui, gioioso, lo spettro divorante dell’assenza dell’altra figlia, assente solo per Helga, per lui, ininfluente. Immagino il silenzio, l’estraniazione: che dolore deve aver provato, nell’avere questa figlia, paragonandole , nel ricordo, all’altra.

E che senso di strappo, di fisico rompersi di un legame caro, di lacerarsi da un abbraccio, per entrare nell’altro.

Anna Karenina andava dall’entrata di servizio, con la complicità dei vecchi servitori, a trovare il suo bambino, mentre l’astio del marito la bandiva da casa sua. Per Helga, è l’astio della vita che la costringe a lasciare la figlia in Perù, o chissà cos’altro. Entrambe sono disinteressate alla nuova creatura, frutto del nuovo amore- quello di Helga non si sa, quello di Anna per Wronskij è una delle passioni amorose più grandi della letteratura, eppure non basta per tenerla insieme, per renderla appagata, non basta –

Penso a questa devastazione intima, qui sfociata nella tragedia, e immagino Helga che ammazza la figlia per ammazzare il mostro che sente dentro di sé: quello di non sapersi sentire né con né senza, né presente, né assente, né madre, né donna.

Penso ad Helga come ad una figura estraniata da ogni possibile sfondo. Certamente, non è stata aiutata dal sociale che non si rende conto di cosa stiamo chiedendo a queste badanti o lavoratrici straniere che devono abbandonare i figli oltre che il loro microcosmo, per farsi una vita da noi, una vita che già sarà diversa quanto ad abitudini culturali e linguistiche e di costume, ma che, in più, sradicano anche dal legame intimo genitoriale.Questo è una sorta di schiavismo anche se avviene con la volontà della donna di venir in Europa, ma sempre una volontà legata a bisogni talmente grandi che fa dubitare sulla libertà reale della scelta.

E penso ad Helga come ad una persona che abbia perso, lentamente, i connotati di madre, allontanata, e di donna, che si trova ad esser scelta, come in ogni sogno edipico, come sposa dal datore di lavoro, quindi dalla figura paterna ma che viene comunque ribaltata ad un ruolo di miserabile della vita, perché non ritrova più qualcosa di se.Di se come individuo.

Questo “mostro” come chiama la figlietta appena affogata, mi pare essere il suo sé: qualcosa che la mangia di bisogni dall’interno, che le chiede l’impossibile, che la riporta ancora una volta, anche se ha trovato il nuovo amore, a dei suoi bisogni molto arcaici – la bimba aveva tre mesi !- che o non erano stati accolti o si devono essere riaperti violentemente nel contatto con una realtà troppo difficile.

E mi vien fatto di pensare che, probabilmente, proprio perché ogni maternità comporta un riaggiustamento dei propri rapporti di figlia con la propria madre, è proprio in questi rapporti con la madre e con la vita sessuale ed amorosa della madre che si incista il poter, da parte della donna adulta, concepire di avere o meno una vita amorosa e sessuale non contrapposta e sottratta alla maternità.

Come se i problemi di separarsi e di individuarsi dalla propria madre, lasciandola a sua volta libera di avere una vita che non sia solo quella della simbiosi diadica madre-figlia, condizioni e la capacità di realizzazione sul piano narcisistico – la capacità di autonomia e di autostima –e quella di realizzazione sul piano affettivo sessuato. Infatti, se la simbioticità infantile della bambina la porta a “sequestrarsi” la madre, facendole sacrificare altre relazioni affettive polarizzandone l’attenzione amorosa e tenera solo verso il rapporto madre-figlia, molto probabilmente questo tipo di bimba avrà difficoltà ad affrontare liberamente le tappe dell’autonomia “fuori casa” e, in futuro, quelle di una vita sessuale sentita come capace di aggiungere e non di togliere qualcosa al rapporto di maternità con i futuri figli.

La bimba troppo a lungo simbiotica con la propria madre diverrà una madre simbiotica tutta volta a concepire la maternità come offerta sacrificale e come unica arena di interesse psico-affettivo.Sarà più facile, in questi casi, che una vita amorosa venga vissuta come incompatibile con il tirar su figli. Anche se non si sfioreranno i livelli dell’infanticidio, è osservazione abbastanza frequente quella delle mamme troppo ‘appiccicate’ ai figli, che sacrificano la figura del partner a un ruolo di assoluto secondo piano. Forse è da cercare più in questa direzione la difficoltà di tante donne a concedersi di avere una vita affettiva fuori dalla maternità che non nelle pressioni del sociale che vorrebbero, secondo la lettura femminista, carcerare la donna al ruolo di madre Madonna.

