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La fame degli affamati e la sazietà dei sazi

La notizia
I Ministri dell'Agricoltura di varie parti del mondo si riuniranno a Roma in occasione del World Food Summit, il vertice mondiale dell'alimentazione. […] Il fatto è che centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all'alimentazione umana. I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri tipi di bestiame, tutti nutriti di foraggio, mentre i poveri muoiono di fame.
L'Espresso, 13 giugno 2002

Stefania Magnoni Il commento
La fame… ma noi abitanti di paesi industrializzati, che per sorte anagrafica la guerra l'abbiamo solo sentita raccontare, sappiamo pensarla? E', in realtà, un'esperienza di cui abbiamo conoscenza solo teorica, ma che non ci ha mai realmente messo a rischio di vita, qualcosa che, in senso fisico non è mai passata dentro di noi, lasciando segni devastanti.

La fame di cui, invece, ciascuno di noi può, indipendentemente dall'anagrafe e dal censo, sentire e aver acutamente sentito i morsi, è la fame di affetti, di relazioni significative e credibili che ci abbiano aiutato e ci aiutino a tracciare la nostra mappa interiore, permettendoci così di riconoscerci capaci di pensiero e di emozioni e quindi anche di senso di responsabilità e di preoccupazione per le conseguenze delle nostre azioni, delle nostre scelte e spesso delle nostre non-scelte.

Forse di questa fame primigenia portiamo più o meno pesantemente i segni dentro di noi e li riveliamo nella fatica ad avere uno sguardo che decodifichi quanto accade un poco più distante dal nostro piccolo orticello.

Dopo i fatti di Genova del luglio scorso abbiamo forzatamente preso contatto con complesse realtà di politica economica e di strategie su base planetaria che in altro modo potevano rimanere ancora per un po' distanti dalla nostra coscienza di non-addetti-ai-lavori.

Quasi improvvisamente ci siamo accorti di abitare su un piccolo pianeta e abbiamo, forse, sentito il bisogno di capire meglio cosa c'era dietro parole sufficientemente nuove e oscure: globalizzazione, ogm, e commerce…

L'appuntamento del World Food Summit che si svolge in questi giorni a Roma sotto il patrocinio della FAO ci stimola ad alcune riflessioni.

L'articolo di Jeremy Rifkin- docente alla Wharton School dell'Università di Pennsylvania, presidente dell'Institute on Economic Trend di Washington, considerato guru del popolo di Seattle- spiega con imbarazzante lucidità cosa stiamo facendo del nostro pianeta e dei suoi 'inquilini'.

"Negli ultimi 50 anni la nostra società globale ha costruito a livello mondiale una scala di proteine artificiali sul cui gradino più alto ha collocato la carne bovina e quella di altri animali nutriti a foraggio. Oggi i popoli ricchi, specie in Europa, Nord America e Giappone, se ne stanno appollaiati in cima a questa catena alimentare divorando il patrimonio dell' intero pianeta. Il passaggio avvenuto nel mondo agricolo dalla coltivazione di cereali per l'alimentazione umana a quella per il foraggio per l'allevamento degli animali rappresenta una nuova forma di umana malvagità, la cui conseguenze potrebbero essere di gran lunga maggiori e ben più durature di qualunque sbaglio commesso in passato dall'uomo contro i suoi simili…. Mentre le questioni della proprietà e del controllo della terra sono sempre stati temi di grande rilevanza, il problema di come la terra venisse utilizzata ha sempre suscitato meno interesse nell'ambito del dialogo politico. Eppure, è stata la decisione più iniqua della storia quella di usare la terra per creare una catena alimentare artificiale che ha portato alla miseria centinaia di milioni di esseri umani nel mondo… Il passaggio dal cibo al mangime continua velocemente in molti paesi in modo irreversibile, nonostante il crescente numero di persone che muoiono di fame…Nel 1984, quando in Etiopia migliaia di persone sono morte di fame, l'opinione pubblica non era al corrente che in quel momento l'Etiopia stesse utilizzando parte dei suoi terreni agricoli per la produzione di pannelli di lino, semi di cotone e semi di ravizzone da esportare nel Regno Unito e in altri paesi europei come cereali foraggieri destinati alla zootecnia."

