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Una cellula al giorno... toglie il medico di torno

La notizia
''Da bambino avevo un sogno...''
E così tra vent'anni un detector batterà il tumore.
La Repubblica, 18 novembre 2002

Maurizio Lo Faro Il commento
Tutti noi […] tra una decina d'anni, al massimo una ventina potremo passare sotto una specie di detector, una sofisticata macchina diagnostica in grado di rilevare nel nostro organismo tumori di una sola cellula. Quindi passare dall'oncologo che neutralizzerà questa cellula e toglierà ogni rischio. Potremo dire agli amici: "Che seccatura, mi hanno trovato un tumore e devo rimandare la vacanza di un giorno o due".

Alla lettura di queste righe un'immagine prende forma nella nostra mente: quella di una parte infinitamente piccola - una cellula - che rea di essere cresciuta in modo abnorme viene scovata da un apparecchio molto più grande di lei - un detector - per poi essere neutralizzata.

L'ammalato (ma lo si potrà chiamare ancora cosi?), riterrà tutto ciò un semplice disturbo, un insetto da schiacciare e poi da dimenticare al sole dei tropici a tra le nevi di alte vette. Da quel momento tutto quello che è avvenuto in lui non lo riguarderà più.

Se questo da un lato, per certi versi può essere auspicabile, dall'altro sembra negare all'essere umano un'interezza veicolo di una dimensione emotiva che, molto spesso, è una delle cause principali del cancro.

La capacità razionale dell'uomo, sembra quindi ingigantirsi a dismisura assumendo le vesti di una macchina che riduce a dimensioni sempre più infinitesimali, quando non lo nega, l'urlo di dolore dell'essere umano ferito e sofferente.

Infatti, molte evidenze cliniche mostrano che le persone che si ammalano di tumore o di altre malattie gravi hanno avuto un periodo precedente, che va dai sei mesi a un anno e mezzo, esperienze di stress, implicanti gravi perdite affettive. Queste hanno determinato in loro una sensazione intima di disperazione senza via di uscita, la sensazione che la vita stessa sia vissuta come intrappolante.

Allora, il tumore rimanda sul piano simbolico al sentire la vita come un contenitore incarcerante dal quale non si può uscire, un progetto di morte, una via di uscita da una vita sentita come intollerabile: il soggetto ammalato può esprimere così la difficoltà ad amare e ad essere amato e la perdita della speranza che un giorno questo possa avvenire.

La realizzazione di una tale perdita della speranza e di una tale progetto di morte, cioè il cancro, può affacciarsi al soggetto come evidenza drammatica, attraverso il quale diventa consapevole del proprio desiderio autodistruttivo. Nel momento in cui non agisce più nella silenziosità dell'organismo, come un ladro di notte, ma si mostra nei suoi effetti di catastrofe, l'evento cancro può annientare ma può anche provocare un risveglio liberatore, come avviene quando ci svegliamo da un incubo. Esso è allora vissuto dalla coscienza come un segnale doloroso che porta il soggetto a svegliarsi per distaccarsi dal suo progetto autodistruttivo. Chi è colpito dal cancro si trova quindi in una situazione di grande pena perché si sente come catturato in un circolo vizioso: da una parte si sente bambino impotente, vuole reagire ma è trattenuto dal fatto che il tradimento mortale è stato messo in atto dal proprio stesso corpo, dal cui buon funzionamento dipende la vita.

Si può forse comprendere, allora, come l'incontrarsi con una malattia grave possa mettere in moto un nuovo programma di vita. L'istituzione terapeutica può costituire quindi un punto cruciale per la ristrutturazione di una speranza. Se una persona adulta non si sente in grado di amare e di essere amata si chiude in sé e perde sempre più la possibilità e il diritto di esserlo. Se, però, si ammala, è come ritornasse bambino e riacquistasse il diritto che gli altri si occupino di lui, così la malattia può diventare anche strumento d'amore.

Compito primario del medico, quindi, è quello di servirsi delle cure non solo per attaccare il male ma anche per far rinascere dentro il paziente la speranza che l'amore è possibile.