Da cercare nella direzione della capacità a separarsi della figlia dalla madre, separarsi anche inteso come assunzione di responsabilità e di solitudine, rinunciando per questa contropartita – citando Carmen Consoli! – alla fusionalità deresponsabilizzante dell’unione perfetta.

L’erotismo inteso come vita, la sessualità contrapposta a Thanatos, istinto di morte, separa per poter unire.

La simbiosi unisce per poter soffocare.

Spero che a questa Helga venga offerta una possibilità di curarsi e non la mannaia del manicomio criminale o dell’interdizione.Che venga offerta alla Helga simbiotica che ognuna di noi si porta dentro, una possibilità di essere aiutata ad andare verso l’uscita dall’hortus conclusus della fusionalità con i figli e con le aspettative simbiotiche regressive assai rivendicative di poter trovare nel rapporto coi figli quel rapporto con la madre “gigantessa della Nursery”, come la chiama P.C. Racamier, analista francese, quella corsia preferenziale pseudo-affettiva per evitare il dolore mentale della separatezza e della responsabilità.

Accelerazione

La notizia
Povero Kato, lotta con la morte. La rivolta dei piloti: “Qui non dobbiamo correre più”. Sotto accusa la pista. Rossi: “Non si può rischiare di morire ad ogni curva”. Ma gli organizzatori negano: “Poteva accadere ovunque”.
La Repubblica, 7 aprile 2003

Il commento
Un incidente in una corsa automobilistica, o tanti incidenti ad ogni weekend. Spesso mi chiedo cosa rappresenti per l’essere umano la spinta all’accelerazione. Essa è certo una linea di tendenza che ha connotato progressivamente in intensità il nostro passaggio sul pianeta Terra e ha conquistato tutti gli aspetti del vivere nel secolo che abbiamo appena valicato.

L’accelerazione, dice la definizione, è la variazione di velocità di un mobile riferita all’unità di tempo. Ogni movimento nostro è un’accelerazione perché non riesco a pensare ad un elemento conosciuto che non sia mobile ma ci sono accelerazioni che abbiamo realizzato nei millenni e sono connaturati al nostro equilibrio psicofisico. Anche l’inconsapevolezza della velocità con cui viaggiamo insieme al nostro pianeta è un elemento del nostro equilibrio. Certo noi non conosciamo la quiete totale, ma solo movimenti percepibili o non percepibili. La materia inorganica è una illusione di quiete.

Mi sono chiesta quanto un’accelerazione fisica o psichica possa interferire con il senso di equilibrio che millenni di vitale bilanciamento di tutte le forze hanno creato nell’essere umano. Il bellissimo testo metapsicologico di Sigmund Freud “Al di là del principio di piacere” del 1920 affronta cautamente e coraggiosamente gli enigmi della vita e della morte, della coscienza e della nozione di tempo sia con gli strumenti scientifici allora conosciuti, sia con la nuova disciplina psicoanalitica. Ma la grandezza di Freud sta, a mio parere, nel fatto che qualunque affermazione di Freud è insieme una domanda che i prosecutori hanno continuamente reinterpretato in modi sempre nuovi. Ad un certo punto in questo testo si dice:

Dal fatto che lo strato corticale che riceve gli stimoli non dispone di un rivestimento protettivo contro gli eccitamenti che provengono dall’interno, discende necessariamente che queste trasmissioni di stimoli acquistano un’importanza predominante dal punto di vista economico, dando spesso origine a disturbi economici che possono essere paragonati alle nevrosi traumatiche. Le fonti di tale eccitamento interno sono in massima parte le cosiddette pulsioni dell’organismo, che fungono da rappresentanti di tutte le forze che traendo origine dall’interno del corpo vengono trasmesse all’apparato psichico, e che costituiscono l’elemento al tempo stesso più importante e più oscuro della ricerca psicoanalitica.

Il mio riferimento a questa frase di Freud fa capo all’ipotesi che qualunque accelerazione, anche un’accelerazione meccanica su un mezzo meccanico, possa modificare appunto “le fonti dell’eccitamento interno” che “ sono in massima parte le cosiddette pulsioni dell’organismo ecc.”

