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Il bambino che non c'è

La notizia
Culle vuote, piano del governo meno tasse per chi fa figli... un allarme quello che il Presidente della Repubblica lancia sulla denatalità... è urgente una politica mirata alla famiglia, che favorisca la costituzione di nuove famiglie che consenta alla donna di lavorare con impegno senza rinunciare alla maternità [...]
La Repubblica, venerdì 3 maggio 2002

Il commento
Quale futuro per L'Italia senza figli?
L'accorato allarme espresso dal Presidente Ciampi riguardo alle "culle vuote", esprime una mancanza a cui bisogna certamente porre rimedio con nuove leggi che agevolino le famiglie e nuovi sussidi….tutti interventi rispettabilissimi e di buon auspicio.
Ma è possibile che nessuno si domandi se, al di là delle sacrosante difficoltà sociali, materiali e fisiche ad avere figli, non ci sia anche un capovolgimento epocale su come la donna si viva, quale crisi profonda possa attraversare l'immagianrio femminile rispetto alla maternità?

Quale è la spinta profonda verso il desiderio riproduttivo? Perché una donna desidera avere un figlio già da piccola ancora prima del' incontro con il futuro partner?
Sarebbe troppo semplicistico pensare ad un adeguamento della donna ad un ruolo sociale predeterminato o ad un desiderio imitativo della propria madre, maturato già dalla prima infanzia e volto verso la propensione ad essere adulta.

Il domandarsi intorno alla maternità e alle sue dinamiche consce e inconsce resta ad oggi qualcosa di profondamente negato e poco dicibile.

La causa profonda della caduta della fertilità nell'uomo e nella donna forse è più ascrivibile ai disagi ed ai problemi psico-affettivi all'interno della coppia.
Con la commercializzazione della pillola negli anni Sessanta, la donna si è liberata del concetto di corpo come strumento riproduttivo ed ha cominciato ad assaporare l'idea inusuale di libertà e di responsabilità di scelta.

Diverso è sentirsi portatrici di un disegno divino ed accogliere con umiltà tutti i figli che il buon Dio voglia mandare, oppure farsi carico di una scelta consapevole di maternità.
Scelta ancora più enfatizzata quando, alla fine degli anni Settanta, compare la fecondazione artificiale.
Ora le donne possono volere o non volere un figlio: sembra tutto semplice e meraviglioso, siamo nell'era della tecnologia, il referendum per l'aborto ottiene una strepitosa maggioranza...

Ma le donne sono rimaste sole ad affrontare la misconosciuta trasformazione epocale del loro ruolo. A livello sociale molto si è fatto: la donna è uscita dal suo guscio di silenzio rassegnato, ha occupato ruoli sociali importanti, spesso si è accostata all'uomo in un proficuo rapporto collaborativo a più livelli. Poi, però, quando la sera ha terminato di ricoprire questi ruoli di successo, si ritrova a percorrere in discreta solitudine le ombre dei suoi perché e non sa più se quella spinta vitale che sente in sé è ancora un desiderio a procreare.
Ecco che le si apre il baratro delle contraddizioni e delle scelte faticose.
Il fenomeno della denatalità lamentato dal Presidente Ciampi, è complesso e comporta importanti ripercussioni sociali ed economiche.
Anche sulle pagine di "Le Monde" il demografo francese Henri Mendras sostiene che il nostro paese è minacciato dal suicidio: per gli amici dell'Italia e per il mondo intero sarà una perdita irreparabile e catastrofica e gli italiani sottovalutano il pericolo che li minaccia.

Poichè le donne fanno pochi figli e ne faranno sempre meno, il numero di donne in età feconda comincerà a calare rapidamente.
La data di passaggio è il 2007: da quell'anno, in Italia i morti cominceranno a superare in modo sempre più cospicuo la somma dei nati.
Vi è l'idea che, grazie all'immigrazione, potremo contrastare la prospettiva di un invecchiamento generalizzato. Questa visione è semplicistica.