E' evidente che l'analisi di Rifkin scuote pesantemente le nostre coscienze, se per caso si trovavano appollaiate in una zona di confort dalla cui prospettiva questi panorami erano stati opportunamente tagliati via. E allora proviamo a percorrere la scomoda strada della consapevolezza, sempre meno di moda, ma forse anche grazie a questo, foriera di una possibilità di riparazione autentica nel promuovere, a partire dal singolo, una cultura degli affetti e della responsabilità, una logica individuale e sociale che privilegi processi di integrazione piuttosto che tollerare massicce scissioni. Mi spiego meglio: è sempre con un certo stupore che si riscopre ciò che già si sapeva, e cioè che possiamo verificare una corrispondenza piuttosto precisa tra le dinamiche del funzionamento a livello macrosociale e quelle intrapsichiche.

Lasciando quindi agli economisti il compito di monitorare il panorama mondiale e di indicarci quali e quanti rischi l'umanità sta correndo, ma anche su quali linnee si sta muovendo a livello creativo e quali sono i cambiamenti sociali a cui ogni singolo è chiamato a partecipare, siamo in grado, in realtà, di ridurre le distanze tra prospettive (quella economica e quella psicodinamica) che possono sembrare molto lontane. E non credo che questo accorciamento sia un effimero effetto della globalizzazione!

Nell'occuparci, come psicoterapeuti, della complessità, delle fatiche, del dolore e delle potenzialità creative ed affettive del mondo interiore nostro e altrui abbiamo la possibilità di cogliere attraverso quali sofisticati meccanismi l'essere umano cerchi di proteggere la sua quotidianità dall'angoscia esistenziale e con quale dispendio di energie si impegni a riparare quei "vuoti di senso" che le prime esperienze relazionali hanno prodotto.

Sebbene ogni persona abbia un suo stile unico di distorsione percettiva della realtà interna ed esterna, uno dei modi più frequenti di padroneggiare l'angoscia è scindere, isolare e distanziare da noi tutto quanto si ha il timore possa scuotere un equilibrio che, per quanto precario e illusorio, è l'unico faticosamente raggiunto. Ogni elemento nuovo determina un disturbo, una turbativa. Accoglierlo, quindi, richiederebbe un cambiamento nel nostro assetto interiore nella direzione dei processi di integrazione. Ma, emotivamente parlando, il cambiamento è al contempo ciò che più è necessario per costituire un'interiorità duttile in grado di apprendere dall'esperienza, e ciò che più ci terrorizza e ci spinge ad attivare tutte le istanze difensive di cui siamo capaci.

Credo che già a questo primo livello sia possibile dire che ci comportiamo con il mondo planetario un po' come con il nostro microcosmo interiore: noi 'fortunati' appartenenti a quel 20% che detiene il potere economico e tecnologico, vogliamo continuare ad averne sempre di più, ma vogliamo anche starcene in pace, non essere disturbati dai problemi di chi è escluso da questo circuito. La fame diventa una cosa lontana su cui, di tanto in tanto, per una sorta di impacco lenitivo alla coscienza, possiamo buttare uno sguardo con qualche gesto di 'generosità', a patto che sia molto attento a non spostare le nostre certezze, anzi se mai fortifichi in noi la convinzione di essere buoni. I cattivi sono senz'altro gli altri, quelli, per esempio, che a questi gesti neanche ci pensano o i Governi che non fanno a sufficienza; e noi ovviamente con i Governi non abbiamo niente da spartire…

Il gioco è fatto. L'indifferenza è servita come piatto della nostra tavola quotidiana.

Una parvenza di stabilità è momentaneamente garantita, ma a quali costi? Abbiamo tenuto a debita distanza la disperazione e l'angoscia più devastante che l'uomo possa sperimentare, quella cioè legata alla sopravvivenza -la lotta per la sopravvivenza fisica ci rimanderebbe ineluttabilmente all'angoscia rispetto ad una catastrofe interiore-, ma abbiamo alimentato unicamente i nostri aspetti onnipotenti, non siamo stati in grado di contrastare l'avanzata di istanze aggressive e distruttive che sono andate a minare pesantemente le nostre potenzialità affettive.

Abbiamo perso cioè la capacità di provare 'preoccupazione' per l'Altro in qualunque parte del pianeta si trovi, e forse anche per noi stessi, per la nostre fragilità, per i nostri bisogni di autentica comunicazione.

Falsamente liberati dall'imbarazzante tema della sopravvivenza del nostro pianeta nella sua interezza e non solo in un piccolo privilegiato angolino, ci ritroviamo -a livello individuale e mondiale- afflitti da analoghe cecità.

Siamo anche in grado di stupirci che privilegiare la strada delle scissioni, del potere per il potere, del allontanare dalla coscienza gli aspetti sofferenti individuali e macrosociali, del disattendere il lento e faticoso processo di coscientizzazione, porti nel tempo i suoi tossici effetti.