La teoria freudiana della “Pulsione di vita” e “Pulsione di morte”, può non trovare d’accordo molte correnti della Psicoanalisi, però il concetto di pulsione come fattore psichico e somatico sta alla base del nostro pensare il lavoro clinico.

Io mi chiedo quanto l’accelerazione del nostro modo di vivere, in qualunque ambito realizzata, sia correlata direttamente alla pulsione di morte o comunque si voglia chiamare l’elemento che concorre alla dinamica universale e che conflittua perennemente per una rottura dell’equilibrio raggiunto dalle forze in campo. L’accelerazione in qualunque contesto si intenda, fisico , organico, psicologico, tende a modificare l’organizzazione nella quale ha inizio.

Nello stesso testo Freud ribadisce l’importanza della “Coazione a ripetere”, “espressione della natura conservatrice degli esseri viventi” (Idem). Comunque si voglia chiamare, la tendenza a ripetere è un’esperienza quotidiana nel lavoro e nella vita di ognuno di noi. Mi chiedo: “ C’è un momento in cui accelerare in qualunque contesto, supera la nostra capacità di fermarci e tende alla ripetizione, conducendoci alla trasformazione e dunque all’accelerazione zero?

La domanda parallela è quanto la cosiddetta pulsione di vita sia tesa al movimento, e quanto un movimento che raggiunge un culmine esiti nella pulsione opposta, perché tende al ritorno all’immobilità, o velocità diversa.

Chissà che la coscienza non sia frutto di una qualche accelerazione neuronica stabilizzatasi poi in una nuova organizzazione. Certo l’insigth viene vissuto come un’accelerazione che permette poi un pensiero successivo come stabilizzato.

L’equilibrio di tutte le nostre funzioni mentali comincia e si regge sul nostro sentirci stabilmente situati nello spazio e nel tempo condivisi.

Quanto l’accelerazione permette di sperimentare le nostre capacità di equilibrio spazio/temporale e quanto ci spinge a sfidare la rottura di questo equilibrio?

Una accelerazione che conduca al punto psichico di non ritorno cioè il punto in cui la pulsione di morte, direbbe Freud, prende il sopravvento è la conseguenza di una serie di variabili psichiche a cui noi diamo nomi diagnosticando psicosi, nevrosi, sindromi.

Accelerare vuol dire avvicinarsi al momento di rottura in cui quelle che Freud chiama pulsioni di vita, Eros e organizzazione lasciano il campo alle pulsioni di morte, la tendenza all’indifferenziato o a movimenti diversi che comunque determinano la fine di ciò che noi chiamiamo la nostra unica vita cosciente.

Ma succede che la tendenza alla velocizzazione non è caratteristica di coloro che noi psicologi avviciniamo a tutte le personalità a rischio di regressione, è caratteristica strutturale del lavoro umano del nostro tempo storico. E allora?

Non è facile spiegarlo agli scienziati che lavorano nella ricerca dei viaggi interplanetari e poi ciascuno di noi chiama ebbrezza proprio l’emozione che alla velocità e all’accelerazione fa riferimento.

L’accelerazione però è un’espressione del dinamismo e ha in sé le radici sia di Eros che di morte. Se il momento storico ci rimanda una immagine di tendenza all’accelerazione più intrisa di pulsione di morte sappiamo anche che questa non può che convivere con la tendenziale pulsione opposta. Certo tutto questo non tiene conto del numero delle vittime, della loro sofferenza.

Come terapeuti possiamo solo occuparci di intime accelerazioni e lavorare per visibili lentezze. E’ come se noi terapeuti fossimo al servizio di quel gruppo di pulsioni che, come dice Freud nel testo citato: […] non si precipita in avanti per raggiungere il fine ultimo della vita al più presto possibile”, ma “ giunto ad un certo stadio di questo percorso, ritorna indietro per rifarlo nuovamente, a partire da un determinato punto e prolungare così la durata del cammino.

