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Giovani vecchi o vecchi giovani?

La notizia
Massimo Gramellini commenta le sempre più numerose scelte giovanilistiche degli ultrasessantenni (indicati in America come "new young sixty seventy"). In presenza di mezzi economici adeguati, i Giovani Vecchi inseguono le loro voglie di avventura destreggiandosi tra il desiderio di fuga dalla realtà quotidiana, le incalzanti offerte pubblicitarie e una forse nascente sensibilità per i messaggi spirituali.
La Stampa, 12 luglio 2002

Mariella Torasso Il commento
In un momento dell'anno in cui, in procinto di partire per le vacanze, ci si preoccupa molto per l'abbandono degli animali domestici e solo un poco per la solitudine di alcuni anziani, mi colpisce l'attenzione del commento di un giornalista che leggo sempre volentieri, per un particolare tipo di anziano.

La nostra società, con una popolazione anziana sempre più numerosa, paradossalmente riserva sempre meno spazio alla rappresentazione della vecchiaia come età della vita con specifiche proprie caratteristiche. Si coltiva il mito dell'eterna giovinezza e si richiede all'anziano di approssimarsi il più possibile agli schemi collettivi del riadattamento, che prevedono forzatamente partecipazione ed interesse per il mondo circostante. Anche i recenti provvedimenti governativi, con uno spostamento in avanti dell'età pensionabile (peraltro determinato da un innalzamento dell'età media), sembrano confermare una visione di vita in cui difficilmente trova posto la rappresentazione della fine di un ciclo dell'esistenza, di una fase di crisi che spesso coincide con la scoperta di potenzialità creative latenti.

Il "giovane vecchio" della nostra epoca si affaccia all'età successiva avendo perso il contatto con la dimensione del passaggio e del vissuto di trasformazione, che viene colto per lo più nel suo aspetto superficiale di dissoluzione fisica, corporea, e come tale negato. Ecco che si può partire (finanze e salute permettendo) per un giro del mondo in camper, portandosi appresso "l'ultimo libro di Castaneda, mica il calendario delle veline. Al limite tutti e due" (Massimo Gramellini, cit.), dimostrando così di essere - almeno come consumatore - ancora un anello della catena di produzione . Con una piccola concessione al carattere di introversione, rappresentato da una lettura "spirituale" come quella di Castaneda, il nostro "giovane vecchio", finalmente libero da uno stato di potere e di responsabilità, si nega l'irripetibile possibilità di raccogliere, attraverso gli aspetti positivi dei ricordi e delle esperienze passate, il senso più autentico di sé.

"Non esistono 'lifting' per la psiche, ricostruzioni di facciata e di verginità. Il valore della psiche sta sempre nella sua storia, nelle crepe che si fanno strada a partire da radici forti, che non ricorrono a maschere e patetici travestitismi. La personalità di un uomo sta sempre al punto di incrocio tra la dimensione sincronica - il presente - e quella diacronica - il passato" (da A. Carotenuto, Attraversare la vita, Bompiani, 1999, p.82).

La ricerca di senso continua per tutta la vita e ogni età può comprendere la crescita della consapevolezza di sé, come testimonia l'attività onirica delle persone anziane, ricca di contenuti di rinascita, piuttosto che di decadenza.

"Quello che a uno sguardo superficiale può apparire uno stanco ripiegamento su se stessi, un inaridirsi progressivo delle proprie capacità, è invece indice di qualcosa di importantissimo: è l'inizio di un lento processo di concentrazione dell'energia libidica verso una meta differente da quella 'estroversa' del semplice adattamento al mondo esterno…. Adesso si comincia a riflettere su come si è vissuto, su quali sono state le proprie scelte. Questo determina una fase di introversione, con tutti i pericoli ma anche le potenzialità che ogni viaggio nelle proprie profondità comporta e offre" (da A. Carotenuto, Vivere la distanza, Bompiani. 1998, p.128).

La nostra società richiede invece l'omologazione a modelli estrovertiti a forte connotazione maniacale, dove il momento depressivo è sistematicamente evitato. Non c'è posto per riflessione, vecchiaia e tanto meno morte. Morte fisica o anche morte di alcuni nostri aspetti che non sono più significativi e a cui dobbiamo rinunciare per non precluderci il futuro.

Forse quelli del "giro del mondo in camper", piuttosto che "giovani vecchi", sono "vecchi giovani", che devono ancora imparare ad accettare l'inesorabilità della trasformazione (che non avviene senza morte e rinascita), la modificazione profonda dell'atteggiamento psicologico, per fare posto ad una posizione di maggiore autonomia e unicità.

Come suggerisce Migliorati, individuando una traccia di possibile percorso analitico, "la persona che ha già compiuto le scelte fondamentali, che l'avventura, nel bene e nel male l'ha corsa già da tempo, non ha tanto bisogno di ricostruire il passato per prenderne le distanze ma piuttosto di ascoltarlo con altre orecchie, per rievocare gli aspetti più profondi e sottili sfuggiti alla coscienza che si è affacciata, spesso senza avvedersene, ad un altro livello di esperienza, più sostanziale e radicale che non quello che aveva creduto ne fosse la sostanza; per sostituire al ricordo di fatti perduti e non rinnovabili l'ascolto di esperienze delle quali ha conservato solo vaghe intuizioni ma le cui tracce occhieggiano nella massa informe di fatti lontani dei quali ora piange la perdita" (da P.Migliorati, "L'analisi tra Mnemosyne e Lesmosyne", in Invecchiare tra sintomo e necessità - Rivista di psicologia analitica, VIVARIUM 62/2000, p.71).