La vecchiaia è uscita dalla dimensione intimistica per diventare materia di pubblica riflessione. Questo perché l'aumento della speranza di vita, minaccia una catastrofe sociale dai devastanti effetti previdenziali, sanitari e assistenziali.
Il paradosso: da un lato infatti i progressi della medicina e delle condizioni sociali di vita hanno allungato la vecchiaia e accresciuto il numero dei vecchi, dall'altro il progresso tecnico che caratterizza la nostra cultura ha ridotto l'anziano a considerarsi un incompetente, non più all'altezza dei tempi e quindi inutile.

"Sono condannato a essere libero" diceva Jean Paul Sartre nei giorni della sua vecchiaia, e non alludeva alla libertà, prerogativa essenziale dell'uomo, ma alla disponibilità infinita di tempo che la nostra società "regala" ai vecchi.

La maternità è divenuta un luogo di conflitti indicibili, paragonabile a quello che è stata la sessualità nella seconda metà dell'Ottocento.
La sterilità crescente, le difficoltà ad accogliere il desiderio di procreazione, il ricorso disperato alle biotecnologie, gli aborti volontari ripetuti, i parti indotti sono spesso effetti di un malessere profondo dell'identità femminile.
Per secoli mettere al mondo i figli era un atto regolato inderogabilmente dalle leggi della natura. Oggi, di fronte alla contraccezione, alle biotecnologie a alle scoperte della medicina, la nostra cultura contemporanea non ha ancora elaborato un'etica condivisa.
Anche perché in questo delirio di controllo onnipotente - ora si clonano anche gli esseri umani- si è perso il contatto con la profonda natura della gestazione e se ne ha solo un surrogato che non tiene conto dei molteplici piani implicati, della sua complessità, insomma.
La fertilità naturale si contrappone a quella artificiale in cui la donna è vista più come oggetto che come forza creativa.

Troppo spesso il desiderio di maternità è in contrapposizione al desiderio di affermazione sociale, in una società in cui il ruolo di madre si è impoverito delle istanze più profonde.
Non esiste un ordine armonico prestabilito della maternità.
Una sana assunzione del ruolo femminile inizia già dall'infanzia, ed, in questo senso, molteplici fattori sociali e personali sono oggi responsabili della svalutazione della maternità.

La maternità è un lungo processo che precede l'avvenimento specifico del parto.
Basta osservare il gioco dei bambini quando, ad esempio, fingono di fare la mamma o il papà, quando picchiano, rompono o riparano le bambole, oppure quando le curano, o le coccolano, per capire la ricca elaborazione interna che ognuno di loro fa del proprio rapporto con i genitori.
La paura del parto non è solo legata al dolore fisico o alla morte, ma può anche essere collegata al terrore di separarsi dalla propria creatura, con la quale solo la gravidanza consente un'unione intima, e perfetta

Ogni gravidanza è, per la donna, fonte di fantasie e desideri differenti, così come la madre ha un vissuto interno differente per ciascun figlio. Ciò che conta, nell'unicità di ogni maternità, sono le vicende che si svolgono a livello inconsapevole.

Tutte le fantasie di una donna su se stessa come madre o sul bambino che nascerà, hanno un'enorme importanza sia per lo svolgersi della gravidanza, sia per lo sviluppo futuro della relazione madre - bambino.

La donna incinta, identificandosi con il feto, riattiva il proprio rapporto arcaico con la madre, il dramma della fusione, della separazione, della vita, della morte e della sopravvivenza che continua a svolgersi dentro di lei.

Ormai, purtroppo, dovrebbe essere chiaro - e si evince anche dagli ultimi fatti di cronaca nera - che il rapporto mamma - bambino non è una ovvietà paradisiaca ma un intricato complesso di forti emozioni spesso contrastanti che va accolto e riconosciuto.
Complesse interazioni ed identificazioni che avvengono nel rapporto fusionale gestante-feto sono molto diverse a seconda della situazione infantile che ha avuto la bambina, ora futura madre. Se il rapporto avuto con la madre è turbato, questo certamente giocherà un ruolo nel modo in cui viene vissuta l'attuale maternità.
Se il rapporto e il confronto con la madre è stato molto conflittuale e ambivalente, se è stato caratterizzato da un'accentuata competitività, può accadere che tutto ciò si ritorca contro la futura madre.