Il rischio della medicina moderna nel momento in cui diventa tecnologicamente più sofisticata è quello di non tener conto del vissuto emotivo del paziente. Essa dotandosi di "armi" sempre più efficaci dal punto di vista terapeutico si avvicina ad un'organizzazione militare lasciando da parte ciò che può essere il vissuto emotivo di un essere umano visto nella sua interezza. Spesso il male, nell'opinione comune, è visto come una minaccia esterna: è una tipica operazione dell'animo umano: offre il vantaggio di rendere la difesa più facile, in quanto è più agevole difendersi da un nemico esterno che non da un nemico interno a noi. Molte ricerche sul tumore si sono orientate sulle cause esterne trascurando in tal modo i fattori interni: le e mozioni e gli affetti. Non si vuole con questo negare l'importanza dei fattori patogeni esterni, ma essi sembrano spesso cause necessarie ma non sufficienti alla nascita e allo sviluppo di una malattia.

Compito del medico può essere, allora, quello di accogliere il disagio emotivo e la sofferenza del paziente, senza negarla ma riconoscendone la valenza più profonda, aiutando così il malato a poterla esprimere in maniera più consapevole, più simbolica. Aiutare, in ultima analisi, l'ammalato, a formare un proprio linguaggio emotivo, la cui assenza aveva portato il dolore a prendere la via del corpo e di una possibile malattia fisica.

Come per magia...

La notizia
In occasione della Conferenza Scientifica Internazionale (Roma, 9 novembre 2002), svoltasi nel quadro degli incontri dedicati alla ricerca e alla relativa informazione, Umberto Eco è intervenuto con "La percezione della scienza da parte dell'opinione pubblica e dei media", pubblicato da La Repubblica. Eco rintraccia in molte espressioni della vita odierna una certa confusione tra il percorso lento e faticoso della scienza e l'esigenza del "tutto e subito" della tecnologia. Il desiderio della simultaneità tra causa ed effetto, peculiare della magia, si è trasferito alla tecnologia che ci occulta la catena dei procedimenti necessari ad ottenere un determinato risultato. Lo scienziato di fronte alla pressante domanda di promesse miracolose da parte dei mass media dovrebbe preoccuparsi di una divulgazione illuminata, che miri a costruire, pazientemente, un'immagine non magica della scienza nella coscienza collettiva.
La Repubblica, 10 novembre 2002

Mariella Torasso Il commento
Indubbiamente una società come la nostra, che vive al limite del maniacale e che ha pochi spazi di ascolto e di riflessione, è attenta ad un "sempre di più", un "sempre meglio", un "sempre più efficiente" che dilatano all'inverosimile la tensione al superamento.

La stanchezza di un anelito incessante che non sa posarsi e centellinare il piacere - seppure discreto - del presente, cerca nella magia del "cortocircuito sempre trionfante tra la causa presunta e l'effetto sperato" una conferma all'ansia irrinunciabile dell'andare oltre.

Nella storia dell'uomo magia ha innanzitutto rappresentato un tentativo di identificarsi con le forze inconsce per dominarle meglio: spiriti o poteri proiettati su esseri viventi od oggetti non erano altro - allora come adesso - che contenuti psichici con cui la coscienza non aveva ancora imparato a fare i conti.

Il bisogno di magia che convince l'uomo odierno ad ignorare la dimensione propria della scienza è esperienza di tutti i giorni che occhieggia dalle proposte massmediatiche, dalla sempre maggiore incapacità di tollerare la frustrazione e di posticipare la soddisfazione, dalle relazioni superficiali che spesso sostanziano la nostra vita "di corsa". Possiamo, con ben poca soddisfazione - muovendo un solo dito per premere un pulsante - velocizzare le operazioni e dimostrare di poter animare e dominare un televisore, un cancello, un ascensore, una lavatrice, ma con altrettanta indifferenza possiamo rinunciare alla fatica di dialogare con chi è seduto accanto a noi sul treno, per intrattenere al cellulare conversazioni rassicuranti secondo un copione consumato.

L'efficienza della tecnologia è comunque senz'anima e l'uomo che vi si affida senza riserve finisce inevitabilmente per ritrovarsi nella condizione di quei protagonisti di fiabe che sono alle prese con la formulazione di desideri. Sollecitati dal personaggio magico di turno ad esprimere un numero finito di desideri, invariabilmente non sanno contenere la spinta a volere ancora sempre e stoltamente, di propria mano, azzerano i benefici precedentemente raggiunti.