Bagdad Hollywood party

La notizia
Martedì notte Jessica Lynch, soldato semplice, ferita e presa prigioniera nel corso di un’imboscata, è stata portata via dall’ospedale di Nassirya, nell’Iraq centrale, durante una missione straordinaria delle forze speciali americane. Le immagini del suo volto sorridente hanno fatto il giro del mondo, trasformando la ragazza diciannovenne nell’icona americana della tenace determinazione a superare tutti gli ostacoli.
La Repubblica del 7 aprile 2003

Nicoletta Massone Il commento
Da giorni abbiamo sviluppato una nuova e non attesa abitudine, quella di seguire i bollettini dell’ultima guerra in medio oriente. L’avanzata vittoriosa degli americani, i bombardamenti, i morti. Da giorni abbiamo nuovamente fatto esperienza della nostra impotenza: le manifestazioni che hanno riempito le strade di tutto il mondo, il parere dei popoli, sembra non avere peso nemmeno per le questioni che riguardano la vita e la morte.

Ancora una volta siamo imprigionati di fronte al video che ci trasmette, fedele, l’inesorabile sviluppo delle “operazioni”. Di fatto, però, nulla è cambiato nelle nostre vite, tutto è inaspettatamente come prima: alberi, strade, piazze, impegni, preoccupazioni.

La guerra risuona lontana con il suo clamore, impalpabile e intangibile. Anche il sangue in televisione non sembra nemmeno vero, ma più simile a quello di una rappresentazione, di uno spettacolo qualsiasi, un film dell’orrore che viene trasmesso proprio nello stesso orario su altro canale. Basta schiacciare un tasto, un programma equivale all’altro e finisce per assumerne identico spessore emotivo.

Qualche immagine, a volte, riesce a raggiungerci, qualche notizia ci sorprende e ci rattrista, ma tutto presto si spegne nella trama complicata delle nostre giornate. Quasi ci vergogniamo, vorremmo provare un dolore più crudo ed intenso, vorremmo, in qualche modo, fare esperienza di quello che significa la parola guerra e ci sembra incredibile che, per la nostra mente, sia solo, per la maggior parte, l’icona in alto sullo schermo che incorona l’ennesimo dibattito o mute immagini di polvere e di macerie.

Abbiamo delegato ad altri un orrore di cui non conosciamo la misura e ci turba, forse, questa mancanza di consapevolezza che rinvia al sospetto di un pensiero rimasto cieco, aperto, a nostra insaputa, sulla violenza e sulla distruzione.

Tra noi e l’Iraq di queste ore esiste un’inattesa e impossibile alterità, alterità che, paradossalmente, finiamo per ritrovare proprio nella vicenda simbolo del momento, quella dei soldati americani fatti prigionieri. Di uno in particolare, il soldato Jessica Lynch la cui immagine, fragile e spaventata, è stata rimbalzata con clamore e costernazione dai mezzi di informazione di tutto il mondo.

“Ci sono solo cento abitanti, due chiese, un ufficio postale e un negozio di regali. La bianca casa dei Lynch con cornici di legno si trova a poche miglia fuori della città, alla fine di una strada ricoperta di ghiaia. Ha un portico che la circonda da ogni lato ed è li che la famiglia trascorre la maggior parte del tempo”.

Così ci si presenta il luogo dove ha vissuto la ragazza che, di colpo, è diventata l’emblema in cui riconoscere la tenacia e il coraggio che vince ogni difficoltà, la determinazione che permette di affermare se stessi ad ogni prezzo, sino all’estremo sacrificio.

“A Palesatine non c’è molto da fare quando si è giovani. A sedici anni, Jessica Lynch è stata eletta miss Congeniality, miss simpatia, in un concorso di bellezza alla fiera locale, l’evento più eccitante dell’anno per tutto il paese”.

Eccoci restituiti a qualcosa di più noto: il dolore del crescere, del dovere cercare se stessi in condizioni difficili, in un mondo che sembra offrire pochi stimoli e pochi legami.

Un mondo che, spesso, concentra lo sforzo della comunicazione solo in eventi sporadici ed eccezionali, fuor d’opera, feste una tantum, celebrative di un successo e di una creatività, difficili da ritrovare, poi, nella concretezza della vita. Feste che possono allietare lo spazio di un giorno, ma non riescono a consolare l’angoscia delle molte ore aperte su un futuro enigmatico e su un presente spesso privo di rapporti significativi e rassicuranti. Come e cosa diventare in tutto questo?

“Nella Wirt County, dove vivono i Lynch, la disoccupazione si aggira intorno al 15%. Greg, il corpulento e barbuto padre di Jessica, è un camionista indipendente e ammette di essere stato felice quando la figlia decise di arruolarsi. L’esercito poteva offrirle quello che voleva”.

