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Una giornata particolare: storie di vittime nella cronaca quotidiana

La notizia
''Miss Italia 2002, trionfa la noia…''
''La nuova battaglia di Safiya: 'Lotterò per liberare le donne'''
'' Magdalene: polemiche da Inquisizione''.
La Repubblica, martedì 10 settembre 2002

Giovanna Capello Il commento
Apriamo il quotidiano, cronaca nazionale, pagina 23. Il rito televisivo di fine estate è stato, anche quest'anno, debitamente consumato: tra abbracci e lacrime è nata Miss Italia 2002. Piccola stella, piccolissima meteorite destinata a sfrigolare sugli schermi italiani per un istante - una coroncina da Barbie posata sulle chiome, il festoso assalto delle concorrenti sconfitte ( ma la smembrerebbero a morsi, ne sono certa ), un muro di flash ad immortalare l'inevitabile pianto… e già le luci si spengono, si sono spente. Colpo di grazia: ci penserà, in via definitiva, l'11 settembre - sfortuna vuole, già l'indomani - a completare l'eclissi. Dopo, ad attendere la stellina, un limbo di oscuri contratti pubblicitari, qualche copertina patinata, qualche passaggio nei calvari televisivi domenicali.

Voltiamo pagina, a ritroso, verso le cronache dal mondo, pagina 19. Safiya, la donna nigeriana assolta dalla condanna a morte per lapidazione, è giunta a Roma, dove le è stata conferita dal sindaco la cittadinanza onoraria. Miracolo vivente della globalizzazione: fiaccolate, appelli istituzionali, mobilitazioni di calciatori e attrici hanno contribuito a salvarle la vita. Lei è venuta in Italia per ringraziare, con modi sottomessi come si usa dalle sue parti, e per aiutare la nuova campagna in favore di Amina, un'altra donna nigeriana condannata a morte per aver avuto un figlio da un uomo con cui non è sposata. ''Salvatela'' ha chiesto Safiya in Campidoglio ''io continuerò a pregare per lei''. Magrissima, il viso segnato dalla paura e dalla miseria, Safiya è tenacemente guardata a vista, accudita e protetta dal suo avvocato, come un uccellino caduto dal nido. Da una capanna in un remoto villaggio dello stato di Sokoto, Nigeria, al Colosseo illuminato in suo onore: vacillerebbe chiunque, al suo posto.

Un balzo in avanti, in zona-spettacoli, pagina 44. Mostra del cinema di Venezia. Continuano le polemiche riguardo all'attribuzione del Leone d'oro al film ''Magdalene'' del regista scozzese Peter Mullan. E' ormai cronaca di ieri la levata di scudi, anatemi e minacce di scomunica da parte delle correnti più conservatrici della Chiesa cattolica: il film - ambientato nell'Irlanda degli anni '60 - racconta, infatti, la vita di ragazze e donne ''traviate'', rinnegate dalla propria famiglia, chiuse in conventi intitolati alla peccatrice Maria Maddalena in cui venivano costrette dalle suore a lavorare come lavandaie, senza compenso alcuno. Nessuna invenzione: si trattava di istituti-lager (davvero esistiti dall'inizio del 19° secolo fino al 1996), dove erano negate pietà e comprensione cristiane, dove esistevano solo silenzio, divieti, punizioni corporali, percosse, violenze sessuali, persecuzioni. Ad un giorno di distanza, l'eco roboante dello scandalo si è già affievolito, fino a ridursi al ben noto strepito tra bottegai, intenti a palleggiarsi responsabilità, attribuirsi meriti, minacciare dimissioni.

Una distanza che si fa baratro separa questi fatti di cronaca: l'elezione effimera di una stellina; il tributo reso ad una piccola donna scampata alla sharia, la legge islamica; le polemiche che hanno prevedibilmente accompagnato la premiazione di un film che denuncia i soprusi subiti dalle donne nel civile mondo cattolico.

Eppure, correndo il rischio di apparire blasfema, mi sembra di poter dire che un filo rosso - neppure troppo esile - leghi queste storie l'una all'altra. Ci sono le stelline italiane selezionate, allevate e scartate dall'acquario televisivo. Seguono le piccole donne africane schiacciate, che solo le crociate del civile occidente sembrano poter salvare. Infine, le lavandaie-prigioniere irlandesi, sfruttate fino a ieri, che oggi possono denunciare i soprusi subiti solo grazie ad un film che, dichiara il regista '' attacca tutte le religioni, tutti i fondamentalismi che opprimono le donne perché rappresentano la forza della vita e dell'amore''.