Dalle pagine de L'espresso di questa settimana, in un'intervista, il filosofo francese Paul Virilio rilancia il tema della caduta, dell'incidente, connaturati con la velocità e il progresso. E' proprio l'aspetto "depressivo" che l'uomo moderno non vuole contemplare e che rientra inaspettatamente nella storia facendo lo sgambetto all'efficienza di una tecnologia che vorrebbe essere numinosa.

Del resto Jung, oltre alla pratica magica "difensiva", legata alla necessità di allontanare la paura, individuava un aspetto trasformativo della magia stessa. Alla seduzione della "bacchetta magica" (o del telecomando…universale, che "apre" ad ogni possibilità) si può contrapporre una funzione trasformativa della conoscenza, che attraverso il processo di simbolizzazione, non solo rende possibili i significati dell'esistente, ma ne crea continuamente di nuovi. Secondo tale prospettiva la magia da elemento di disordine può diventare mezzo di sperimentazione diretta dei poteri e delle risorse dell'inconscio.

Il riconoscimento dell'inconscio ha reso possibile, pur nella fatica dell'esplorazione operativa, la conoscenza, appunto magica, di un mondo di immagini, di sogni. Non a caso il dizionario etimologico recita: màgo, voce dotta - per Erodoto 'sacerdote persiano che interpreta i sogni'.

Non possiamo però fare a meno di condividere il rammarico espresso da Eco per quanto riguarda la scienza in generale, rilevando che neppure la psicologia è stata risparmiata dall'abbraccio delle aspettative magiche ("difensive", aggiungeremmo noi). E ci dispiace constatare che, secondo quanto emerge dall'interessante analisi esposta da Blandino (Il "parere" dello psicologo. La psicologia nei mass media, Cortina, 2000), stampa e programmi radiotelevisivi ci rimandano, traendola dal pensiero comune, l'immagine confusa e riduttiva di una psicologia banalizzata in una modalità adattativa piuttosto che trasformativa.

Il teatro del terrore

La notizia
''Non usate il gas, state uccidendo anche noi'', nel ''diario'' dei superstiti i tre giorni di terrore: quando ci hanno preso pensavamo a uno scherzo del regista. Questa è la testimonianza eccezionale in presa diretta dei minuti della battaglia dentro il teatro. Mentre le teste di cuoio andavano all'assalto, Natalia e Anya hanno chiamato la radio Eco di Mosca con il cellulare per raccontare il loro terrore e chiedere aiuto.
Corriere della Sera, 27 ottobre 2002

Natalia Magnoni Oliva Il commento
Il teatro del terrore

Mi chiamo Felice e sono uno dei tanti bambini russi portati a teatro, magari per la prima volta, ad assistere ad un musical, era il 23 ottobre '02, un mercoledì che non potrò mai più dimenticare…si, c'era stato un film ''un mercoledì da leoni'', ma nel teatro non c'erano leoni ma solo serpenti velenosi che mi hanno ghiacciato il sangue e la mente. Credevo fosse una messa in scena quando dei terroristi con tute mimetiche escono sul palcoscenico e sparano e urlano e ci dichiarano ostaggi, noi spettatori e anche tutti gli attori.

''I combattenti ceceni sono venuti a Mosca per morire e non per sopravvivere'' ha urlato sul palco il capo del commando, e io non capivo ancora, io e tutto il pubblico credevamo fosse lo spettacolo!

Non sapevo che, nel giro di brevi istanti, sarei stato costretto ad abbandonare questo mio nome senza più senso ed ad entrare violentemente in un mondo adulto non mio che mi fa paura e che promette solo violenza. Così, in una sera di un mercoledì, ho perso di colpo tutta la mia infanzia ed ora sono un grande nei panni di un bambino che non si ritrova più, violato nella sua innocenza.

Ho cambiato nome, mi chiamo ora Tristano, e mi tormento aggirandomi ramingo in un vuoto senza senso, anestetizzato da un gas mortale.Sono troppo piccolo per rilasciare interviste, i giornalisti non si interessano a me, loro mi vedono ancora come un bambino, ma io ho perso tutta la mia spensieratezza, mi sento vecchio, spento, disperato.

Non potrò mai più dimenticare come, in un istante, il palcoscenico si sia trasformato in teatro dell'orrore, e il musical in sinfonia di morte.

La guerriglia cecena ha compiuto un attacco senza precedenti contro la Russia utilizzando un commando in ''missione suicida''.