Cosa diventare, in particolare, se gli adulti, il proprio stesso padre, non annettono valore alla vita che vivono, la riducono a pochi spazi artefatti ed intermittenti, soffocati dalla fatica estenuante, solitaria e senza rimedio del compitare il giorno per giorno. Nessun sogno sembra sopravvivere nelle case bianche con la cornice di legno; sotto il portico, trova posto solo la rassegnazione, il peso di un compromesso schiacciante, la scura condanna del fallimento.

L’esercito poteva offrirle quello che voleva: la realizzazione di sé definitivamente abdica alla realtà, a favore di un altro mondo scandito dall’illimitato dispiegarsi del desiderio.

Un altro mondo, per sempre lontano dalla propria storia e dalla personale memoria, mondo da raggiungere e nel quale essere ricreati.

Del resto, è questo un effettivo aspetto dell’eroe che non appartiene più interamente alla stirpe umana, ai suoi limiti e alla sua angosciante miseria, ma che sembra, grazie al suo valore, essere diventato altro, essersi fatti simile agli dei immortali.

“Jessica non si era mai mossa dalla West Virginia e così descrive in una lettera il suo stupore: solo nel 2003 sono stata in Messico, in Germania e in Kuwait, sono stata in posti che la metà degli abitanti della Wirt County non vedrà mai”.

Un riscatto magico e inebriante che spazza via, di colpo, il peso di troppe mancanze. Un’amica ricorda Jessica nel giorno del suo diciottesimo compleanno e racconta come, al ballo, lei avesse indossato, per scherzo, sotto il vestito da sera, un paio di stivali militari. Tra i ragazzi era popolare – aggiunge l’amica – ma non aveva molti boy friend.

L’immagine ci colpisce, indoviniamo la fatica di un’adolescente alle prese con la difficile conquista della sua identità, riconosciamo l’incertezza e il dolore per l’inevitabile rinuncia a rimanere bambini per sempre, senza responsabilità precise, nemmeno quella del proprio sesso. Ricordiamo il terrore dei primi legami affettivi, la paura incontrollabile di essere feriti a morte da un rifiuto, limitati per sempre nella propria capacità di amare. Una potente illusione ottica, per un attimo, quasi trasforma gli anfibi incernierati, che occhieggiano sotto il frusciare della seta, negli stivali delle sette leghe che fanno fuggire, con prodigiosi balzi leggeri, lontano, molto lontano davvero, da un qui ed ora scomodo e doloroso.

Lontano da una condizione fatta di domande ancora senza risposta, di realtà immaginate ed attese da una speranza che, nonostante l’assenza del presente, è costretta alla fatica di non rinunciare alla visione del compimento.

Temiamo per noi: forse anche noi potremmo essere visti da una Jessica adolescente alla luce delle mille rese quotidiane, delle infinite rinunce, della stanca noncuranza che ci spinge a rimandare al domani, se non ad un altro mondo, l’impegno per tenere in vita i nostri legami e i nostri sogni. Forse anche noi, come gli abitanti di Palestine, offriamo a noi stessi e agli altri un mondo troppo arido e frammentato perché in esso sia possibile il miracolo fecondo di una vita.

Forse anche noi, senza saperlo, segrete ed infinite volte indossiamo gli stivali delle sette leghe e ci allontaniamo, con la rapida violenza dell’uragano, dalla richiesta di dedizione che ci viene da chi ci sta accanto. Ci abbandoniamo, in apparenza finalmente liberi da ogni vincolo e da ogni ansia, ad un sogno d’oriente dove ogni perfezione è possibile. Spesso è solo un sogno ad occhi aperti, quasi atto di artificiale consolazione, ma Jessica ne smaschera l’aspetto di rinuncia quando lo rende oggetto di un agire reale. E in questa drammatizzazione di una fantasia onnipotente, può essere stata sorretta proprio dalla natura della comunicazione dei nostri tempi: le immagini sullo schermo sembrano non esaurirsi in quell’episodio o in quella vicenda ma, come a teatro, fare semplicemente parte di un copione che può essere riproposto infinite volte. Come a teatro, non ha più importanza il fatto specifico, ma il significato emotivo rappresentato, dove avvenimenti ed immagini finiscono per legarsi prevalentemente ai contenuti del nostro mondo interno, piuttosto che ai fatti della storia, da cui, pure, provengono.