Rapporto sullo stato della terra

La notizia
"Un pianeta prossimo al collasso, a cui restano a malapena 50 anni di vita, dopo i quali l'umanità sarà forse costretta ad imbarcarsi verso altri mondi per potere sopravvivere".
La Repubblica, 8 luglio 2002

Nicoletta Massone Il commento
Questo il modo, davvero poco rassicurante, in cui si apre l'articolo di Repubblica che fa riferimento all'ultimo studio sullo stato del nostro pianeta. Dal 1989, il WWF ha incaricato scienziati ed esperti di ogni parte del mondo per monitorare le modalità di sfruttamento delle risorse naturali e la velocità con la quale si stanno consumando.

Gli ultimi dati sono, a dir poco, allarmanti: negli ultimi tre decenni, vale a dire l'arco di una sola generazione - la nostra generazione - si è dato fondo a più di un terzo delle risorse che il pianeta metteva a disposizione. E' mancato, in altre parole, qualsiasi tipo di pianificazione, come se l'idea di fondo fosse quella di una inesauribilità o rigenerabilità all'infinito delle risorse stesse. Tra l'altro, questo modo di utilizzo comporta un depauperamento per altri popoli che vedono, in tal modo, aumentare ulteriormente la loro condizione di miseria.

Non sappiamo queste cose solo oggi e certamente non solo oggi proviamo una preoccupazione profonda ed inquietante. Attualmente, però, si aggiunge un dato nuovo in termini di tempo: solo 50 anni e poi dovremo abbandonare il nostro pianeta che non ce la fa più a sostenere le nostre esigenze di vita. Scenari preoccupanti di mondi alieni e spogli che si apprestano ad ospitare naufraghi dello spazio, navicelle che devono selezionare chi portare alla salvezza e chi abbandonare ad una terra avvelenata, fanno capolino nelle fantasie, ma vengono subito scartati come il frutto dell'impensabile e del delirio.

L'inquietudine, però, non è sopita: se il soggiorno su Marte non rientra ancora nel nostro immaginario, altri aspetti delle notizie sull'ambiente ci feriscono, soprattutto quelle che parlano di sofferenze, di ingiustizie subite, di prevaricazioni. Persone, animali, piante, persino oggetti, sembrano avere perso la loro identità e la possibilità di essere rispettati. Le multinazionali si appropriano di enormi appezzamenti di terra dei paesi in via di sviluppo, sottoponendoli ad uno sfruttamento che non tiene conto delle possibilità di rigenerazione delle risorse della terra e che non considera, come dicevamo, l'aumento del disagio delle popolazioni di quelle nazioni. Gli animali vengono allevati in massa, in condizioni igieniche estreme, esposti a continue malattie che rendono la loro breve vita ancora più penosa. Potremmo procedere nell'esame dei dati che, quasi in modo drammatico, ci raggiungono continuamente da tutti gli ambiti del nostro ecosistema.

A volte ci sentiamo quasi sommersi e un po' impauriti: tutto questo dolore temiamo che, alla fine, possa ritorcercisi contro. E, in effetti, forse questo già stia accadendo: i cibi di cui ci nutriamo, l'aria che respiriamo, il mare che ci circonda, sono "avvelenati" e producono malattie mortali.

E', parafrasando Camus, un "ambiente rivoltato", distruttivo, quello nel quale abbiamo l'impressione di vivere; dovremmo "guardarci le spalle" per ogni cosa con cui veniamo in contatto: toccare, mangiare, respirare, anche semplicemente attraversare la strada, potrebbe significare l'esposizione alla morte se, per caso, come è già accaduto, fosse esplosa, in luoghi non troppo lontani, una centrale nucleare. Ciò che sino ad ieri era elemento amico e familiare, qualcosa cui fare riferimento con fiducia irriflessa, ha rivelato un altro volto, negativo e pericoloso.

L'incubo che sempre ci preoccupa, la possibilità che ciò che crediamo bene sia male, sembra effettivamente essersi avverato. La sospettosità che, spesso ci porta a ritenere essere la solitudine e l'autossuficienza assoluta l'unica garanzia credibile di sopravvivenza, trovano conferme e rafforzamenti.

Ma non è tutto: in realtà, siamo consapevoli di essere noi stessi gli artefici della trasformazione che si è operata. Anche in questo caso, pare risuonare una conferma, sul piano interiore, di dubbi e timori mai sopiti circa noi stessi. I dati dei giornali, della televisione, delle ricerche, sembrano dimostrare in modo incontrovertibile che davvero siamo incapaci di conservare ciò che di buono possediamo e che, in modo irresponsabile, finiamo per non riconoscere, rompere, abbandonare, perdere, persino attaccare intenzionalmente gli elementi che sorreggono la nostra esistenza. Ogni gesto, anche il più semplice, anche spruzzare l'insetticida per le zanzare, ci condanna e ci lega ad una verità negativa su noi stessi. Verità insopportabile, quasi specchio deformante, sul cui sfondo compaiono gli occhi di uomini depredati, di terre bombardate, di un buio doloroso che sembra posarsi, come un vaiolo che non si cancella, sui tratti del nostro volto.

Può capitarci di pensare che questo tipo di mondo ci assomiglia, forse anche noi sfruttiamo al massimo le nostre risorse interiori senza prendercene cura, senza pensare che non sono elemento anonimo sempre a disposizione, ma capacità di attivazione e di creatività che dipendono dal complesso intreccio delle nostre emozioni e delle nostre esperienze.