È stata una situazione talmente paradossale che sembrava una fiction.
Si fa sempre più sottile la linea di demarcazione fra simulazione e realtà e quelli che fino all'11 settembre potevano essere solo best sellers di fantapolitica, si trasformano in tragici ed incredibili vissuti quotidiani.

Ed in questa reale vicenda che ha fatto diventare un tranquillo mercoledì a teatro, l'incubo peggiore per tutti noi, perché, se mai ne avessimo bisogno, abbiamo avuto la conferma che dovremo vivere e convivere in una situazione di perenne insicurezza in cui non vi è luogo che possa proteggerci da attacchi terroristici o di singole follie umane.

Ma quale potrà essere la qualità della nostra vita e quale specialmente quella dei nostri figli che si affacciano ora al mondo adulto e che non possono più trovare un valore in cui credere, attorniati solo da violenza.

Respireranno questa violenza e ne saranno permeati come da quel gas venefico che ha invaso il teatro di Mosca.

E questo giallo sul gas, dove il Cremlino non dice cosa sia, anzi, isola i superstiti trasformandoli in qualche modo da ostaggi dei ceceni ad ostaggi del governo, tutto questo lascia ancora più perplessi dello stesso attacco terroristico.

Quando il seme della violenza si impianta, dilaga poi in ogni direzione, senza scampo.

Ma come è possibile che qualcuno abbia avuto il tempo di usare il cellulare da dentro il teatro durante l'operazione delle teste di cuoio e invece i guerriglieri, che sappiamo votati alla morte, non siano riusciti a farsi saltare in aria? Cosa è successo in quel teatro dell'orrore che non sapremo mai?

Siamo pronti a convivere con un terrorismo generalizzato che si espande imitativamente a macchia d'olio?

Quale gas è stato usato? Probabilmente un gas nuovo, si sa infatti che, da anni, Russia, Stati Uniti e Gran Bretagna fanno esperimenti per mettere a punto un gas più veloce nel neutralizzare l'obbiettivo. Qui si apre il dibattito sulle armi chimiche e batteriologiche perché probabilmente, violando i trattati internazionali, stanno portando avanti sperimentazioni su gas pericolosi. Si sta sviluppando una nuova generazione di armi.

Ma come si può assistere a questa disgregazione di valori umani senza restare intrappolati in meccanismi di difesa altrettanto distruttivi quale la negazione che porta poi alla totale desertificazione psichica, truccata da cinismo, oppure, all'opposto, la paranoia che fa vivere terrorizzati da tutto e da tutti?

Il periodo storico che stiamo vivendo richiede un equilibrio psichico molto solido ed oggi invece ne siamo particolarmente carenti, per anni abbiamo enfatizzato gli eccessi e gli estremismi ed in qualche modo ne stiamo raccogliendo i frutti.

Potremmo allora ipotizzare il teatro dell'orrore come metafora di vita: ogni essere umano fa i conti con i propri sabotatori interni.

Nella ricerca di una illusoria risoluzione dei conflitti intrapsichici, non ci sono i mezzi per comprendere il significato se si rompono le comunicazioni fra gli oggetti interni; il ventre buono della madre si trasforma allora in un luogo mortifero, la balena - squalo di Pinocchio tiene intrappolati nel suo ventre, il teatro di Mosca si trasforma in una allucinante trappola mortale.

Viene in mente, a livello psicoanalitico, il ''claustrum'' di Donald Meltzer come studio dei fenomeni claustrofobici.

Se si va al di là del semplice ''dover procedere, come ragione di stato'', si scopre l'incapacità di tornare indietro, in un luogo che permetta ancora una qualche forma di comunicazione che possa impedire la reiterazione di delitti assurdi, quali ne siano le parti in gioco.

Assistiamo a slogan stereotipati riuniti sotto l'intestazione di ''necessità politica''.Il passaggio dall'avere coraggiosamente fronteggiato il pericolo all'avere coscientemente sacrificato troppi innocenti con il gas killer, si fa via, via, con il passare delle ore sempre più evidente.

Il teatro dell'orrore: luogo di liberazione o di delitti indiscriminati?

L'atmosfera dominante è di trauma e inganno da entrambe le parti.

La '' madre Russia'' dimostra che è pronta a pagare con la vita dei suoi figli, pur di mantenere le sue posizioni di forza; ed ecco che il teatro - ventre si trasforma in un ventre abortivo e ingannevole: i più deboli saranno sacrificati.