Indoviniamo la sotterranea e incontrollata, convinzione di una realtà che possiamo confezionare a nostro piacimento, senza riconoscere in essa altro oltre quello che desideriamo. Della guerra, così, può restare solo la gloria e la vittoria, non la sofferenza, il sangue, la morte.

Per questo non ci stupiamo quando, nell’articolo, leggiamo che Hollywood già è alla ricerca della protagonista che impersonerà il piccolo soldato americano nel suo luminoso copione: la verità non è in ciò che accade, ma nella riconfezione che noi ne operiamo.

Improvvisamente, proviamo pietà per la piccola Jessica, con i suoi occhi spaventati, che ha scoperto, forse troppo traumaticamente, quanto può essere diversa dalle attese di riscatto e di affermazione la Bagdad reale, crocifissa dall’orrore di mille morti.

E la medesima pietà ricade anche su noi stessi, per ogni volta che la rinuncia ci restituisce un dolore ancora più violento e devastante, pervasivo ed incomprensibile, quel dolore da cui siamo fuggiti con furia, alla ricerca di un esotico oblio.

Senza conseguenze

La notizia
Violenze: sette anni al baby sitter. Sette anni e mezzo di carcere. Questa la dura condanna inflitta ieri dal giudice Andrea Beconi a Luciano T., 44 anni. Il pm Giovanni Arena aveva chiesto otto anni. L’uomo doveva rispondere di un reato infamante: violenza sessuale ai danni di Saverio L.S. un bambino di sette anni, che gli veniva saltuariamente affidato dai genitori, fuori casa per motivi di lavoro. L’imputato rischiava 12 anni di prigione: gli è andata se vogliamo bene, perché il suo difensore, avvocato Andrea Martini, è riuscito a concedere le attenuanti generiche. I genitori della piccola vittima si erano costituiti parte civile, assistiti dagli avvocati Giuseppe Maria Gallo e Paolo Scovazzi. Luciano T. ha sempre respinto l’addebito, ma ieri ha preferito disertare l’aula. Per il suo turpe comportamento ha scontato appena sette mesi di reclusione: si dà comunque per scontato che se la sentenza diventerà definitiva ritornerà definitivamente a Marassi, quanto meno per qualche anno. Baby sitter d’eccezione, perché i coniugi L.S. – titolari di un esercizio nella zona di Marassi- avevano fiducia in Luciano T., tanto che spesso gli davano ospitalità anche di notte. Una fiducia mal riposta, però, perché l’uomo ne approfittò in maniera ignobile. Abusò infatti del bambino per mesi, dal luglio del Duemila al gennaio dell’anno successivo. Fu la colf della famiglia a scoprire che il turpe individuo compiva - talvolta costringendolo e persino minacciandolo - atti innominabili (per fortuna senza conseguenze irreparabili) sul bambino. Di giorno e di notte. Saverio, pur traumatizzato, confermò ogni cosa, senza mai contraddirsi: prima ai genitori, quindi alla polizia e infine a due psicologi. Nel gennaio 2001 Luciano T. entrò a Marassi, per uscirne però sette mesi dopo. (ViC.)
>La Repubblica, 28 marzo 2003

Eraldo Walter Machet Il commento
[…] per fortuna senza conseguenze irreparabili. E’ proprio questa frasetta messa lì come inciso, fra parentesi, che mi ha suscitato il bisogno di andare oltre all’immediato vissuto di costernazione provocato dalla notizia di questo fatto. In tal senso l’approccio psicoanalitico può essere utile per varie ragioni: anzitutto perché tende a non interpretare i fatti nella loro immediatezza. Questa immediatezza corre il rischio di portare con sé il germe del preconcetto e dell’ideologia codificata, atteggiamenti questi che impediscono di entrare in contatto con il significato più intimo e più proprio di ciò che è avvenuto. Inoltre, tale approccio permette di giungere ad una comprensione più meditata e più profonda, anche se più dolorosa, dell’accaduto. Solo così si può evitare la tentazione di semplificare una realtà mentale che si rivela sempre molto complessa e profondamente densa di significati. I sogni dei nostri pazienti, i sintomi che essi portano (fisici e/o psichici), le difese che attivano, la disperazione che provano di fronte al ricordo dell’abuso: tutto questo ci permette di cogliere e di conoscere quello che può essere rimasto permanentemente nell’interiorità di una persona che ha subito tali violenze.