Sapere di avere dei limiti ci inquieta e ci destabilizza come se solo un'assoluta continuità di rendimento, una prestazione lineare e standard, potesse rassicurare il timore non di un momentaneo arresto, ma di un crollo irreversibile.

Come se da sempre fossimo in lotta contro lo spettro della regressione ad una condizione di assoluta impotenza ed incapacità. Come se ogni pausa, ogni arresto, fosse il segno insopportabile di una morte di pietra, senza nome e senza senso, che annienta tutti i nostri significati e tutto il nostro amore.

Forse trattiamo gli altri e il mondo nello stesso modo, elementi intercambiabili, pura materia inerte, di cui non vogliamo e non possiamo conoscere la profondità e la storia.

E forse questo timore blocca la possibilità del pensiero: lo spazio della riflessione è temuto ed esorcizzato perché da quello spazio rientrano le vittime del nostro terrore, l'illimitata fame della nostra fragilità, i fantasmi persecutori, i morti viventi della nostra distruttività.

Allora restano solo i presagi ineluttabili, i soli 50 anni di vita, il dolore di una perdita irreparabile.

Ed è proprio questa perdita, probabilmente, che si proietta come ombra e come non nuova, ma sempre dolorosa, incertezza sopra l'onnipotenza del sapere tecnico. La tensione dell'uomo a disporre del mondo si è concretizzata in un agire che non è stato in grado di custodire i ritmi delle relazioni, esterne ed interne, producendo un dominio prevaricatore. L'uomo che giunge a vedere nella oscurità delle acque, che sa spostare i limiti della notte, indaga l'estremità di ogni ente e la profondità del suo cuore, si trova ora a domandarsi quale è la misura di tale sapienza.

Nel Convito, Platone (205b) afferma che l'opera dell'artigiano, come quella del poeta, fa passare le cose dal non essere all'essere, è la creazione di ciò che da se stesso non si realizzerebbe. Prima ancora che produzione, il pensiero è allora spazio di conoscenza, azione di svelamento, un operare affinché appaia e si attivi tutta la potenza delle cose. In questo senso, produrre è anche custodire il significato più intimo e specifico di ogni cosa, noi stessi compresi.

Sono proprio gli effetti perversi di tale dimenticanza, forse non sviluppata memoria, a far si che oggi ci si trovi necessariamente impegnati nella faticosa rivisitazione di alcuni dei modelli più appariscenti e più rassicuranti della nostra civiltà. Sollecitati dall'inattesa inquietudine sorta di fronte ad un ambiente ostile, ci troviamo a dover accogliere la richiesta di cambiamento che viene dalla nostra sempre troppo dimenticata fragilità e dalla fragilità delle cose che ci circondano, la richiesta di "allargare i paletti della nostra tenda" con tutto il carico di dolore, di incertezza, di fatica e di lacerazioni connesse allo scavo delle nuove fondamenta.

Psicoanalisi. Una terapia attraverso... il potere?

La notizia
Il Presidente della SPI Domenico Chianese ha aperto i lavori del Convegno Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana con la relazione ''La cura psicoanalitica: forme di un sapere antico'': ''L'interlocutore giusto per spiegarci che cosa significa 'fare analisi' in tempi in cui è possibile consultare il medico dell'anima via Internet'' .
Venerdì di Repubblica, 21 giugno 2002

Laura Grignola Il commento
La ''notizia'' che vorrei commentare oggi è l'intervista rilasciata dall'attuale presidente della SPI a Brunella Schisa del Venerdì di Repubblica, in occasione del XII Congresso della Società Psicoanalitica Italiana sul tema della terapia e dei mutamenti del lavoro dello psicoanalista.

In realtà sono andata a leggermi questo articolo dopo che una paziente che seguo a quattro sedute alla settimana e che ama ''mettermi alla prova'' con continuità, determinazione e intelligenza, alle 7,45 (ahimè) del mattino è giunta in seduta sventolando provocatoriamente un ritaglio di giornale e pronunciando con tono assolutamente ieratico queste parole: ''Vede, se lei fosse più brava io non dovrei venire qui quattro volte alla settimana e lei sa quanto mi pesa! E non lo dice mica un cretino! Lo dice il presidente della Società Psicoanalitica!''. Sarà un agito, ma -come dicevo- non ho poi resistito alla tentazione di leggerlo, l'articolo! Così come adesso -secondo agito?- non reggo alla tentazione di commentarlo!

Apparentemente è un articolo fra tanti, abbastanza normale, con il solito atteggiamento provocatorio da parte della giornalista che, come sempre capita, usa parole e argomentazioni semplificanti, dal peso specifico greve… L'interlocutore psicoanalista in questi casi può opporre all'innocenza violenta di tale semplificazione una disarmante chiarezza. Sto pensando ad esempio a Simona Argentieri o a Mauro Mancia che hanno così spesso saputo coniugare una notevolissima capacità di approfondimento teorico e didattico con il ruolo di interfaccia tra psicoanalisi e mondo dell'informazione. Altre volte tale interlocutore psicoanalista può invece accusare il disagio di dover ridurre e trasmettere il senso di un'esperienza che essendo appunto un'esperienza, cioè noumeno, non sempre è traducibile in parole, tanto meno in linguaggio giornalistico.