L'interno del teatro sta allora a rappresentare l'aspetto della femminilità perversa che non sa contenere, dove non ci sono spazi per pensare, ma solo per agire in un intreccio di equivoci mortali. La femminilità del ventre - teatro, spazio di accoglimento, si trasforma in un ventre espulsivo.

Possiamo leggere questo dramma come la storia di un'unica mente che, non più in grado di tollerare al suo interno elementi conflittuali, si scinde in parti rigide sempre più incapaci, nell'incalzare degli avvenimenti, di trovare un punto di comunicazione.

D'altronde il significato dell'attacco alla femminilità - teatro suppone un profondo dolore intimo di un popolo che ha perso la propria identità e, non trovando ''parole per dirlo'' esprime la sua morte interna con azioni di morte esterna .

È la devastazione dell'anima in scena al teatro, dove ostaggi e guerriglieri diventano, nel freddo silenzio dell'atrocità soffocata, fratelli di morte. Quel teatro ha rappresentato molto bene l'inferno, come condizione interna, insita nella mente umana e sempre in agguato.

Avere gli strumenti mentali per elaborare un capovolgimento epocale e prendere atto, con umiltà, che la nostra società è sull'orlo del tracollo se non corriamo ai ripari, può forse aiutarci a fare, ciascuno di noi, nel proprio piccolo, un esame di coscienza che permetta di metterci in discussione, per ricominciare a pensare ad un futuro senza la pretesa di controllarlo.

Le barriere fra ''l'interno malato'' e ''l'esterno portatore di salvezza'', sono state rase al suolo, la parete del teatro è stata fatta saltare e, attraverso quella ''paralisi mentale'' si è espresso il teatro del non senso.

Il silenzio mortale delle vedove nere, sprofondate in un sonno senza ritorno, immagini senza tempo che dormono la loro morte, espone tutto il loro odio disperato e ostenta i loro ''ventri al tritolo''. Il ventre materno, luogo di concepimento e di accoglienza, si trasforma in un luogo non - luogo, dove si sceglie di annientarsi.

Da questa rappresentazione scenica dell'ultimo atto della follia umana, forse potremmo cogliere la pericolosità distruttiva dei pensieri rigidi e delle ideologie stereotipate siano esse politiche o religiose.

La svalutazione dei concetti di libertà e di creatività offre infatti il fianco alla manipolazione politico - religiosa, da qualsiasi estremismo provenga.

Il terzo millennio ha partorito, dal suo ventre dinamitardo, il regno del terrore. In queste condizioni conformismo e conservatorismo possono offrirsi come ancore di illusoria sicurezza, ma minano, dall'interno, la capacità creativa e trasformano la routine in rigidi rituali. Si offre così il fianco a fanatismi politici e religiosi dove pensieri suicidi e distruttivi prendono campo e vanno a costituire una situazione claustrofobica .

Ero un bambino e mi chiamavo Felice, oggi mi chiamo Tristano e sono già vecchio.

Sacerdoti e soldati

La notizia
"Sacerdozio vietato agli omosex arriva il diktat del Vaticano". Il divieto previsto nella nuova Istruzione dopo lo scandalo pedofilia della Chiesa cattolica negli USA.
La Repubblica, 5 novembre 2002

Il commento
L'articolo pubblicato a pag. 23 è molto interessante, intanto spiega sommariamente quale sia il sistema legislativo della Chiesa. Diversi Dicasteri si sono occupati, nel corso degli ultimi anni di questo problema: la Congregazione per l'Educazione cattolica, la Congregazione del Clero, la Commissione per i Testi legislativi e la Congregazione per la Dottrina della fede.

E poi illustra brevemente il contenuto della nuova direttiva, la cosiddetta Istruzione: il rettore del seminario deve bloccare l'accesso al sacerdozio a chiunque manifesti "tendenze omosessuali", se necessario sarà consentito, e consigliato, il consulto con uno psicologo. Questo perché "l'omosessualità, di per sé, costituisce un rischio per la vita sacerdotale".

Tutto questo quando si imbocca la via canonica al sacerdozio, e cioè nel caso in cui un giovane si ritrovi a frequentare i cosiddetti Seminari Minori dove la sorveglianza e il giudizio del Rettore può realmente attuarsi.