In un solo giorno di ordinaria cronaca, tre storie, tre realtà che parlano di vittime.

Vittime della famiglia, della religione cattolica, della legge islamica, della legge televisiva…

Vittime indiscutibilmente diverse tra loro, ma che insieme - una pagina di giornale dietro l'altra - ricuciono la trama di una storia che sapevamo di aver già letto e speravamo di aver archiviato: la storia di persone indifese e passivizzate - oggetti disumanizzati e ridotti a corpi.

Il corpo trasformato in feticcio o corpo martoriato dalle pietre, corpo straziato dai lavori forzati o corpo trasfigurato in una cosa liscia, sinuosa, piena di grazia e bellezza…. Corpo glorificato o lapidato: la differenza sta tutta nella sorte che l'oggetto subirà infine. Rimanendo, nell'uno e nell'altro caso, comunque inanimato. E forse neppure incide particolarmente il fatto che si stia parlando di donne: sarebbe anche troppo facile cedere ad un nostalgico e rabbioso rigurgito ideologico, ed imputare al maschio la colpa di trasformare - ancora una volta - la donna in oggetto di squisita fattura o in carne mutilata.

La realtà, oggi, mi sembra più complessa.

Anche l'uomo appare, sempre più frequentemente, un corpo nudo, esposto - a volte vittima che lamenta un drammatico ribaltamento dei ruoli , un'acquisizione di strapotere da parte dell'ex sesso debole, ed è allora corpo maltrattato e lapidato; a volte si fa invece vittima compiaciuta e inerme del proprio aspetto finalmente curato e levigato quanto quello femminile.

Nell'era della globalizzazione, la Vittima non conosce più distinzioni di sesso, società, cultura. E, paradosso apparente, l'essere Vittima consente di sperimentare un nuovo potere: certo, si diventa oggetti ingiustamente maltrattati o sfruttati, ma si ottiene l'autorizzazione ad una richiesta di risarcimento e pietà infiniti.

Si delinea, così, uno scenario di retribuzione, e di vendetta ai danni di coloro ai quali è stato dato il potere di abbandonare e mutilare.

In questo nuovo scenario, alla Vittima, in cambio della sua sofferenza, è garantita la certezza di esistere.

In questo modo, oggetti disumanizzati, indifesi, vittime della società, possono scoprire la possibilità di percepirsi vivi: se si è semplicemente corpo non si può scomparire; il diventare corpo - bellissimo o scarnificato - offre un mezzo per arginare l'angoscia della frammentazione e dell'annichilimento.

Perché è questo il vero orrore del nostro tempo.

Vorrei, allora, tornare per un momento al fatto di cronaca - la Mostra del Cinema di Venezia - e lasciar parlare una signora di grande buon senso, una voce fuori dai cori più schiamazzanti e furiosi.

''I premi corrispondono alle tendenze di una Mostra popolata di protagonisti-vittima, di pena, di compassionevole solidarietà, sempre accolti con caldi, vasti applausi. (…) Su 36 film in concorso e fuori concorso si son visti come protagonisti-vittima: una pittrice inchiodata sulla sedia a rotelle, un aborigeno fuggitivo inseguito da tre poliziotti a cavallo, sarti ebrei francesi scampati all'Olocausto, immigrati maltrattati e vessati a Londra, madre disperata d'un bambino malato di un tumore inguaribile, pazienti del manicomio nella guerra di Cecenia, ragazzo coreano disadattato che si dedica a ragazza coreana disabile, poeta italiano malato di mente, prigioniere di un convento-galera cattolico per ''traviate'', bambini bruciati e straziati negli ospedali di Kabul, prostituta napoletana ammazzata dal figlio. Come se all'impegno si sostituisse la pietà, al ''sociale'' la compassione, alle storie di eroi le vicende di vittime, o come se una vena di sadismo percorresse il cinema: sarà un po' troppo, anche se ogni vittima ha ricevuto grandi applausi, caldi e commossi?''
(Lietta Tornabuoni)

Bambini... con ricevuta di ritorno

La notizia
Iris e Iman, lieto fine con ministro. La mamma ha riportato dalla Siria la bimba rapita dal padre.
Il Secolo XIX, 20 agosto 2002

Mariella Torasso Il commento
Dalla Siria con Iman […] il sorriso di Iris Moneta arrivata ieri mattina a Malpensa con la piccola Iman, sottrattale dal marito nell'aprile scorso.