Nel caso invece dell'articolo che stiamo considerando, non ci troviamo di fronte né ad una disarmante chiarezza né a disagio alcuno. Ci troviamo di fronte ad una analoga semplificazione della complessità rispetto all'approccio giornalistico e ad una baldanza davvero inusuale per persone il cui compito dovrebbe per definizione essere quello di orientare gli altri sul tema del limite e in particolare dei limiti esistenziali di pertinenza dell'essere umano.

Alla domanda ''Negli ultimi decenni e con una cadenza ciclica la psicoanalisi è stata data per morta, anche a causa dell'atteggiamento chiuso e conservativo che avete sempre avuto. Come pensate di sopravvivere ai tempi moderni?'' si risponde testualmente: ''Direi piuttosto bene visto che siamo la seconda Società psicoanalitica europea e l'Italia è il paese che meno patisce la crisi.'' E si continua: ''… ormai da anni ci siamo aperti all'esterno… Siamo stati riconosciuti come scuola di formazione dal Ministero dell'Istruzione e della Ricerca e l'attività privata è più limitata; direi che il 70, forse l'80 per cento di noi lavora anche in istituzioni di cura e dedica alla libera professione solo parte della sua attività.''

Interrogativi possibili:

E' davvero significativo e sufficiente per testimoniare la buona salute della psicoanalisi sottolineare che la SPI è la seconda Società psicoanalitica europea o che ha ottenuto il Riconoscimento Ministeriale?

Se l'Italia è il paese che ''meno patisce la crisi'' è per le peculiarità encomiabili dei suoi abitanti o perché gli italiani, nel bene e nel male, arrivano sempre un po' dopo, risentono un po' più tardi dei fenomeni della globalizzazione, e ciò in perfetta sincronia con il loro reale potere economico?

E, infine, che cosa significa l'attività professionale più limitata? Significa che non ci sono abbastanza pazienti, che non si guadagna abbastanza, che l'attività privata richiede troppa fatica, che i compromessi con le dimensioni del potere rendono lo strumento psicoanalitico meno efficace? Ci garantisce cioè uno psicoanalista più capace di attenzione fluttuante in quanto meno sovraccaricato emotivamente o soltanto uno psicoanalista più fluttuante?

Questi sono solo degli interrogativi non delle affermazioni. Ma degli interrogativi suscitati dall'idea che il discorso del presidente della SPI, almeno com'è riportato nell'articolo, possa avere essenzialmente una valenza politica e contenere una semplificazione della complessità allo scopo di sostenere tesi precostituite…

Ma veniamo alla frase incriminata, quella che mi ha indotto a ricercare l'articolo…

Alla domanda ''Siete sempre arroccati sul numero delle quattro sedute a settimana, non vi sembrano un'enormità'' si risponde: ''Fare una buona psicoterapia a due sedute a settimana è più difficile che fare un'analisi a quattro. Per riuscirci bisogna che l'analista abbia fatto un buon training, perché i tempi ridotti rendono tutto più complicato. Per dirne una: il paziente ha meno tempo per elaborare le cose dette. Insomma ci vogliono mani esperte''.

Dal 1993 si sono avvicendati nella nostra piccola scuola genovese di psicoterapia grossi nomi della psicoanalisi nazionale ed internazionale, alcuni da noi molto apprezzati e amati. Ma una delle difficoltà che abbiamo sempre avuto nelle supervisioni condotte da loro è che mentre non sempre i nostri allievi in formazione riuscivano ad avere dei pazienti a tre o a quattro sedute alla settimana, mai sarebbe stato possibile sottoporre loro un caso seguito ad un minor numero di sedute. Due sedute alla settimana? E' psicoterapia. Un didatta dell'IPA non si sarebbe mai occupato di psicoterapia! Dall'alto o dal basso dei miei quasi trent'anni d'attività clinica e poi di supervisione ho sempre pensato si trattasse di un eccesso di rigidità. Avevo visto ottenere buoni risultati anche da giovani psicoterapeuti lavorando a due sedute settimanali. Anzi, pensavo che spesso un giovane, per i casi in cui non era seguito in supervisione, potesse avere delle difficoltà eccessive a lavorare a quattro sedute settimanali. Pensavo che potesse sentirsi troppo responsabilizzato, poco creativo, poco attrezzato a reggere le bordate di un transfert fortemente e direttamente coinvolgente . Non ho mai pensato che fare psicoterapia fosse facile, squalificabile. Pensavo anzi che fosse poco trasmissibile didatticamente perché la portata di alcuni passaggi rimaneva criptica, acquattata all'interno dell'esperienza e della capacità intuitiva del terapeuta. Pensavo che in fondo tale atteggiamento integralista rendeva possibile un discorso didattico molto più preciso e puntuale, così come più preciso e puntuale risulta lo stesso rapporto terapeutico che si avvale di una frequenza elevata di incontri. Pensavo che non avrei mai preso in carico alcune persone ad una frequenza inferiore alle tre o quattro sedute e che comunque preferivo lavorare a tre o quattro sedute settimanali. Pensavo e lo penso tutt'ora. Per me non sono acquisizioni dogmatiche, ma che derivano dalla mia esperienza.

Del resto nella sostanza questa mia posizione è possibile che non sia poi così lontana da quella dell'establishment psicoanalitico. Ma perché tutte queste articolazioni e sfumature che ho espresso devono essere irrigidite in posizioni antitetiche e inconciliabili? Perché ciò che ieri era proibito oggi deve essere addirittura auspicato? Eppure si sa che tutto ciò che è rigido si spezza più facilmente!