Negli ultimi anni, però, sono sensibilmente aumentate le vocazioni in età adulta e viene a cadere la possibilità di controllo e di formazione delle Autorità preposte. Si prospetta quindi la necessità di ulteriori indagini come ad esempio l'esame del contesto familiare del candidato e, in senso lato, la sua provenienza.

Tutto questo, naturalmente, non è una novità. Anche in passato non era particolarmente accettato che un candidato prete potesse avere delle "tendenze omosessuali", soltanto che - allora - si "consigliava" di riflettere sull'autenticità della vocazione. Ora il divieto è assoluto e tassativo, una Istruzione ha il valore di una Legge che non ammette deroghe.

Non penso che si possa più di tanto criticare un provvedimento di questo genere: la Chiesa ha il diritto di darsi le norme che ritiene più opportune.

Sembra però che questa norma sia di tipo "darwiniano", sia nata, cioè, come conseguenza dei numerosi scandali pedofili che si sono verificati negli Stati Uniti negli ultimi anni e serva, quindi, soprattutto a mantenere in vita la Chiesa stessa.

Dice un esponente ecclesiastico: "L'urgenza del documento viene dagli eventi americani. Negli USA la situazione è infuocata, bisogna placare gli animi, è urgente evitare che prosegua la sistematica campagna di discredito in atto contro il clero cattolico".

I preti, negli USA e anche in Italia, sono spessissimo a contatto - quasi sempre con mansioni educative - con moltissime persone, soprattutto con bambini, e non è assolutamente ammissibile che inclinazioni personali, forse sarebbe meglio dire caratteristiche personali vissute come estremamente problematiche, possano trasformarsi in autentiche tragedie per coloro che subiscono abusi dai quali, qualche volta, è difficile difendersi proprio perché provengono da qualcuno, per definizione, buono.

Bisognerebbe forse vietare anche agli omosessuali laici di avere compiti, ad esempio, educativi?

Ricordo che, qualche mese fa, anche un esponente politico italiano (G. Fini) ha lanciato questa proposta a proposito del personale insegnante in Italia durante una trasmissione televisiva.

Non credo che sia questo un modo per affrontare il problema, forse è un sistema - un trucchetto - per risolverlo definitivamente (?): escludendolo, tagliandolo via, con l'illusione che, come dal dentista, via il dente, via il dolore.

Su Repubblica, a fianco dell'articolo sull'omosessualità vietata c'era anche un piccolo trafiletto che riportava un'altra notizia: "Spagna, sì alle convivenze gay in caserma". Nella Guardia Civil (l'equivalente spagnolo dei Carabinieri italiani) saranno possibili le convivenze fra le coppie di fatto anche se formate da soli uomini.

Forse l'accostamento è voluto, un sorriso per consolarci da giorni e giorni di quotidiani pieni di dolore per i bambini che sono morti in Molise. Penso che si possa riflettere su come due Istituzioni molto diverse fra loro, ma con molte caratteristiche in comune: soltanto maschili, rette da regole molto severe -e poi sono entrambi soldati (con la Cresima si diventa Soldati di Dio)-, decidano di confrontarsi con una questione importante che in qualche modo tocca ciascuno di noi.

Non credo che il provvedimento adottato dalla Guardia Civil sia la soluzione di tutti i mali, è sicuramente un atteggiamento che affronta un problema piuttosto che escluderlo a priori.

La contesa dei figli

La notizia
Scopre che il figlio non è suo e chiede 500 mila Euro di risarcimento. Nell'ambito di una difficile separazione, nella quale ognuno tenta di ottenere l'affidamento del bambino, il marito scopre e ottiene conferma dall'esame del DNA di aver allevato per sei anni un figlio non suo. Ora chiede alla ex moglie i danni per il trauma subito.
Il Secolo XIX, 20 ottobre 2002

Gisella Troglia Il commento
Questo fatto è balzato agli onori della cronaca durante la settimana nella quale alcuni altri avvenimenti, drammatici e cruenti, hanno fatto scaturire una lunga serie di riflessioni sulle coppie e sulla separazione. Si sono letti molti punti di vista sulla crisi del matrimonio, sui rapporti uomo/donna, sull'emancipazione femminile e sulla fragilità maschile, sull'inadeguatezza delle leggi, sulle statistiche delle separazioni e dei divorzi, sulle sentenze di affidamento dei figli che vedono quasi sempre vincitrici le madri, sul ruolo dei padri…