Incapaci di prendere contatto con le emozioni, spaventati dalle relazioni affettive, sempre più distanti dai luoghi interiori dove insieme al dolore e all'angoscia potremmo trovare anche risorse e potenzialità, maltrattiamo il nostro pianeta nelle persone e nel "fisico". In tal modo rientra dalla finestra ciò che abbiamo creduto di cacciare fuori dalla porta!

Un'umanità così irrigidita da patologie difensive sempre più diffuse e più sofisticate, è anche in difficoltà a cogliere i movimenti trasformativi: o rischia di subirli trovandosi scaraventata dalla parte degli "esclusi" (anche se per caso appartenente alla casta degli industrializzati), o partecipa a questa moderna 'corsa all'oro' senza però chiedersi "se per abitare in un mondo più ricco si è disposti ad abitare un mondo selettivo, competitivo, duro, in cui vige sostanzialmente la legge del più forte, e dove i vincitori vincono e gli sconfitti perdono" (A. Baricco, Next). Cogliere la possibilità di porsi "davanti al panorama vero del nostro tempo, così diverso dalla cartolina truccata che vendono negli empori del potere" (idem) ci potrebbe permettere invece di partecipare ad un flusso, comunque vitale e trasformativo, attraverso la valorizzazione della cultura come base che informi di sé l'economia e la politica e riesca a contrastare movimenti anticonoscitivi ai vari livelli a cui possono manifestarsi.

Se è vero che le 'zone oscure ' ci appartengono e sarebbe ingenuo e illusorio pensare ad un mondo o ad una persona 'totalmente positivi ' è altrettanto vero che l'unico modo di negoziare con questa realtà in senso costruttivo è farsene carico, cioè non ritrarsi inorriditi, integrarla a ciò che di positivo sentiamo di possedere, in modo che l'insieme finale sia un tutt'uno sufficientemente integrato e quindi capace di funzionare occupandosi affettivamente, creativamente e responsabilmente anche degli aspetti sofferenti riconosciuti, finalmente senza vergogna, come propri.

Due nemici ho io a questo mondo,
due gemelli indissolubilmente fusi:
la fame degli affamati e la sazietà dei sazi

(Marina I. Cvetaeva)

Giochi pericolosi

La notizia
Un operaio chiede aiuto al 117: "Aiuto: mi sono giocato due stuipendi!"
Il Secolo XIX, 31 maggio 2002

Maurizio Lo Faro Il commento
Sempre più di frequente leggiamo, in mezzo ai trafiletti pubblicitari e alle foto che spingono al consumo di oggetti o persone, che qualcuno si è rovinato giocando ai videopoker truccati. E' il caso, tra i tanti, di un giocatore che ha chiesto aiuto alle Fiamme Gialle "[…] un operaio di Cornigliano che, dopo aver fatto il numero di soccorso pubblico ha detto ai finanzieri: Aiutatemi perché non ce la faccio più. In pochi giorni mi sono giocato in queste maledette macchinette, 2500 euro, che rappresentano due miei stipendi".

E' il problema della dipendenza che si ripresenta, forse, in una forma adatta ai tempi e prende l'abito di una macchinetta cromata e luccicante che produce suoni spesso confusi e assordanti. La dipendenza rimanda allo stato della schiavitù, dunque a una lotta impari del soggetto con una parte di se stesso. Colui che è soggetto ad una dipendenza (farmacologica, alcolica, oppiacea, bulimica, sessuale o, in questo caso, da gioco) non vive il suo oggetto come cattivo; al contrario, lo ricerca come depositario di tutto ciò che è "buono", di tutto ciò, che nei casi estremi, da senso alla vita. Se si aggiunge la dimensione di pericolosità o di negatività questa ha la funzione di un "vantaggio secondario" che con tutta probabilità ha come scopo la punizione del soggetto. La dipendenza è uno scenario piuttosto comune, rappresenta la tendenza a rifuggire, per mezzo di vari paradisi sostitutivi, il dolore psichico generato dalle delusioni e dai dispiaceri che costellano la vita di ogni essere umano.

Così il soggetto può aggrapparsi ad un oggetto, una droga o qualcosa utilizzata come tale.

Quest'oggetto, nello specifico il gioco, ovvero la macchina dei videopoker, sarà destinato a procurare al soggetto il sentimento di essere "reale", "vivo", destinato a colmare un vuoto di senso per quanto riguarda la sua identità e il modo di pensare il mondo. Esso sarà ritenuto completamente responsabile di tutto quello che capita all'individuo: cioè che possa dargli la felicità, e non si tratta solo di una speranza ma quasi di un dovere.