Tante situazioni…un uomo e una donna si conoscono, magari nell'ambiente di lavoro, e si ripresenta forse non mai sopito, il bisogno di trovare nell'altro qualcosa che sembra mancarci, qualcosa che, probabilmente, si è percepito come insufficiente fin dalla più tenera infanzia.

Il desiderio di qualcuno che, senza chiederci niente, sia disposto a soddisfarci in ogni cosa…ed ecco, sembra che - può essere la volta buona, chissà! - costui esista veramente. Davvero il partner sembra perfetto, lo vediamo così, egli è disposto a farsi contenitore di ogni nostra angoscia ed a bonificarla, è disposto ad accudirci e ad interessarsi a noi senza curarsi troppo di sé …Iris e Khaled si erano conosciuti in un pub della zona dove lui faceva il buttafuori e lei la cameriera. Poi la gravidanza e l'attesa per quella creatura a cui venne dato un nome arabo. E' la storia di ogni coinvolgimento d'amore, lui o lei sono visti come coloro che ci faranno stare meglio e l'idealizzazione, spesso non permette di scorgere un aspetto maggiormente "umano" nel partner, egli è un angelo in cui ci siamo imbattuti…

A quell'epoca non erano ancora esplosi i contrasti tra il padre e la madre… l tempo passa e l'altro comincia ad assumere dei caratteri propri, oggettivi, svincolati dai bisogni che in lui avevamo proiettato, l'angelo diventa di carne ed ossa, ha sue esigenze, limiti e bisogni che molto spesso possono entrare in conflitto con i nostri. Subentra l'esigenza di un confronto e di un riconoscimento della diversità del partner da noi e tuttavia anche della comune esperienza di essere umano che all'altro ci rende simili.

Se del partner non si accetta il fatto che possa essere "buono" e "cattivo" contemporaneamente, con la presenza di lati senz'altro apprezzabili ma con altri che possono esserlo molto meno, la delusione provata potrà portare a considerarlo del tutto disprezzabile e il passaggio sarà tanto più marcato quanto prima lo si era considerato ideale; egli improvvisamente ci apparirà come un angelo del male, un angelo decaduto.

Può diventare inevitabile, a volte, separarsi, ritrovarsi a gestire qualcosa che sembra molto più grande di noi, compreso l'affidamento degli eventuali figli.

Ora, se per diversi motivi una coppia sceglie di separarsi non per questo un padre ed una madre cessano di essere tali: e quando nacque Iman, Iris non immaginava che quella bambina sarebbe diventata un oggetto di contesa quasi fosse un pacco da sottrarre e nascondere all'altro coniuge e che per lei sarebbero esplose liti e violenze di ogni genere.

Spesso al bambino non viene dato il diritto di ricevere l'affetto di entrambi i genitori separati ma lo si considera alla stregua di un'arma che può offendere l'ex partner che tanto ci ha illuso rivelandosi poi così diverso. Il figlio può venire sottratto, rapito, per mezzo suo si può tentare di manipolare l'ex coniuge colpevolizzandolo, ferendolo a morte. In altre parole il bambino viene vissuto come mero prolungamento dell'individuo, strumento della propria onnipotenza narcisistica: così come la propria mano o il piede possono colpire nell'intento di far male, alla stessa stregua può farlo un figlio conteso.

"Ora potrò vivere accanto a mia figlia - ha esclamato la donna - e farla crescere in una famiglia sana, senza esasperazioni religiose". Forse, a volte, un figlio sottratto rappresenta anche una parte di noi che se ne va: la parte infantile che aveva sperato di poter essere amata incondizionatamente da un altro essere senza dover nulla dare in cambio e che adesso si vive sola ed impotente.

Come dice K. Gibran: "I vostri figli non sono i vostri figli. Vengono attraverso di voi, ma non da voi, e benché stiano con voi, tuttavia non vi appartengono. Voi potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, poiché essi hanno i propri pensieri. Voi potete sforzarvi di essere come loro, ma non cercate di renderli simili a voi".