Dice Leo Rangell, allora presidente dell'IPA, nel suo discorso di apertura del 28° Congresso dell'Associazione Psicoanalitica Internazionale, tenutosi a Parigi nel lontano 1973: ''La flessibilità, la capacità di cambiare idea, di saper ammettere che si aveva torto, il saper imparare dall'esperienza, sono cose che costituirebbero un positivo gruppo di attributi dell'Io. Questa sequenza invece -che si è sempre avuto ragione, che non noi ma i tempi sono cambiati- è un meccanismo combinato di distorsione, di diniego, razionalizzazione, inganno di sé e degli altri, e attraversa come un ponte l'inconscio, il preconscio - e il conscio.

Due, quattro sedute… In realtà un problema potrebbe essere che questo modello di ''libero professionista part-time dell'anima'' che si facilita la vita rischiando di condividere con troppa leggerezza poteri istituzionali e temporali che seducono con patti faustiani, non ha più la forza di ''imporre'' al proprio paziente -là dove lo reputi necessario per imbattersi nell'epifenomeno cura- un sacrificio che lui stesso non è disposto a fare. Non ha più la determinazione ad ''insegnare'' al proprio paziente -naturalmente in termini non pedagogici e impositivi, quindi con l'esempio- a nuotare contro corrente per l'unica via percorribile dalla mente, la via dei simboli, contro quella dei diaboli…

L'altro problema, quello sùbito colto dalla mia paziente (e anche da Leo Rangell), è quello che Bollas chiama il pensiero fascista, il bisogno di avallare la giustezza della propria posizione attraverso la denigrazione dell'altro ottenuta semplificandone il pensiero. Noi siamo i migliori, noi abbiamo ragione comunque, che siamo seduti, in piedi, a gambe all'aria o a testa in giù… Il vero problema introdotto tra le righe da questo articolo, da qualsiasi scritto che compaia sui giornali in questo periodo, e non solo sui giornali, è quello dell'analisi selvaggia.

Freud intendeva per psicoanalisi selvaggia -e l' ho già scritto su questo portale da qualche parte- sia quella del medico ignorante e pressappochista, che si improvvisa psicoanalista; sia quella di chi, pur colto in materia, ritiene di doversi opporre alle resistenze interiori del paziente attraverso rivelazioni interpretative premature, che prescindono cioè dall'instaurarsi di un'adeguata relazione di transfert in grado di contestualizzare l'interpretazione e di proteggere quindi dal rischio di disvelamenti destabilizzanti. Ma l'accezione più comune di analisi selvaggia rimanda alla presunta ed automatica incompetenza di chi non proviene dall'establishment psicoanalitico ma dal complesso e imperscrutabile panorama delle psicoterapie sviluppatesi all'interno dei vari centri ''artigianali''(non importa se di impostazione psicoanalitica; anzi sono proprio quelli da combattere!) nei quali molti psicoterapeuti attuali sono andati a bottega. Viene invece totalmente obliterata l'altra accezione di psicoanalisi selvaggia, quella dell'onnipotenza difensiva con cui uno psicoanalista può tenere a distanza il proprio paziente, per evitare un contatto emotivamente intollerabile, annientandone il discorso e sovrapponendovi la propria interpretazione. E questa purtroppo è la fine di molte analisi condotte da terapeuti formati all'obbedienza nei confronti del potere istituzionale piuttosto che al rigore di una ricerca appassionata della propria fedeltà al ''metodo''.

Tra le affermazioni più frequenti: …Siamo gli unici veri depositari del sapere psicoanalitico… abbiamo i candidati più scelti e controllati… Ma qual è l'effetto sui figli di genitori che proprio perché controllano troppo finiscono per amare molto poco?

La denigrazione medica sostenuta dalle multinazionali farmaceutiche, la convivenza con qualsiasi tipo di altra terapia inducono l'istituzione psicoanalitica, invece che all'umiltà del confronto paziente e costante, alle affermazioni apoditticamente autocelebrative, all'irrigidimento delle istanze superegoiche che si fanno quindi minacciose per l'Io e inducono a quello che Leo Rangell chiama il compromesso con l'integrità.

Il narcisismo è necessario per la salute -dice Rangell- e ha una parte di rilievo nel collasso psichico.

''La psiche, attraverso le sue difese, distorce, per ingannare il Sé. L'analisi, scavando sempre verso la verità, mira ad annullare queste deformazioni, a produrre tanta ''onestà'' quanta è possibile. Ogni paziente in analisi è in un processo di apprendimento, rivolto verso l'integrità psichica…. L'analisi mira a produrre un uomo onesto. … Per quanto sia importante per la gente comune, il raggiungimento di un'integrità intrapsichica, la capacità di essere onesti, diventano perentorie per i futuri analisti e quindi nelle analisi dei candidati. … L'atteggiamento analitico è nella sua stessa essenza il modello di un'incorruttibilità inflessibile. …Sfortunatamente si porta spesso dietro una corruttibilità tutta umana. L'atteggiamento scientifico della psicoanalisi è trasmesso al paziente da un essere umano che se lo prende a cuore''. Non so se questa sia l'immagine che il lettore, l'uomo della strada, l'allievo, il collega, possono desumere dall'articolo comparso sul Venerdì. Che cos'è dunque la psicoanalisi? Una terapia attraverso l'amore, come diceva Freud, o una terapia attraverso il potere?

Alt! Voglio scendere...