Quando, presto o tardi, l'oggetto si rivela inadeguato a questa aspettativa il soggetto si sente tradito e deluso accusandolo di essere la causa di tutte le sue disgrazie.

Nell'iniziale idealizzazione, l'oggetto della dipendenza viene riempito di ogni significato salvifico: esso è utile per soddisfare tutti i bisogni, in esso si ritrova la "madre buona" sempre presente che gratificherà ogni nostro desiderio. Il videopoker, nello specifico, assume quindi, su di sé, il simbolo di qualcosa che in maniera onnipotente ci farà vincere denaro senza dover fare la fatica per ottenerlo, e per questo è il corrispettivo di un guadagno fatto in maniera magica ed immediata. Nel contempo, giocare può soddisfare in maniera "eccezionale" il bisogno di provare emozioni, di sentire e sentirsi, quando per converso, nella vita di ogni giorno ci si può ritrovare nell'appiattimento emotivo, affettivo, relazionale.

Di fronte al vissuto di de-realizzazione e di de-personalizzazione e nella difficoltà a trovare in sé emozioni che diano un significato alla vita si richiede in maniera "perversa" al gioco, alla droga, al sesso o ad altro di riempire in noi questa sensazione di vuoto, questo buco in cui ci troviamo immersi.

"E se nei casinò c'è almeno la cultura del gioco e il rapporto con gli altri, nell'azzardo tecnologico il giocatore ha un rapporto morboso con i videopoker che effettuando giocate continue con la stessa macchinetta la "sente sua" e arriva a perderci tanto denaro": il rapporto non ha più senso in questa dinamica in quanto l'altro diventa un mero contenitore dei nostri bisogni che devono essere soddisfatti. Per fare questo, per poter idealizzare a tal punto qualcosa dobbiamo non riconoscere nessuna peculiarità propria all'oggetto idealizzato al fine di proiettare noi stessi le caratteristiche di cui abbiamo bisogno, e se nel casinò era almeno possibile una relazione con gli altri, portatori di loro vissuti e limiti, nei videopoker il "rapporto" si instaura con una macchina priva di vita propria, in altre parole in un altro noi stessi.

Attribuire ad un videopoker una ricerca di senso così ampia non può che essere infine fallimentare. Ciò accade sia in caso di vincita, peraltro rara, dove il soddisfacimento esterno del bisogno non riesce a coprire l'ampiezza incolmabile del bisogno stesso. La soddisfazione di questo rimanda alla presenza nella prima infanzia, di una madre "sufficientemente buona" interiorizzata in modo tale da poterne sopportare affettivamente la sua assenza. Ancor più in caso di perdita (nella maggior parte dei casi) si aggiunge una sensazione di impotenza di poter fruire di un tal bene desiderato e per sempre perso e un senso di colpa che ogni volta si rinnova spingendo il soggetto con sempre maggiore sofferenza a cercare una disconferma alla malvagità della sorte e al senso di vuoto.

Ricostruzione, riparare

La notizia
Chiude Ground Zero, New York torna alla vita. Con tre mesi di anticipo, il cantiere sorto sulle macerie del Word Trade Center ha completato i lavori.
Il Corriere della Sera, sabato 12 maggio 2002

Il commento
Tanti drammi e tante questioni aperte hanno occupato in questi giorni la nostra mente, ma voglio prendere lo spunto dalla fine di un incubo, da un cantiere che si chiude per cominciare a costruire.
Tra meno di due settimane, Giovedì 30 Maggio, dal cratere profondo 7 piani, dov'era il Word Trade Center, verrà portato via l'ultimo carico e il cantiere chiuderà.
Adesso il tempo deve ripartire, e deve ripartire proprio da lì, da questo spazio vuoto che sembra paradossalmente più piccolo, come capita nelle case senza mobili.
Dal 30 maggio comincia il domani, sul domani le famiglie dei 2823 morti innocenti, hanno le idee chiare.
Considerando Ground Zero un'area sacra, vorrebbero che rimanesse il vuoto, e che se costruire si deve, si costruisse solo un grande Memoriale.