Parlare della seduzione nell’infanzia significa fare immediatamente riferimento a quella interazione emotiva che si instaura tra adulto e bambino sino dai suoi primi istanti di vita. Il neonato, sia per la conformazione fisica che per il tipo di segnali che invia, ha un comportamento naturalmente seduttivo che gli consente di compensare la sua fragilità e la sua vulnerabilità e quindi, in definitiva, di sopravvivere. Questa “seduttività” attiva, a sua volta, risposte “seduttive” ed accoglienti: gli adulti si rivolgono al piccolo con tenerezza, con gesti affettuosi; egli viene cullato, dondolato, stretto al seno, insomma, viene curato e protetto. La holding - direbbe Winnicott - la capacità, cioè, della buona madre di contenere e sostenere il figlio è, in fondo, come già osservava Freud, una forma primaria di seduzione che, nel suo aspetto positivo, risulta fondamentale, per la determinazione della qualità della vita futura del bambino. Sia per la sua capacità di porsi nel rapporto con gli altri e con il mondo e sia per la capacità di lasciarsi sedurre dalla curiosità per le cose che lo circondano. La seduzione primaria, sempre mantenendo il riferimento a Freud, può assumere, però, anche aspetti invasivi, incontrollati, addirittura traumatici. In questo caso l’atteggiamento che nel futuro il bambino avrà nei confronti degli altri e della realtà in genere sarà dominato da una difensiva chiusura in sé, dal sospetto e dalla paura. Ma che cosa succede nella mente del bambino che subisce l’abuso sessuale? Il bambino, a motivo della sua immaturità fisiologica e psicologica, è incapace di integrare tale esperienza nella sua mente e, proprio per questo, l’esperienza stessa assume le caratteristiche del trauma.

Nel rapporto tra adulto e bambino, in quel tipo di interazione amorosa, si giunge a quella che Ferenczi con profonda acutezza, ha definito “confusione delle lingue”. L’adulto introduce nel linguaggio della tenerezza del bambino il proprio linguaggio della passione, sostituendo “al ruolo materno”, che il bambino aspetta e chiede, quello del desiderio sessuale. A questo fraintendimento primario della comunicazione, a tale anomalo comportamento dell’adulto, il bambino non può che rispondere sviluppando paura ed angoscia, ma anche adeguandosi alle richieste dell’adulto, per timore della sua stessa sopravvivenza affettiva, se non addirittura fisica. Egli piccolo ha bisogno, infatti, di adulti che lo aiutino a diventare grande, a sviluppare quelle funzioni mentali che ancora non possiede e che pure sono indispensabili alla vita. Ha bisogno di qualcuno di cui fidarsi e che lo sorregga, qualcuno da amare ed accettare. In questo caso, però, l’accettazione comporta l’identificazione, il fare proprie le richieste che giungono dal mondo adulto. Assolvendo a quelle richieste, il bambino consegna il suo corpo ad altri. Il suo stesso corpo in effetti gli viene alienato e cessa di appartenergli. L’alienazione del corpo e, con esso, della sessualità accade in ragione di un vissuto passivo, concepito unicamente per compiacere l’altro, per rendersi sicuri del suo amore, all’interno di una frattura che separa sempre più profondamente affettività e sessualità. Tale alienazione o “assenza” del corpo con cui si è tentato, in qualche modo, di tamponare gli effetti dell’aggressione subita, appare evidente soprattutto nell’esperienza di molte persone che portano in analisi il loro subire passivamente, o il loro agire in modo scisso, la sessualità, senza mai viverla pienamente. In loro continua quell’assenza, assediata, in alcuni casi, dal ricordo di eventi passati, ora presenti, però, come semplici fatti, isolati dalle emozioni un tempo provate.