Si può bloccare ad esempio la sua capacità di identificarsi con una donna adulta, costringendola a restare nell'eterno ruolo di bambina bisognosa alla ricerca di un risarcimento psicologico.

Un desiderio di maternità maturo è quello di pensare a una nuova vita come separata da sé e come sede di una nuova creatività affettiva.

La profondità naturale del corpo femminile è andata perduta in superficiali illusioni di scoperte scientifiche, e così facendo in qualche modo è stata violata la sacralità naturale del fine riproduttivo.
.Solo all'interno di un ritrovato contatto con la natura e con la sua disarmante semplicità, può dischiudersi il potenziale femminile, un campo di energie che si esprime nella fecondità.
È pericoloso perdere il contatto con l'aspetto più arcaico e istintuale della ricettività femminile.
L'energia naturale della donna entra in relazione col mondo moderno, dominato da status simbol e da false aspettative, e perde fra i meandri della tecnica la sua forza riproduttiva.

L'incontro con le energie profonde è un processo personale e intimamente soggettivo che passa attraverso lo stupore delle cose semplici. In questo senso la maternità si presenta come un buco nero non pensato che lascia invece spazio alla tecnologia moderna portatrice di illusioni di controllo riproduttivo. Infatti ormai le tecnologie giungono quasi a riprodurre l'intero ciclo riproduttivo, ma questo progresso, paradossalmente lascia "le culle vuote".

Difficile essere madri in un mondo in perenne accelerazione!
Per riempire " la culla vuota", ci vuole tempo, nel senso più significativo del termine: avere, cioè, la consapevolezza di possedere un tempo interiore che ci permetta di scoprire quanto sia commovente sapere attendere. Capaci di affiancare i nostri figli nel loro crescere senza pressarli con la fretta della massima efficienza.

Questo è un tempo che la donna, vittima inconsapevole della sua stessa affermazione sociale, non trova più dentro di sé e va aiutata a riscoprire, perché il desiderio potenziale di maternità, possa esprimersi nella pienezza della sua forza creativa.

La colpa dei sopavvissuti

La notizia
Marzabotto: dolore e vergogna, di Giorgio Battistini.
La Repubblica, giovedì 18 aprile 2002

Il commento
Mi ha colpita, nel titolo, l'abbinata ''dolore e vergogna'', ricordando , in automatica, le tante ''colpa e riparazione'' che passano nelle pagine della psicoanalisi. Sono passati 58 anni dalla strage di Marzabotto, 60 da quella di Baby Yar, Ucraina,-332.000 civili, vecchie ,donne e bambini, ammazzati col fucile mitragliatore , quindi a distanza di un metro e mezzo tra carnefice e vittima, distanza di una stretta di mano, perpetrata da 44 pompieri di Amburgo. Uno solo, uno, si era rifiutato -. Sottolineo questo dettaglio per significare meglio cosa richiamano a me, figlia di deportato dai nazisti, la parola dolore, la parola vergogna. Richiamano un magma emotivo che non è facile da elaborare. E che non trova nel gruppo sociale che ci contorna un apporto che lo renda maggiormente partecipabile. Dato che il gruppo sociale ha potuto vedersi sfilare sotto il naso un Kappler infilato per scappare in una valigia, un Rader agli arresti domiciliari, un Gross, psichiatra nazista ancora vivente e non perseguito dalla legge, pur essendo uno dei medici che ha fatto esperimenti sui bambini…

E ha fatto passare 58 anni prima di presentarsi a Marzabotto. Questa éntree non ha niente di psicoanalitico:se non l'emotività viscerale del dolore di me, in posizione di paziente. Come se mi sentissi un paziente che parla di un dolore inesprimibile, quello dell'esser stato torturato e beffato dalla non comprensione , dal non ascolto dell'Altro. Credo che molto spesso il nazismo - con quei suoi aspetti di sadismo altamente organizzato in struttura ossessiva che, isolando e spostando l'impotenza e l'odio su questo o quell'oggetto da perseguitare- si sia ben prestato a rappresentare, nel mondo interno, gli aspetti più primitivi della distruttività psicotica. Gli aspetti distruttivi di quella parte arcaica, non integrata e, pertanto, disintegrante, che si organizza nell'affetto dell'odio, e lo cavalca, rendendolo, tragicamente, l'unico linguaggio realistico disponibile.