Ma a progettare il futuro dell'area sono al lavoro quindici gruppi di ingegneri e architetti che presto sottoporranno i loro piani alla Lmdc (Lower Manhattan Development Corporation) la società voluta dal governatore Pataki per ricostruire. Pataki, che qui si gioca la rielezione, deve superare veti incrociati e scontentare meno gente possibile. La vita va avanti e insieme alla vita la corsa dei soldi e dei voti.
I sedici acri di Manhattan, in questa ricostruzione sembrano non poter contenere più né il dolore né i ricordi.
Lo spazio dove abitiamo, la città in cui viviamo non sono altro che una proiezione della nostra anima. Le Twin Towers che svettavano potenti, sembravano toccare il cielo, sembravano soddisfare l'anelito dell'uomo ad elevarsi verso l'alto.
Dalla costruzione della prima piramide, Azteca o Egiziana che fosse, l'uomo ha sempre cercato di costruire verso l'alto, sperando così di superare se stesso e la sua finitezza.
L'11 Settembre 2001 due jet dirottati da terroristi di Al Quaeda si schiantavano contro le Twin Towers, che con la loro imponenza erano il simbolo del potere economico occidentale.
Ora il 30 maggio si tratta di portar via da quell'area l'ultimo carico, ma mi chiedo se insieme a quell'ultimo carico se ne andrà anche il ricordo della rabbia e della violenza che ha reso possibile tale gesto? Sarà, mai possibile cercare di capire come mai tutto questo è accaduto?

Il grande Memoriale che si vorrebbe costruire sopra a quel vuoto lascerà l'anima libera dall'odio? Un memoriale ricorderà ad ogni parente dei caduti la dolorosa perdita subita, è una richiesta più che legittima, ma forse può far ricordare solo un aspetto di questa tragedia, può ricordare la perdita di vite innocenti, ma non il conflitto soggiacente che ha fatto sì che questo accadesse. Ognuno chiuso nel suo dolore potrebbe continuare ad odiare chi gli ha provocato tanta pena. Certamente, cancellando il dolore si potrebbe tornare a ricostruire verso l'alto, forse si potrebbe far meglio, forse due torri più alte potrebbero alzarsi verso l'infinito, ma ripristinare la situazione precedente non assomiglia ad una coazione a ripetere lo stesso errore nel tentativo di riparare? Tornare a ricostruire è un atto creativo…

"L'attività artistica è dunque intesa come un'attività riparativa che ri-crea i propri oggetti, li esteriorizza e li separa da sé, dando loro una nuova realtà, ma costruire significa scoprire nuove relazioni tra gli oggetti, e questo rappresenta un aspetto particolare della conoscenza"(Mancia 1990)

E quindi forse mi chiedo se non si debba continuare a scavare, ma non per recuperare corpi o resti di corpi, ma provare a scavare nella profondità dell'animo umano nell'odio tra gli uomini. Forse scavando si potrà capire come l'esibizione della propria potenza ad un certo punto crolli se non supportata da solide radici, e forse si potrà capire come l'odio per chi ha più potere di noi, ci rende simili a lui e capaci delle stesse crudeltà.
Il 30 maggio, quindi, l'ultimo carico si allontanerà e rimarrà il vuoto, un vuoto senza parole che se si riuscirà a tollerare cercando di controllare l'ansia di riempirlo con parole gesti e costruzioni potrebbe aiutarci a capire.

Scrive Henry David Thoreau in Walden o la vita nei boschi "Sul tavolo tenevo 3 pezzi di calcare, ma rimasi atterrito al pensiero che avevano bisogno di essere spolverati ogni giorno, mentre il mobilio della mia mente era ancora pieno di polvere. E disgustato li buttai fuori dalla finestra."

Una morte dolcissima

La notizia
Eutanasia davanti a parenti e amici. Si uccide la paladina della dolce morte: ''Non voglio farlo da sola''.
La Repubblica, 24 maggio 2002

Gisella Troglia Il commento
Una notizia come questa riaccende nell'opinione pubblica il dibattito su eutanasia e diritto alla morte, argomento a dir poco scottante in questa società, poiché il tema della morte, oggi, è un vero e proprio tabù, l'equivalente, forse, di quel tabù che era nell'ottocento il tema del sesso.

Oggi non se ne vuol parlare, tutta la società, particolarmente quella parte che si definisce "laica", tende ad eludere il discorso in ogni modo; assistiamo tutti i giorni a celebrazioni funebri frettolose, con riti il più possibile abbreviati, è diventato disdicevole, a differenza che nel passato, esibire il lutto, tutti si affannano a dimostrare con le parole e con i fatti che "la vita continua"…

Non è sempre stato così, perché, all'opposto di oggi, fino a tutto l'ottocento la morte era in stretto contatto con il contesto sociale, era un evento che, pur appartenendo alla vita dell'individuo, come tanti altri episodi poteva essere condiviso ed esplicitato in atteggiamenti, manifestazioni, riti sociali.