Droghe nuove, dipendenze antiche

La notizia
Ci si droga di più, ma si muore di meno. Merito del mercato, più esigente. Ma anche dei nuovi tipi di ''sballo''. Sondare la borsa delle droghe non è un'operazione semplice. I parametri di riferimento sono limitati. I sequestri, i decessi, gli indici di consumo, gli arresti, i mezzi di trasporto, i paesi di provenienza, le produzioni. Ma il lavoro svolto ogni anno dal Servizio Centrale antidroga del ministero dell'Interno offre uno spettacolo unico di un mondo illegale, quindi clandestino, che sfugge a qualsiasi rilevazione di tipo empirico.
La Repubblica, 26 luglio 2002

Eraldo Walter Machet Il commento
"Mai come quando amiamo prestiamo il fianco alla sofferenza, mai come quando abbiamo perduto l'oggetto amato o il suo amore siamo così disperatamente infelici"
S. Freud, Il disagio della civiltà, OSF, Boringhieri, Torino, pg. 574

Questo rapporto droga, pubblicato da Repubblica, si rifà al nuovo annuario del Viminale che "contiene tutti i dati relativi al 2001", disponibili "da oggi anche sul sito Internet del ministero dell'Interno". Mi sembra, però, che questo lungo ed articolato dossier solo nel sottotitolo faccia un accenno al problema psicologico della dipendenza. E' su questo aspetto che vorrei soffermare l'attenzione, nel tentativo di trasporre la ricchezza quantitativa di questi dati in una maggiore comprensione qualitativa degli stessi.

Quello della dipendenza è un problema psicologico caratterizzato da una lunga storia che implica un difficoltoso cammino di maturazione, un percorso che, com'è ormai noto, ha il suo momento più importante nella prima infanzia, quando il piccolo essere umano, fragile e incompleto, è davvero totalmente dipendente da chi si prende cura di lui. Anzi: questa dipendenza ha la sua origine ancor prima del momento della nascita, affonda le sue radici nella storia di un uomo e di una donna che, ad un certo punto della loro vita, hanno scelto di stringere un legame affettivo, quindi di dipendere reciprocamente, per realizzare un loro desiderio d'amore. Ora, la quotidiana esperienza psicoterapeutica e gli strumenti analitici che la psicoanalisi offre, continuamente attirano l'attenzione proprio intorno a questo problema. Nella società contemporanea, infatti, esso presenta connotati particolarmente significativi, a volte anche drammatici, che ben si possono identificare nei termini di "malattie della dipendenza". Le manifestazioni di tale "malattia", in genere, implicano l'uso di sostanze che possono essere anche molto diverse tra loro: alcool, fumo, cibo, farmaci… sino alle droghe tradizionali o alle "nuove" droghe che in "un weekend si possono provare assumendo tre-quattro tipi diversi di stupefacenti a seconda dei tempi e dei luoghi che si frequentano". Probabilmente sono proprio queste "esperienze" che si rivelano portatrici dei significati maggiormente distruttivi e tragici, non solo per il singolo individuo, ma per l'intera società. Ciò colpisce in modo particolare perché i fenomeni cui ci si riferisce si verificano proprio nel contesto dell'attuale enfatizzazione degli ideali di autosufficienza dell'individuo, pensato come indipendente e responsabile unico di fronte ai valori morali e sociali. I due dati sembrano nettamente in contrasto tra loro. Non solo: le modalità della dipendenza, quella che abbiamo chiamato malata o distorta, sembrano essersi, per certi versi, approfondite e aggravate. Nei decenni passati, ad esempio, l'uso delle sostanze stupefacenti era vissuto quale strumento di contestazione nei confronti di un mondo adulto sentito come limitante, rigido ed ingiusto; la relazione giovani-adulti era, dunque, connotata da forte aggressività e da contrapposizione che, a volte, poteva farsi anche violenta, ma era pur sempre una relazione. Oggi, invece, non ci si buca più, perché è "troppo pericoloso bucarsi come un tempo, in gruppo, con lo scambio di siringhe. L'Aids e le malattie correlate fanno paura". Oggi il ricorso alle droghe sembra totalmente svincolato dal rapporto con l'altro. Osserva acutamente Giuliana Grando in un interessante saggio che voglio richiamare:

La dipendenza dall'oggetto risulta allora in maniera evidente, una strategia di eliminazione della dipendenza strutturale dall'Altro, vale a dire la dipendenza dall'Atro del linguaggio, della cultura che pre-esiste al soggetto […] a cui il soggetto deve la propria nascita in quanto soggetto [ …].
G.Grando, "Nuove schiavitù" ed. F.Angeli Mi, 1999, pag.21

Nelle attuali malattie della dipendenza non c'è più un soggetto di fronte ad un altro soggetto, sia esso padrone, padre, famiglia, stato, società o altro ancora. La persona è tragicamente sola insieme ad una sostanza, si lascia spadroneggiare da questa sostanza fino ad una ferrea e non risolvibile schiavitù. E tale sostanza - farmaco, cibo, alcool o droga - è il "nuovo padrone" che allontana inesorabilmente chi se ne serve dagli altri esseri umani, lo pone a distanza, lo confina in un godimento autarchico, autogestito, solitario, dove ogni condivisione è abolita. Anche i momenti in cui si sta insieme ad altre persone, infatti, non sono e non possono essere spazi di autentica comunicazione, ma si riducono ad una sorta di vicinanza esterna che non esce dal cerchio di uno stretto isolamento. Da questa libertà apparentemente assoluta, dall'illusione di un farsi da sé senza l'altro, illusione che traspare nelle parole del tossicomane "mi faccio", emerge sempre più prepotentemente la strategia di fondo inconsciamente adottata. Una strategia che tende a far essere incessantemente presente proprio quell'altro di cui, apparentemente, si dice di non aver alcun bisogno ed alcun desiderio. Sotto le spoglie di un "oggetto-sostanza" (oggetto-cibo nella bulimia-anoressia; oggetto-alcool nell'alcoolismo; oggetto-droga nella tossicodipendenza; oggetto-cosa nell'esasperato consumismo) l'altro soggetto può finalmente essere posseduto direttamente quando si vuole, quanto si vuole e come si vuole. Ma, in realtà, all'interno di tale autonoma solitudine, né la sostanza di volta in volta usata, né l'espediente psichico affannosamente perseguito, riescono ad arginare quell'angoscia e quel vuoto nel quale il soggetto stesso si sente imprigionato. L'altro, infatti, con la sua esistenza separata, con il suo essere per natura distinto e diverso, testimonia e ricorda come le cose e le persone non possono essere mai possedute definitivamente, in ogni momento e per sempre. La sostanza che sembra magicamente cambiare l'assenza dell'altro in un vuoto che si può facilmente riempire, di fatto continua a riprodurre una mancanza nella misura in cui viene costantemente consumata. Diventa così sempre più necessario chiudersi in se stessi ed imprigionarsi da sé in un mondo incantato, troppo fragile per reggere l'impatto con la realtà quotidiana.

Così evidenziava Freud ne IL DISAGIO DELLA CIVILTA':
La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l'angoscia, dal mondo esterno che contro noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane, e infine dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine nell'ultima fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra.
Freud, Il disagio della civiltà, OSF, Boringhieri, Torino, pag.568-569

E' nel rapporto con l'altro, come sottolinea Freud, che si può determinare la maggiore possibilità di sofferenza perché l'altro può essere perduto, sia sul piano fisico, sia - soprattutto - sul piano psicologico ed emotivo. Penso che lo spaventoso vuoto interiore da colmare possa aprire alla scelta della droga, immaginata come mezzo immediato apparentemente adatto a superare la drammaticità della perdita. Di fronte ad esperienze particolarmente dolorose come queste, si può temere, infatti, che la mente non sia in grado di conservarsi integra e funzionante. Il fuggire in un solitario mondo di illusioni, pensato come privo di sofferenza, può davvero essere avvertito come una prospettiva salvifica. In questo caso, però, diventa difficile anche solo immaginare la storia di un uomo e di una donna nella loro inevitabile interazione reciproca per conseguire un progetto d'amore. Il contatto diretto e profondo con l'altro, infatti, riaprirebbe al rischio della separazione, al terrore della mancanza, al dolore di una antica dipendenza.

E la chiamano estate...

La notizia
La spericolata estate in città fra truffe, furti e borseggi. I grandi centri si svuotano, è boom di reati. Sono gli anziani i più bersagliati.
La Stampa, 5 agosto 2002

Maurizio Lo Faro Il commento
"Ma che bella l'estate in città. Nella pagina di cronaca, ieri due suicidi[…].Il poliziotto sfoglia le carte come fossero schedine del totocalcio: .