Il nazismo sembra esemplificare magistralmente quello che tutti gli autori sottolineano come nocciolo della perversità psicotica: la trasformazione, attraverso vari meccanismi, dall'erotizzazione, all'idealizzazione, di qualcosa che ha a che fare con un'impotenza estrema, con un senso di morte inelaborato, e che viene, appunto, trasformato in qualcosa di opposto, di onnipotente, di persecutorio. E' la vergogna, di cui parla l'articolo, che , forse, nella migliore delle ipotesi, ha bloccato per 58 anni la capacità di elaborazione della colpa in un intero popolo e nei suoi rappresentanti. E' vero quello che il presidente tedesco Rau ha detto a Marzabotto, che la colpa personale resta quella di chi ha commesso gli eccidi, mentre le conseguenze di quella colpa le devono affrontare le generazioni successive. E' vero anche che, purtroppo, come ha scritto in tanti libri Primo Levi, le conseguenze psichiche della colpa le devono affrontare tanto le generazioni delle vittime, quanto quelle dei carnefici. Certe colpe, per la difficoltà, a mio parere, che innescano a livello del processo della separazione e, quindi, del perdono, della riparazione, hanno un effetto angosciosamente mortifero. In questi giorni i giornali parlano di altri eccidi, di altro odio, non si parla d'altro, infine, che di odio, a parte le '' distrazioni '' sulla mamma di Cogne, o sui prelati pedofili del mondo cattolico… Ma voglio sottolineare anche qui, che l'odio nazista contiene in sé un nocciolo del tutto speciale, a tutt'oggi differenziante il nazismo dal resto del capitolo della distruttività umana: quello dell'aver organizzato in struttura produttiva l'odio e la tortura.

E' questo che, secondo me, rende il nazismo più simile alla struttura psicotica perversa, che non solo esprime odio, ma lo organizza e lo trasforma in una idealità che lo snatura. Come se, oltre la distruttività, contenesse quegli aspetti delinquenziali e perversi, che, come si vede anche nei pazienti, differenziano l'atteggiamento di richiesta di cura. Uno psicotico che chiede aiuto per la violenza estrema delle sue parti aggressive, chiede aiuto. Il delinquente, il perverso no. Agiscono sull'altro il problema del dolore mentale, facendolo diventare un non problema per loro stessi che, anzi, non lo sentono. La vergogna per la loro impotenza ad essere animati da sentimenti di sollecitudine e, di conseguenza, di pietà, di solidarietà, non viene sentita e viene capovolta in esibizionismo e senso di trionfo per l'onnipotenza che possono esercitare. Questa, credo, è la ragione per cui è così difficile elaborare questa angoscia di morte, sia da parte dei colpevoli e loro eredi, che negano, disconoscono, minimizzano l'accaduto, sia da parte delle vittime e loro eredi che, al contrario, non riescono in modo altrettanto patologico a staccarsi da questo senso di esser stati beffati e segnati dalla sofferenza.

I primi negano, i secondi non riescono a rimuovere, ad esercitare quella rimozione fisiologica e benefica che permetterebbe di essere meno preoccupati e angosciati, o meno viscerali e rimuginanti. Che consentirebbe di ricordare quel che basta per operare un monito etico e una sollecitazione ad impedire, politicamente, per quel che si può, il rinnovarsi di situazioni consimili. Ma che consentirebbe, altresì, di non perpetuare dentro di sé schieramenti oppositivi di stampo istero-paranoicale che, me ne rendo perfettamente conto, sfiorano, prima ancora che la patologia, il ridicolo. Dolore e vergogna , dicevo, mi hanno richiamato, come in opposizione, l'abbinata colpa e riparazione. Dolore e vergogna parlano ancora un linguaggio greve e distruttivo, un linguaggio di angoscia, di pena, di morte. Al contrario, colpa e riparazione contengono un riconoscimento della distruttività che apre alla speranza di una ricostruzione di qualcosa, almeno.