Nella società contemporanea, invece, riceve grande enfasi soltanto tutto ciò che sposta in avanti il prolungamento indefinito della vita e la vittoria sul tempo, a ribadire l'estraneità e l'indisponibilità ad incontrare l'evento morte: la sofferenza, la malattia, il dolore e la morte vengono relegati in luoghi appositi, tecnicamente adatti a gestirli, e di contro assistiamo alla rincorsa di scoperte scientifiche ed innovazioni tecnologiche che promettono giovinezza, salute, prolungamento della vita, il consumismo si nutre di farmaci salva-vita, di tecniche chirurgiche, di manipolazioni, di accanimenti terapeutici.

Ritengo perciò ancora più "scandalosa" una notizia come questa che proviene dall'Australia, perché racconta di una scelta rivolta nella direzione opposta alla quale sembra tendere la società oggi: atti come questi appaiono provocatori, e lo sono, poiché costringono a prendere coscienza del dolore sopportato dalle persone malate, a riflettere sulla libertà dell'individuo, risvegliano le ideologie laiche e religiose, fanno discutere sui provvedimenti legali da adottare, insomma scagliano l'evento morte nella quotidianità della vita sociale.

In quasi tutto il mondo, infatti, l'eutanasia non è consentita e ci sono conseguenze legali per chi eventualmente la procura, l'obbligo imposto ai medici è sempre quello terapeutico, di cura ad ogni costo: la medicina, si dice, prolunga il più possibile la vita, non procura la morte.

Per questo Nancy Crick aveva chiesto il permesso al tribunale di mettere fine ai suoi giorni, e soprattutto voleva impedire che venissero perseguiti coloro che eventualmente l'avessero aiutata: "Non sono depressa, sono arrivata al termine della mia vita e voglio morire in pace".

Un atto coraggioso, che ci può aiutare a riflettere su un'ulteriore, più vera e più autentica, dimensione della vita e della libertà dell'individuo.

Non è un caso se i mass media danno grande risalto a tali avvenimenti, dato che la provocazione scandalosa insita in essi consiste non tanto nella rivendicazione di alcune persone malate gravi del diritto a morire, e ad una morte dignitosa, senza ulteriori inutili sofferenze, ma soprattutto nel ribadire il diritto a essere fino all'ultimo vivi, compiendo in piena coscienza un atto di scelta libero e personale: quello di morire "da vivi", appunto.

Sappiamo da Freud che nella profondità della sua vita psichica l'uomo si sente immortale, nell'inconscio la morte non esiste, vi è una spinta istintiva a viversi come immortali, a non voler credere di essere finiti: "La propria morte è irrapresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo constatare che in realtà siamo sempre presenti come spettatori. Perciò … ciò equivale a dire che nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità." (S. Freud, "Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte").

Appare perciò quasi ovvio che in ogni tempo gli individui abbiano rifiutato il concetto di morte, soprattutto della propria, ma in nessuna epoca storica si è avuto un rifiuto sociale così profondo e manifesto su tutti i temi legati a sofferenza, malattia, morte: questo spiega l'allontanamento dei malati e dei morenti, la solitudine affettiva nella quale vengono lasciati, la delega costante della loro sofferenza alla medicina, tutti esempi di una profonda negazione.

Al contrario, rivendicare la possibilità di scelta di porre fine ai propri giorni se malattia e dolore diventano insopportabili, se per queste sofferenze si sente di non poter più essere esseri vivi e vitali, diventa, paradossalmente, un atto di rivendicazione di vita, di esistenza, sempre, nel qui ed ora.

In senso psicologico l'individuo non sarebbe tale se rifiutasse l'idea della morte, poiché essa, come atto della vita, come confine che permette di costituirla e di definirla, è elemento fondante della vita stessa. Vita e morte costituiscono un unico processo di crescita, dove l'una è indispensabile all'altra per avere dignità di esistenza: anche se sembra che oggettivamente siano in opposizione radicale, perché dove c'è vita non c'è morte e viceversa, in realtà, per essere, la vita ha bisogno della morte.

Una pietra infatti non muore, ma perché non è viva: il paradosso dell'uomo è aver bisogno di morire per vivere in autentica pienezza la propria esistenza.

Un valido esempio di questa vitalità intrinseca nel concetto di morte è dato dall'innamoramento e dalla relazione d'amore, le persone innamorate dichiarano e sentono di poter amare fino al punto di morirne, la letteratura e l'arte di tutti i tempi sono permeate dal binomio amore - morte.