La notizia
Il Prozac non convince più - Le vendite calano dell'80%. New York - La "pillola della felicità", come era stata battezzata sui mercati di tutto il mondo, ha perso la sua magia. Le vendite del Prozac, il farmaco che negli anni '90 ha sconvolto il settore degli antidepressivi sono scese dallo scorso agosto dell'80%. Una flessione enorme, in parte collegata all'immissione sul mercato del prodotto generico, la fluoxetina, ma soprattutto al cambiamento delle necessità dei pazienti che chiedono ritrovati sempre più forti contro la depressione.
La Repubblica, 1 luglio 2002

Antonina Nobile Fidanza Il commento
Lunedì mattina prima di iniziare una lunga giornata di lavoro, apro il giornale. Saltando a piè pari, con un senso di colpevole fastidio e di impotenza, la prima pagina con le feroci scaramucce del governo che si giocano sulla nostra testa, sperando che non si giochino le nostre teste.

Scorro il vergognoso gioco sulla vita e sul dolore del 'caso' Biagi e arrivo a pagina 11 che minaccia le stragi e gli attentati di luglio.

Passo oltre, stanca di essere terrorizzata e a pagina 13 trovo l'Arizona in fiamme, per opera di un pompiere, altro triste ma solito leit-motiv dell'estate, stavolta però di dimensioni 'perfette'. Vale a dire che rendono l'uomo un semplice epifenomeno della natura. In fondo alla pagina la notizia che due bimbi sono morti arrostiti dal caldo, chiusi in una macchina, mentre la madre tranquilla era dalla parrucchiera, altro evento non raro in estate, prende solo un frammento di colonna.

A questo punto mi sento un po' abbattuta dalla ciclicità e prevedibilità dei comportamenti umani apparentemente contingenti.

Scappo letteralmente dalle pagine successive che sono notizie dai fronti e approdo alla cronaca, rassegnata ad altre brutture solo più vicine.

Scopro che la nostra Corte di Cassazione ha eliminato la caratteristica di ingiuria perseguibile, nei confronti del turpiloquio, dando via libera, come dice il commento, all'insulto. Un bel paginone sul prete figura di riferimento che si sta modernizzando: moto, casco, cellulare e monospalla del giovane in tonaca nella fotografia che accompagna il servizio. Accanto, dopo sei anni il processo per il naufragio che costò la vita a 283 immigrati scoperti da un giornalista in fondo al mare, e che ho commentato in un articolo sull'orrore proprio per Vertici. Non ho la forza di leggere le ultime sulla giungla dei prezzi dei farmaci.

Giro pagina e con un tuffo al cuore leggo del lago Effimero che se non svuotato con urgenza potrebbe distruggere i paesi alle pendici del Monte Rosa e chissà perchè penso al Vajont.

Proseguo incapace di fermarmi a leggere (solo il titolo mi angoscia), perchè a Firenze qualcuno sfregia le salme all'obitorio in barba ad ogni sorveglianza. Desiderosa di qualcosa di più leggero mi fermo su foto di gente che gioca: infatti è morto l'inventore dell'hula hop e del frisbee.

Oppressa dalla invadenza emotiva di tanti titoloni, cerco riposo in 'titolini'. Difatti a lato, in una colonna grigia, sono riportate tante piccole notizie e in una pausa di ossessività che mi prende ogni tanto e mi fa leggere con estrema attenzione necrologi di sconosciuti e concorsi dai caratteri invisibili, nonchè annunci di perdita e ritrovamento di cani e gatti, leggo soddisfatta finalmente una notizia per me confortante: Il Prozac non convince più …

La soddisfazione ovviamente dura poco. Sono intimamente contenta del calo delle vendite vista l'ottica commerciale che sta dietro ad ogni mito farmacologico. Il "non convince più" però mi porta a pensare a quegli eserciti di persone che hanno sperato, a quell'esercito di medici che si sono fatti ingannare ed hanno ingannato, al dolore sprecato di tante persone, alle vite perdute di tanti suicidi, visto che quest'evento era compreso tra i possibili effetti collaterali e che, mentre in altri farmaci "la sospensione del prodotto annulla gli effetti indesiderati" qui l'effetto poteva essere definitivo e irreversibile. Nel nuovo "bugiardino" (così, guarda caso, si chiama in gergo il foglietto esplicativo che accompagna ogni confezione di farmaci) c'è un distinguo raffinato "l'ideazione suicidaria" può essere un effetto collaterale del farmaco, il "suicidio" attiene alla malattia depressiva quindi non è più considerato effetto possibile del farmaco.

Tornando al calo delle vendite, il giornalista ha forse pensato di essere stato troppo drastico e quindi ci spiega per rassicurarci: "una flessione enorme in parte collegata all'immissione sul mercato del prodotto generico la fluoxetina (notoriamente più a buon mercato dico io), ma soprattutto al cambiamento delle necessità dei pazienti che chiedono ritrovati sempre più forti contro la depressione".

Quindi il mio sollievo all'idea che la visione da panacea universale che accompagnava l'immissione sul mercato del Prozac fosse scemata, non ha ragion d'essere. Infatti il proliferare di servizi ed interviste elogiative di personaggi pubblici che osannavano gli effetti miracolosi della terapia, e episodi come il licenziamento di un professore che aveva osato affermare che il Prozac fa male, restano a conferma della necessità, sentita ubiquitariamente, di farmaci sempre più potenti per contrastare una depressione sempre più vasta. Non è che la malattia del secolo possa avere le connotazioni di "malattia sociale"? E che quindi l'uso massiccio di farmaci senza una concomitante analisi ed eliminazione delle cause serva a poco?