In me, che, come psicoterapeuta, aiuto coppie in crisi o che si stanno separando, questo dibattito ha suscitato un grande senso di stanchezza interiore, per l'impressione che, davvero, non si riesca quasi mai ad uscire dalla logica, naturale ma molto primitiva, del conflitto: conflitto prima di tutto in se stessi, con conseguente rifiuto di aspetti personali che non si riescono a rielaborare; conflitto con gli altri, che scatena la competizione, purtroppo troppo spesso il cemento delle coppie, al posto del tentativo di comunicare e di scambiarsi reciprocamente sensazioni affettive…

Anche nei diversi commenti su questi avvenimenti, emerge spesso questa logica sottintesa, quando si fa pendere l'ago della bilancia o a favore delle donne, oggi autonome e insofferenti del compromesso, o a favore degli uomini, aggrediti dall'emancipazione e divenuti fragili, o quando si privilegia l'applicazione della logica legale, o si dà invece esclusiva importanza alle dinamiche psicologiche…

Effettivamente il funzionamento della nostra mente prevede che in noi si attivino tutte le difese possibili per non soffrire, e uno dei meccanismi è l'espulsione degli elementi portatori di sofferenza, aspetto che sul piano relazionale può a volte trasformarsi nel tentativo di attribuire gli aspetti negativi o la colpa a qualcuno intorno a noi.

E' chiaro quindi che, quando una coppia non funziona, i suoi membri, senza dubbio emotivamente addolorati, disperati, arrabbiati, inneschino questa dinamica, e rifiutino quindi, prima, di scoprire in sé eventuali responsabilità della crisi, e preferiscano, dopo, attribuire ogni colpa all'altro. Ed è ovvio che, se i fatti aiutano a confermare le responsabilità dell'altro, questo atteggiamento si traduca e venga declinato in termini legali, con liti e diatribe nei tribunali, dove si discute su un piano legale ciò che all'inizio esisteva soprattutto sul piano emotivo.

A maggior ragione, penso, ritrovandosi inaspettatamente "non-padre" di un bambino per sei anni accudito ed amato, si presume, come proprio figlio.

Possiamo solo e da molto lontano immaginare lo stupore, la rabbia, il dolore, la confusione emotiva del marito di fronte a questa scoperta, e certo non ci meraviglia che questa coppia sia andata in crisi, data la non chiarezza sulla quale si reggeva con un inganno di tale portata; di conseguenza, non stupisce nemmeno che la contesa per l'affido del figlio fosse già molto avanzata, con la richiesta della moglie presso il Tribunale per i Minori di far decadere la potestà genitoriale del partner accampando motivi di indegnità.

L'episodio riportato dal giornale mi è sembrato significativo come conferma da un lato dei meccanismi con i quali funzioniamo, dall'altro della piega che queste drammatiche questioni emotive possono prendere, quando vengono manifestate e risolte in ambito legale, come se il percorso della sofferenza potesse esaurirsi o attenuarsi una volta espresso in termini legali ed eventualmente economici.

Quasi sempre durante una separazione legale si assiste alla lite della coppia, per un periodo più o meno lungo, proprio sull'affidamento del figlio, in nome di un presunto "interesse" del bambino che, in realtà, è quasi sempre un'idea di copertura di altri motivi, più profondi e complessi, che partono spesso da molto lontano (per esempio, dalle motivazioni che hanno spinto la coppia a mettersi insieme, oppure ognuno dei coniugi a volere questo figlio).

Dato che durante il processo di separazione il ruolo coniugale è evidentemente sottoposto a un grande senso di fallimento, il ruolo genitoriale può uscirne allora trionfante con l'affidamento del bambino, perché ottenerlo vuol dire essere riconosciuto come il genitore buono o comunque migliore, e automaticamente definire l'altro genitore come cattivo o comunque peggiore: l'affidamento assume la funzione di conferma dell'autostima e di definizione del ruolo sociale, funzione che, nel momento della separazione, diventa una difesa dell'inevitabile senso di fallimento, un aiuto a sopportarne la sofferenza.

Contendersi i figli nel momento della separazione diventa un mezzo per affermare la propria validità o il proprio spazio di decisione e di bravura, soprattutto attraverso una definizione di non attendibilità dell'altro come genitore.