Allora se la vita può essere vista solo sullo sfondo della morte, essa diviene non qualcosa di definitivamente dato da far trascorrere, ma sempre la possibilità di un percorso da compiere, costellato di scelte, di progettualità, di cambiamenti; inoltre, guardare le cose da questo punto di vista, può significare anche spogliare gli avvenimenti che ci capitano e le relazioni che viviamo di tutti gli orpelli inutili che vi mettiamo sopra, per ricondurli invece all'essenziale, senza false certezze ma costretti, a quel punto, a cercare la verità, esaltando l'importanza degli individui in quanto assolutamente legati alla loro precarietà, e perciò tanto più preziosi nell'esistenza e nei gesti.

L'etimologia della parola eutanasia indica "buona morte"; credo si possa accettare questo significato, se con esso intendiamo la possibilità di porre fine a sofferenze e ad accanimenti terapeutici inutili, con la consapevolezza e la libera scelta di aver terminato il proprio percorso, come la signora australiana ci ha indicato.

Nella nostra società l'eutanasia non è ancora un diritto acquisito, nonostante numerosi movimenti di opinione tentino di diffondere questo orientamento, così in controtendenza rispetto alla negazione dell'idea stessa della precarietà e determinatezza dell'esistenza umana.

Assistiamo a battaglie durissime per affermare il diritto di una persona di terminare la sua esistenza in modo umano, dignitoso e senza inutili sofferenze, un'affermazione di autonoma scelta che rientra nelle libertà personali di ogni individuo, ma non è ancora un diritto riconosciuto legalmente in quasi nessun stato del mondo.

Questa volta la notizia proviene dall'Australia, ma non è la prima e non sarà l'ultima, e credo che episodi come questo meritino tutto il nostro rispetto, perché deve essere davvero estremamente difficile, oggi, in questa società, diventare vecchi, essere malati, sentire avvicinarsi la morte; arrivare poi addirittura a decidere di sceglierla volontariamente e non di farla capitare soltanto, è sicuramente un momento e un atto che tutti vorremmo evitare, al quale aderiamo con fatica, con dolore e con rabbia, così come ci ha descritto Simone de Beauvoir in "Una morte dolcissima": "Non esiste una morte naturale; di ciò che avviene all'uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo. Tutti gli uomini sono mortali: ma per ogni uomo la propria morte è un caso fortuito, ed anche se la conosce e vi acconsente, una indebita violenza" .

La pensione per gli anoressici

La notizia
La Corte Costituzionale ha posto fine ad una controversia legale fra una cittadina residente in Calabria e lo Stato, dichiarando la signora in questione invalida civile e meritevole, quindi, di una pensione di invalidità. La signora è stata dichiarata invalida al 100% perché non in grado di svolgere alcuna attività lavorativa in quanto anoressica.
Il Secolo XIX, venerdì 10 maggio 2002

Il commento
Questa notizia mi ha colpito perché attribuisce lo status di invalido civile a una categoria di persone molto particolare: coloro che soffrono di anoressia. L'anoressia è un disturbo sempre più diffuso, colpisce in prevalenza i giovanissimi e quasi esclusivamente il sesso femminile.

Generalmente si tratta del precipitare di una dieta che inizia, molto spesso, proprio in questo periodo: sta per arrivare l'estate e sembra essere necessario ''mettersi un po' in forma''.

Capita però qualche volta che la dieta, il peso, la linea, diventino improvvisamente l'unica ragione di vita e il cibo il principale nemico. Un nemico da dominare più che da eliminare.

I sintomi sono abbastanza precisi e individuabili: insorgenza prevalentemente nella fase adolescente o preadolescente della vita, scomparsa o non raggiungimento delle mestruazioni (questo capita sempre), raggiungimento di un peso assolutamente basso - meno di quaranta chili in una persona di media statura -, anemia, alternanza di ''abbuffate'' e di vomito indotto (bulimia), abuso di lassativi e di diuretici e vari altri disturbi organici e psicologici che possono evidenziarsi come ad esempio uno stato fortemente depressivo.

In corrispondenza a questo quadro clinico oggettivo si può abbinare un quadro psicologico: asserzione perentoria di non soffrire la fame, tentativo di tenere sotto controllo l'enorme interesse che ruota attorno al cibo, occuparsi ossessivamente di tutto quanto riguarda il cibo: ricette, diete, occuparsi degli acquisti, vivere secondo l'ideale della supremazia assoluta della mente sul corpo, secondo una visione irrealistica di sé facendo, ad esempio, un esercizio fisico smisurato per tenere sotto controllo il peso e il corpo in generale.