Infatti è sempre lunedì mattina e anche se ho conosciuto molti anni fa la 'depressione' del lunedì, oggi alla ripresa del lavoro settimanale mi sono 'depressa' alla lettura e alla riflessione di come appare la realtà attraverso lo spaccato di un quotidiano diffuso. Mi chiedo che impatto avrà questa piccola notizia, sicuramente ben costruita dal punto di vista giornalistico, sui fiumi di persone che si riversano depressi sui luoghi di lavoro, lasciati soli di fronte alla gestione degli stati d'animo personali, stati d'animo amplificati dalla pressione verso la produttività rispetto alla quale risultano solo spiacevoli ed antieconomiche interferenze fonte di scarsa efficienza e/o di assenteismo.

Spacciare per "necessità dei pazienti" le loro richieste di "ritrovati sempre più forti" è una notevole ambiguità in medicina, che se da un lato manleva il medico dalla sua funzione, dall'altro responsabilizza il paziente non nei confronti di una corretta gestione della propria salute, bensì nei confronti di un'ansia di efficienza a tutti i costi. Questi due piccioni presi con una sola fava, rendono tutti noi, come diceva Winnicott, inconsapevoli giocattoli dell'economia e della politica.

Chi avesse letto il tomo di Oliver Sachs sull'emicrania e fosse stato così perseverante da leggerlo fino alla fine, sarebbe incappato in un concetto di depressione come ritiro, anche biologico, dalla realtà -attraverso l'isolamento dagli stimoli come suoni, luci, persone- che fa dire all'autore che l'emicrania potrebbe essere un estremo tentativo di costringere l'essere umano, incapace di farlo autonomamente, a fermarsi.

La perdita quasi totale di una visione psicodinamica della depressione mi rattrista perchè di depressioni ce ne sono di tante specie (vedi il bel libro di Silvano Arieti "La depressione grave e lieve") e spesso dire: "mi sento depresso", anziché triste o addolorato svaluta la multiforme varietà e ricchezza degli stati d'animo, disprezza la sensibilità rispetto al proprio mondo interno e riduce tutto a sintomo di malattia.

All'inizio del terzo millennio in cui la possibilità delle manipolazioni genetiche a vasto raggio rende quasi risibile la mia preoccupazione sulla manipolazione chimica degli stati d'animo, mi chiedo quale sarà la patologia preponderante del nostro tempo. Infatti la depressione come il raffreddore adesso è 'curabile' dal medico della mutua proprio con l'immissione sul mercato del farmaco generico alla portata di tutti. Anche se tutti sanno che neanche il raffreddore è 'curabile' ("bisogna solo aspettare che passi", "i farmaci servono solo ad alleviare i sintomi", "sarebbe meglio non ammalarsi", "mettersi a letto al calduccio è l'unica vera cura").

Forse la semplificazione e l'impoverimento confusivo degli stati d'animo espressa dal nostro linguaggio quotidiano ci costringerà ad accettare una visione sempre più concreta del mondo interiore fatto non più di sottili percezioni e sentimenti soggettivi, ma di magmatiche e confuse sensazioni 'oggettive' di malessere di cui vogliamo al più presto disfarci, determinate dai nostri neuroni inceppati o dai nostri neuromodulatori pigri e assenti.

La paranoia mi sembra di aver sentito dire è un'altra delle patologie invocate ad ogni piè sospinto, usata come diagnosi o insulto e potrebbe bene definire sia la percezione della realtà esterna densa oggi più che mai di esplosioni di violenza privata e pubblica, sia il senso di persecuzione interna rispetto alla quale invochiamo farmaci sempre più potenti per liberarci di stati spiacevoli e dolori incomprensibili.

Se il seno che turba è la madre che nutre

La notizia
Mamma che allatta cacciata dal locale. Milano - Il Codacons ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Milano contro il titolare di un ristorante che avrebbe vietato a una mamma d'allattare la figlioletta di tre mesi nel giardino del suo locale. "Una manifestazione di intolleranza e insensibilità che si configura come una azione discriminatoria nei confronti della donna e della sua bambina" secondo l'associazione di tutela dei diritti dei consumatori; tanto più che la donna aveva chiesto al titolare di poter utilizzare un locale interno meno affollato, una sala riservata ai non fumatori.
La Repubblica, 13 giugno 2002

Eraldo Walter Machet Il commento
In questi ultimi mesi abbiamo spesso letto notizie di madri che uccidono il loro bambino (soffocandolo, accoltellandolo, mettendolo nella lavatrice, ecc.). Di fronte a queste tragedie tutti abbiamo avvertito nell'immediato orrore e la sensazione di incomprensibilità ha amplificato il vissuto di impotenza. Successivamente, ai sentimenti di compassione per i familiari si sono aggiunti anche quelli di pietà, più che di condanna, per la madre. Ma di fronte alla notizia di una donna alla quale viene vietato allattare in ristorante la sua figlioletta di tre mesi - potendo, in questo modo, svolgere la sua naturale funzione materna - penso che parlare di "intolleranza e insensibilità" non renda ragione dei fatti.

"Poi ella mostrò la cosa più bella del mondo, tale da accecarmi, probabilmente per non farmi vedere l'abisso. Molto gentile, a dire il vero. La mia bocca smise di urlare e iniziò a succhiare quella roba anestetica con la quale 'dovevo addormentarmi '. Molto umano. Potevo morire ridendo e piangendo e sognando di essere grande e amata da lei".