Ma ciò che sto chiamando alienazione del corpo non è l’unica cosa che accade. Infatti, fare proprie le richieste che giungono dal mondo adulto, unico modo, si diceva, per salvare la sopravvivenza psicologica, comporta per il bambino la necessità di procedere anche ad una alterazione dell’Io. Ferenczi, nei suoi studi, espone dettagliatamente i motivi per i quali si altererebbe lo sviluppo dell’Io: la genitalità del bambino non ha ancora superato lo stadio dei “toccamenti innocenti, privi di passione”, che già l’atto seduttivo devia il suo desiderio fino a fargli assumere un ruolo che non gli appartiene, lo conduce altrove, lo confonde circa la verità della sua maturazione biologica, psicologica ed affettiva. Più precisamente, nel contesto dell’abuso sessuale, al corpo, come alla psiche, è chiesto con autorità (l’autorità dell’adulto) di essere quello che ancora non è: individuo maturo e definito che come tale si comporta. La richiesta di inventarsi una impossibile realtà adulta produce nel bambino intensi vissuti di inadeguatezza e di impotenza. Alla fine, pressato da una esigenza che non può non esaudire, egli può cercare di crearsi artificiosamente una personalità molto lontana da ciò che effettivamente sente di essere in quel preciso momento, può dare vita a quello che Winnicott definisce “Falso Sé”. E per mantenere a tale falso sé una qualche consistenza è per lui necessario cominciare a dubitare delle personali percezioni, percezioni che continuano a testimoniargli come lui sia ancora piccolo e bisognoso di crescere. Non solo: quelle stesse sensazioni gli portano, magari, sentimenti di rabbia e di aggressività nei confronti dell’adulto. Sono emozioni che lo impauriscono e lo spaventano. Lui solo, tra tutti i suoi amici, sente un non confessabile odio nei confronti di coloro che più dovrebbero accudirlo. Si sente diverso, sbagliato e in pericolo: la sua “cattiveria” può farlo rimanere da solo per sempre. Anche in questo caso l’unica soluzione possibile sembra quella di non sentire più i sentimenti effettivamente esperiti, cercando di sostituirli con altri apparentemente più appropriati. Per diversa strada, è ancora la soluzione del “falso sé” che si presenta come l’unica attuabile.

Melanie Klein ci ricorda, ancora, come nel normale processo evolutivo, il bambino necessariamente investe le figure genitoriale, come degli adulti che di lui si occupano, di sentimenti contrastanti: l’odio e la rabbia, di cui inevitabilmente fa esperienza già nei primi mesi di vita, vengono scissi e proiettati su tali figure, che si trasformano così in mostri provvisori, per poter essere poi riabilitati dalla fantasia del bambino, e ancora investiti dalla proiezione del suo amore e del suo desiderio. Lo spazio immaginativo si popola, allora, di figure capaci di riversare, alternativamente, amore e odio sul bambino: ma è ben diversa una costruzione immaginaria dell’adulto come mostro, da un adulto che fa qualcosa di davvero mostruoso. Di fronte al peso della realtà, il teatro immaginario del bambino, nel quale si svolgono e continuamente si alternano fantasie appaganti e mostruose, si incrina e si frantuma. Quell’adulto davvero seduttivo, davvero violento, ha invaso l’immaginario e vi ha lasciato il segno. Quello che poteva essere un normale desiderio affettivo verso quella figura genitoriale non ha più uno spazio nel suo mondo mentale. Nel momento in cui il bambino subisce realmente le attenzioni moleste dell’adulto, la fantasia diventa una realtà di fatto schiacciante, capace di soffocare ed inibire la sua funzione immaginativa e simbolica. Il reale invade lo spazio del sogno. .L’effetto provocato è quello dell’irruzione improvvisa di uno squadrone di polizia nella propria casa, nel cuore della notte: fa sentire confusi, smarriti, terrorizzati. Paralizzato nella sua capacità di immaginare infinite possibili soluzioni creative, il bambino rimane inchiodato all’unica, irrimediabile realtà: quella dell’oggettiva violenza subita. Il fatto è lì, nella sua feroce concretezza, il bambino smette di essere un soggetto che sogna, immagina, si arrabbia, desidera. Anche se la sua vita procederà oltre, qualcosa si è arrestato proprio lì, nel fatto. Quel fatto che si può persino credere senza conseguenze.

Il bambino, infine, può anche tentare di sottrarsi all’esperienza traumatica “rifugiandosi in sogni ad occhi aperti”, assolvendo come un automa, i compiti che gli sono richiesti. E’ in questi tentativi che si incrina la sua capacità di distinguere fra vero e falso, tra bene e male, tra giusto e ingiusto e, soprattutto, fra desiderabile e indesiderabile. E siccome la seduzione è violenta e si accompagna ad altre violenze, si suggerisce al bambino uno stretto legame tra sessualità e violenza. Quella che dovrebbe essere una forma d’amore diventa così una forma di odio, di disprezzo, esattamente il contrario di ciò che etimologicamente suggerisce il termine pedofilia, amore per i bambini.