L'estate, ineluttabile, ogni anno reca con sé il desiderio di divertirsi, mollare gli ormeggi, avventurarsi verso terre nuove ed inesplorate, vivere esperienze che, proprio perché contenute in un tempo e in uno spazio definito, sembrano meno pericolose e più eccitanti.

Altrettanto inevitabile, molto spesso, è l'accorgersi del proprio senso di solitudine, della difficoltà a sperimentare e portare avanti tali progetti, al punto da imporsi un divertimento forzato pur di non riconoscere la possibilità di una delusione che potrebbe farci sentire diversi dagli altri.

Nelle calde serate estive le finestre aperte ci rimandano il rombo dei motori, le grida gioiose di persone che sembrano stare bene insieme; esseri umani che si abbracciano, si toccano, si baciano, scherzano e ridono. Gli odori, i rumori e le luci si mescolano in un turbinio di sensazioni che paiono attirarci e stordirci: vorremmo unirci a quelle persone, godere anche noi, sentirci a nostro agio, ma…dentro noi cresce il timore di non riuscire ad accettare tutto questo; accorgerci del nostro bisogno può condurci a disprezzare tutto quello che sentiamo, le luci, i rumori, le grida, niente ci appartiene e finiamo per sentirci sempre di più schiacciati contro le pareti della nostra stanza.

Certo tutto questo dolore non nasce con la stagione estiva: durante l'intero corso dell'anno qualcosa di sgradevole pareva a volte insinuarsi in noi ma cercavamo di allontanarlo. In fondo c'era il lavoro che ci teneva impegnati, anche troppo! In fondo c'erano gli amici con cui si poteva uscire e fare quattro chiacchiere alla buona…adesso anche da loro ci sentiamo traditi ed abbandonati, sono in vacanza chissà in quali posti lontani, dimentichi di noi.

Durante i mesi trascorsi prima che arrivasse l'estate non permettevamo al dolore di insinuarsi nelle nostre coscienze, bisognava darsi da fare per produrre, consumare, e il senso di solitudine poteva facilmente essere stemperato in mezzo alla folla di colleghi, conoscenti, amici.

Ora il bisogno comincia a farsi pressante, in particolare per chi vede diminuite le possibilità d'incontro con gli altri a causa dell'età.

E' quello che può capitare a tanti anziani nelle nostre città: accettare l'approccio di persone che si presentano con modi gentili e seduttivi, apparentemente disponibili a dare al vecchio solo un'attenzione negata: e' successo ad un anziano maestro di violino poco tempo fa. Un giorno è stato avvicinato da una bella signora per strada: .L'ha frequentato per parecchi giorni, continuando ad adularlo…e il maestro era felicissimo di riempire le sue giornate. Una domenica è stato invitato a mangiare. Quando è rientrato i suoi tre Stradivari da concerto erano spariti: valore, almeno 20 miliardi. Anche lei era sparita.

Ma l'estate può essere anche ricerca di stimoli forti che facciano sentire, esistere, essere, nel tentativo di superare il senso d'impotenza e di frustrazione: sulla sua Bravo nera, alettoni e minigonne, una bestemmia,[…].Corse in macchina come matti[…]all'uscita del sottopasso tengono i soldi delle scommesse.

La città vuota pare risuonare come una grande cassa armonica delle angosce non riconosciute e affrontate di ogni essere umano: poi quando fa caldo e le metropoli si svuotano, aumentano i suicidi, i furti e il resto. Anche i delitti passionali. Le grandi storie di cronaca nera, sangue e sesso, si raccontano sotto l'ombrellone. L'estate sembra fatta apposta per certi reati. Il furto è, forse, un tentativo di riappropriarsi di qualcosa che sembra sia mancato in un certo momento dell'infanzia, una dimensione affettiva dai contorni sfumati, che ha portato il soggetto ad allontanarsi sempre più dalla possibilità di essere amato e di amare veramente. Solo la nostalgia è rimasta, di qualcosa intravisto, di un paradiso perduto, si teme per sempre, che struggente si ripropone ad ogni attimo e situazione. Per alcune persone l'unica possibilità rimane, allora, quella di illudersi attraverso un atto concreto -il furto- di poter recuperare quella dimensione affettiva mai pienamente raggiunta. Nell'anno che facciamo sono aumentati: i furti in appartamento, gli scippi e i borseggi…

La città vuota facilita, ovviamente, gli atti ritenuti socialmente inaccettabili, ma a livello personale il vuoto che più spaventa è quello che possiamo ritrovarci dentro, quello che, spesso, ha preso il posto della capacità di apprezzare le cose buone e di tollerare quelle che lo sono meno; in altre parole la mancata o l'insufficiente introiezione di una figura affettiva "sufficientemente buona" che ci sostenga e ci permetta di poter anche sopravvivere in una città quasi vuota.