Credo che la visione di una persona che soffre di questa sindrome sia una esperienza molto dolorosa e toccante. Il primo impulso è quello di fare immediatamente qualcosa per porre rimedio istantaneamente a questo problema.

In realtà credo che l'anoressia sia, come qualunque altro disturbo, un segno, il segno che c'è qualcosa che non va a livello emotivo e, se non si prova ad affrontare quello, non è possibile fare molto.

Non si può combattere l'anoressia, sono troppo forti le ragazze che ne soffrono, bisogna provare ad ascoltarle mentre soffrono terribilmente e non si tratta di un compito semplice.

Capita che, ad un certo punto, non si possa fare altro che ricoverare la persona in ospedale e alimentare ''a forza'' la malata. Funziona quasi sempre: per qualche giorno si salva la vita della ragazza, ma non si va più avanti di così.

L'anoressia è, però, un disturbo particolare ed aiutare queste persone è più difficile. Si tratta di persone che diventano degli ''studiosi'' delle problematiche alimentari e nutrizionistiche. Si tratta di persone normalmente dotate che da un certo momento in poi diventano delle ANORESSICHE, cioè non si considerano più come soggetti, ma come la somma di tutte le qualità (la magrezza, per altro mai sufficiente) e i problemi di una anoressica. Una ragazza che soffre di anoressia smette una identità di genere difficile e problematica e assume l'identità di ANORESSICA, quasi fosse un terzo genere ancora non tanto conosciuto.

Per queste ragioni mi ha colpito questa notizia, sono certo sia stata letteralmente ''divorata'' da tutte le persone che soffrono di anoressia che probabilmente otterranno da ciò un rinforzo perverso alla identità che sembra essere l'ultima cosa che è loro rimasta.

Non intendo con ciò svalutare il problema o sostenere che una persona che soffre di anoressia possa o debba lavorare come tutti gli altri, sicuramente farà molta più fatica, voglio soltanto dire che in casi come questo è più che mai evidente l'inutilità di un supporto di questo genere che, quasi, spinge a mantenersi malate. Non tanto per l'assegno, quanto per il riconoscimento ottenuto, in questo caso anche a livello statale e istituzionale.

Per spiegare in breve come possa essere impegnativo il lavoro di psicoterapia con una paziente anoressica voglio portare un esempio tratto da un libro: Lo psichiatra, 'il suo pazzo' e la psicoanalisi, di Maud Mannoni, una psicoanalista francese.

Fra l'altro nel libro si parla di Sidonie, una ragazza di 17 anni che, dopo cinque ricoveri ospedalieri viene portata dalla psicoanalista. I medici dicono: Persa per persa può andare a trovare uno psicoanalista!

È probabilmente proprio il fatto che si sa che si sta facendo un tentativo ben sapendo che esiste la prospettiva di morire che consente alla psicoanalista di stare vicino alla ''bambina'' e alla bambina di vedere la psicoanalista.

Dice ad un certo punto Sidonie: Voglio provare al mondo che posso resistere fino all'estremo limite di resistenza alla morte. Bisogna lasciarmi andare fino là, lasciarmi fare ciò che voglio.

Probabilmente per la prima volta Sidonie trova qualcuno che ascolta ciò che lei dice e di conseguenza la rispetta, rispetta il suo desiderio dolorosissimo di morire. L'analista prova ad accettare e a soffrire insieme a Sidonie e acconsente al suo desiderio di rifiutare il cibo.

È come se la Mannoni dicesse: Va bene, ti accetto. Sia morta che viva. Il tuo desiderio è importante''. E in un rapporto umano, quale è quello analitico, se si accettano i desideri dell'altro è possibile che si crei, piano piano, lo spazio perché ne vengano formulati di nuovi e di diversi.

Nel caso di Sidonie è stato possibile, ad un certo punto, trasformare il pensiero ''voglio morire'' o ''Non voglio mangiare'' in ''Voglio vivere'', e non è, questa, un impresa più facile.

Concludo con le parole di Sidonie: Se perdo la mia malattia, non so che cosa guadagno alla fine. Io sono in un'impasse perchè non so quello che troverò... Tutti sono contenti se io guarisco, non si rendono conto che l'importante non è questo. Non comprendono che ciò che conta sono i miei desideri. Cosa serve che io viva, se sono condannata alla morte dei miei desideri?