Dalle statistiche e dalle analisi compiute dai sociologi, sembra che oggi nella nostra società siano le donne effettivamente quelle più pronte ad affrontare la crisi coniugale, senza temere l'ipotesi di separazione, forse perché investono molto di più, per tradizione e per cultura, sugli aspetti affettivi e sulla famiglia, e paradossalmente sono perciò più pronte a rinunciare quando la coppia non funziona, non sopportano il compromesso, favorite dalla loro emancipazione, più protette nelle vita sociale dall'inserimento nel mondo del lavoro.

Effettivamente, nella mia esperienza ho notato che sono spesso le donne a convincere, o, a volte, quasi a costringere, i loro partners alla consultazione, quando le cose non vanno, al fine di capire il significato della crisi e di prendere una decisione, qualunque essa sia, mentre molti uomini tendono a voler credere che comunque si potrebbe continuare come sempre.

Ho però altrettanto notato quanto la capacità di manipolazione dei sentimenti e delle relazioni sia più attiva nelle madri, sia nei confronti dei figli, sia nel rapporto tra loro e il padre, e quanto questa venga messa al servizio della rivendicazione di una presunta priorità nel rapporto con i figli, per togliere spazi al padre.

E' probabile che dinamiche di questo tipo siano attivate anche nelle famiglie e nelle coppie non in fase di separazione, solo che la cosiddetta normalità della situazione copre i giochi collusivi della coppia stessa; quando l'accordo viene meno, queste dinamiche invece dirompono, con numerose conseguenze, quale, per esempio, quella della esclusione, legalizzata e vissuta, dei padri dalla vita dei figli.

Ma in realtà, più o meno in buona fede, viene sempre fatto un uso dei figli da entrambe le parti, durante la crisi e durante la separazione: sembra che d'un tratto ciascun membro della coppia sia l'unico in grado di capire e di sapere qual è il bene del suo bambino, come deve vivere, quali scelte bisogna fare per lui; ed ognuno sostiene di parlare in nome del "reale interesse" del bambino.

Viene meno così quel dato che solo apparentemente sembra acquisito dal senso comune, che cioè ogni figlio abbia bisogno di entrambe le figure genitoriali, e che, anche in caso di separazione coniugale, egli debba e possa continuare i rapporti già instaurati con ambedue i genitori e con le loro rispettive famiglie, che cioè ogni genitore separato abbia il dovere e il diritto di svolgere comunque il suo ruolo anche dopo la separazione e il divorzio.

Forse non si riflette mai abbastanza sulla significativa importanza di tutte e due le figure genitoriali nello sviluppo psichico del bambino e nel suo equilibrio mentale.

Basti pensare, per esempio, che poter fruire di un rapporto reale e vivo con entrambi i genitori permetterà al bambino quei processi di identificazione e disidentificazione che stanno alla base del proprio senso di identità e della conquista della maturità affettiva ed emotiva.

Avere rapporti poco significativi con un genitore vuol dire per un bambino invalidare o addirittura amputare una parte di sé, reprimere aspetti della sua interiorità; quando un genitore prova a screditare in qualche modo la figura dell'altro genitore, o addirittura a cancellarla, sta contribuendo a invalidare o a cancellare aspetti del Sé del figlio, che ne rimarrà come mutilato in qualche parte della sua mente. (Per questo è necessario sottolineare l'importanza che proprio il genitore che ottiene l'affidamento favorisca e faciliti al massimo ogni opportunità di rapporto dei figli con l'altro genitore).

Non si può allora fare a meno di chiedersi su chi, nell'avvenimento che stiamo commentando, risulta davvero il più traumatizzato, se il padre, ingannato nella sua paternità biologica, o la moglie, scoperta nel suo tradimento, o il figlio, che potrebbe venire a sapere di "valere" 500.000 euro per la persona che ha sempre creduto suo padre…

Ma, forse, ancora una volta, non è questa la logica con la quale ragionare, perché per tutti i personaggi di questa vicenda la posta dei sentimenti in gioco sembra essere molto alta e il bilancio affettivo molto pesante.

Forse, prima o poi, questi genitori sentiranno l'esigenza di deporre le armi, di uscire dalle aule dei tribunali, per cominciare ad affrontare il faticoso cammino che prevede il riconoscimento e il rispetto dell'esigenze dell'altro, in una prospettiva di mediazione, e non più di conflitto, tra i bisogni di tutti, e particolarmente di questo bambino per il quale nessun risarcimento economico potrà mai sostituirsi ai legami affettivi che si sono instaurati in questi sei anni.