Partendo da questa commovente immagine di D. Meltzer tratta da "Amore e timore della Bellezza" (ed. .Borla, Roma 1989 pg.63), possiamo tentare di cogliere quel che sta dietro a quella "azione discriminatoria". La madre che allatta il bambino è presente nell'immaginario di ogni individuo e in campo artistico l'armonia più totale viene espressa proprio da quella rappresentazione. Penso, ad esempio, alla "Tempesta" di Giorgione, "una delle più meravigliose creazioni dell'arte", direbbe il Gombrich, in cui il dipinto raggiunge una sua unità grazie alla luce e all'atmosfera che permeano la storia di quella madre forse cacciata (anch'essa) con il suo bambino dalla città. Alla "Natività" del Correggio ove il bambinello appena nato, posto accanto al seno della Madonna, irraggia una luce tutt'intorno, illuminando il volto bellissimo della madre felice. Ma anche alla "Madonna dal collo lungo" del Parmigianino, dove le forme innaturalmente allungate rendono possibile rappresentare con semplicità la bellezza naturale di una madre che contempla il volto del suo bimbo beatamente addormentato dopo la poppata.

Penso, inoltre, alla "Madonna della Seggiola" di Raffaello: ogni linea del dipinto tende a realizzare una armonica circolarità in cui madre e bambino, abbracciati, rimandano ad una unione e ad una completezza assoluta. Ricordo, infine, la "Madonna del latte" di Bergognone, la "Vergine con il bambino" di Luis de Morales, tanto per richiamare quei dipinti che più facilmente tornano alla mente per la dolcezza della scena che raffigurano.

Ora, per la psicoanalisi la dimensione estetica ha la sua genesi proprio nei primi mesi di vita, tempo in cui il bambino viene allattato al seno. Pensiamo allo sguardo e alle mani del bimbo attratto dai capelli sciolti della madre che, anche sotto il suo tocco, si muovono un poco durante i momenti in cui la bocca è staccata dal capezzolo, al suo sorriso e ai suoi gorgheggi. Pensiamo, poi, allo stesso bambino, supino in carrozzina sotto un albero che ride e gorgheggia guardando i rami più bassi che oscillano lievemente e le cui foglie fremono sotto la brezza. Possiamo immaginare, probabilmente, un passaggio, "uno spostamento simbolico" dai capelli della madre ai rami dell'albero, per cui il vibrare delle foglie susciterebbero quella beata allegria che gli procurava poco prima la chioma della madre. E quei capelli così belli, proprio perché in quel momento il bimbo riceveva un nutrimento non solo fisico ma soprattutto affettivo, realizzavano quell'adattamento attivo della madre ai suoi bisogni più profondi.

Malgrado ciò nessun evento delle vita adulta incute un tale timore reverenziale per la bellezza e per lo stupore quanto questo, legato agli eventi dell'allattamento al seno. Eppure scrive Meltzer: "L'esperienza estetica della madre con il suo bambino è normale, regolare, abituale, in quanto ha millenni alle spalle, sin da quando l'uomo vide per la prima volta il mondo 'come' bello. Sappiamo che questo risale per lo meno all'ultima glaciazione". Sono i limiti delle nostre capacità di identificarci con il neonato che lo rendono, nei nostri pensieri, privo di forma mentale? Anzi: che suscitano, come nel caso di questa notizia, il bisogno di cacciare la madre dal locale, di rifiutarla? Una lettura che vada più in profondità, come quella psicoanalitica, ci ricorda l'importante funzione strutturante del seno contro il rischio della frammentazione. Il calore del latte che scende all'interno del corpo procura benessere, rassicurazione e permette al neonato di costruire progressivamente una percezione unitaria di se stesso che contrasta le angosce persecutorie generate dalla fame, mentre lo stesso capezzolo in bocca assicura un baluardo esterno che porta ad una primaria sicurezza di base. Ma quello stesso seno materno ben presto genera anche una serie di incertezze: che cosa c'è nella mente della madre? E' bella anche nel suo interno invisibile o nasconde oggetti ed intenzioni pericolose? Sì, perché il bambino non può comprendere il senso del comportamento della madre, del suo esserci e non esserci, dei suoi cambiamenti emotivi che scorge nel mutare del suo volto, della sua voce che cambia di tonalità e delle sue parole così indecifrabili. Altra fonte di insicurezza che assilla il neonato circa l'inadeguatezza delle figura materna coinvolge persino lo stesso allattamento al seno. Anch'esso offre un messaggio enigmatico e ambiguo. Da un lato, il latte di quel seno toglie i morsi della fame, provocando benessere, sazietà, quiete; dall'altro, quello stesso latte ad un certo punto terminerà, e non solo si tramuterà in un contenuto interno che genera fastidiose tensioni che il neonato deve espellere.

Allora chi è dunque la madre: Beatrice, colei che genera beatitudine, o la Gioconda che porta alla perdizione?

Questo interrogativo sulla reale natura di un "oggetto" così buono e così bello fa sorgere quel doloroso dubbio, che Meltzer chiama "conflitto estetico".

Nella storia relazionale di un individuo, tanto più il rapporto con la madre è stato disturbato, tanto più quel conflitto si accentua e tanto più egli diventa insofferente a quella bellezza originaria, alla precarietà e alla enigmaticità che essa suscita.

Mi chiedo, allora, se il rifiuto ad accettare la presenza di una madre che allatta in un ristorante non sia causato proprio da vissuti angoscianti che quell'immagine bellissima poteva richiamare. Vissuti ancor più accentuati dal fatto che il nutrimento della madre rimanda comunque ad un rapporto effettivo, ad un contatto emozionale mentre il nutrimento del ristoratore … a che cosa può rimandare?