Il Prof. spiega via Internet

La notizia
Entro il 2005 Internet entrerà nell'85 per cento delle scuole con progetti di E-learning e possibilità di collegamento degli studenti anche da casa attraverso la rete. Questo ed altro prevede il progetto Internet@scuola frutto della convenzione siglata oggi dai ministri dell'Istruzione Letizia Moratti e delle Comunicazioni Maurizio Gasparri… Il progetto pilota, presentato questa mattina dai ministri, coinvolgerà inizialmente 50 scuole di ogni ordine e grado in tutta Italia… Il progetto coinvolgerà anche gli ospedali dotati di sezioni scolastiche distaccate.
TG1, 17 luglio 2002

Il commento
Il giornalista del Telegiornale chiudeva il servizio commentando: "chissà se i bambini saranno poi così contenti di poter essere interrogati anche quando sono all'ospedale". La battuta del giornalista mi ha fatto riflettere sugli usi diversi che possono essere fatti di uno strumento importante come quello di Internet e sull'insegnamento attraverso di esso anche e soprattutto in relazione alla malattia.

Penso infatti che la "telescuola" possa consentire agli studenti un contatto continuo con i docenti, dare loro la possibilità di approfondire le proprie conoscenze attingendo dalle fonti in rete ed ampliando i loro punti di vista. Mi sembra però che la grande maggioranza dei bambini e dei ragazzi sia in grado di utilizzare il computer ed Internet, anche se non sempre a scopi didattici, mentre quello che manca loro è la presenza di un adulto, un insegnante, che possa non tanto istruire quanto prendersi cura della loro crescita emotiva.

Ciò che conta, infatti, dovrebbe essere stimolare il loro interesse, unico motore vero per arrivare ad un sapere "sudato", espressione di una passione autentica e non semplice adeguamento a parametri di nozionismo e di profitto che non possono far altro che isterilire e mortificare la creatività e l'entusiasmo dei ragazzi. Il rischio, in definitiva, mi sembra possa essere quello di lasciare i bambini ed i ragazzi ancora una volta soli.

Il computer portatile e l'insegnamento a distanza, nel caso di bambini ospedalizzati, possono essere uno strumento valido per far si che il bambino si possa sentire meno diverso rispetto ai suoi coetanei che frequentano regolarmente la scuola permettendogli di non restare troppo indietro rispetto al programma scolastico e di mantenere, contemporaneamente, un collegamento con la vita esterna.

Il titolo del servizio del telegiornale "Il prof. spiega via Internet" e la domanda che si faceva il giornalista, rispetto alla voglia del bambino di poter essere interrogato mentre si trova all'ospedale, mi sembra riflettano un'idea di apprendimento passivo in cui l'insegnante può solo spiegare la lezione ed interrogare mentre al ragazzo non resta altro che ascoltare e rispondere.

La sfida che l'utilizzo del computer portatile e la possibilità di collegarsi in rete lanciano mi sembra, sia proprio quella di riuscire a pensare all'insegnamento in un modo nuovo che consenta di incentivare le capacità e le potenzialità creative del bambino facendolo sentire protagonista di una ricerca volta all'acquisizione di nuove conoscenze.

La possibilità di programmi interattivi che permettano al bambino di cercare risposte, trovare soluzioni, costruire una storia, fornirgli dei metodi di autovalutazione, potrebbero essere un modo per non farlo sentire passivizzato, soprattutto nel caso di bambini ospedalizzati già fortemente passivizzati dalla malattia.

Una stimolazione che porti allo sviluppo della creatività può rappresentare inoltre un elemento che aiuta il bambino ad avere maggior fiducia nelle sue risorse che egli può mobilitare non solo per l'apprendimento ma anche per la guarigione.