Una speranza che il dolore mentale e non, una volta attraversato ed elaborato, possa aprirsi alla prospettiva progettuale di un riparare attraverso l'assunzione della responsabilità.

Responsabilità intesa come momento di separatezza necessaria ad individuare ciò che si è sentito e si è fatto per mantenerne sufficiente memoria a consentire un utilizzo per progettare in modo diverso. Se i tedeschi hanno fatto passare 58 anni- un tempo davvero lunghissimo, in questa nostra era delle accelerazioni - per recarsi a Marzabotto, non possiamo solo imputarlo alla loro malafede. Credo che sia stato indispensabile un tempo lunghissimo per districarsi proprio dalla vergogna, non tanto dalla colpa. La vergogna è, a mio parere, il rovescio della medaglia di quel sentimento narcisistico primitivo della distruttività; sentimento che fa capo ad un'idealità perversa in entrambi i versanti. L'esperienza di spaventosa passività scatenata da un vissuto d' impotenza, che ha portato, negli anni trenta-quaranta, all'emotività nazista e che li ha portati a viversi claustrati in una Germania troppo angusta, è simile al vissuto di passività del perverso di fronte ad una madre arcaica sentita come pericolosa, distruttiva, irraggiungibile, nociva.

I nazisti, come i perversi, hanno cercato di disumanizzare il corpo, trattando civili, ebrei, handicappati come esseri sub-umani, e quindi sollevandosi dal senso di colpa ad infierire su di loro. Proteggendosi anche dal problema della loro stessa vulnerabilità e dal confronto con gli altri esseri umani. Come il perverso, hanno poi suscitato un'ostilità incontenibile a giustificazione e sostegno di questo progetto di disumanizzazione dell'altro. E, terzo meccanismo di difesa perverso, hanno tentato -si pensi ad Auschwitz - di abolire, omogeneizzando l'Uomo a numero e a produttore di lavoro, capelli e denti, di abolire l'individuazione e la differenza. Perché lasciare delle differenze e delle qualità individuali all'Altro può scatenare un vissuto di dolorosa curiosità, d'amore e di confronto. Ma la vergogna, che per più di cinquant'anni, ha impedito loro un gesto pubblico di riconoscimento e di riparazione , anche la vergogna omogeneizza tutto e rende disumani. Rende, cioè, incapaci di quell'ascolto che, pur sentendosi colpevoli, forse solo può dare all'Altro il senso di essere accolto e capito nelle sue difficoltà.

La vergogna, invece, pur essendo un sentimento penoso per chi la prova, non dà alcun sollievo, alcuno spazio, all'Altro che, anzi, non solo deve elaborarsi le sue ferite, ma deve anche sopportare l'orgoglio luciferino della vergogna altrui.

L'inverno nel cuore

La notizia
Il pianto sulla tomba di Sammy. Cogne, Anna Maria torna a sorpresa a trovare il figlio morto. Un viaggio segreto da Monteacuto al cimitero dove è sepolto il bambino.
La Repubblica, martedì 2 aprile 2002

Il commento
Leggiamo sul giornale che il giorno di Pasquetta Anna Maria Franzoni si è recata sulla tomba del figlio per poterlo finalmente piangere dopo le vicissitudini che tutti conosciamo.
La mamma di Samuele è stata arrestata per l'uccisione del figlio ma, mentre era detenuta, il marito prodotto prove che la scagionavano e ha rivelato i nomi di alcuni abitanti di Cogne che potrebbero essere stati gli assassini.

Nel leggere l'articolo di martedì 2 aprile e nel vedere le immagini di Anna Maria sulla tomba del figlio non si può non notare una certa esibizione del dolore, sembra un gesto suggerito,oppure non spontaneo per dare di sé un'immagine di buona madre. Sembra essere quasi una risposta a quanti hanno detto di lei, che era una cattiva madre.

In fondo gli abitanti di Cogne, con gesti più o meno rappresentativi, hanno cercato di dare di se stessi un'immagine irreprensibile, hanno cercato in tutti i modi di prendere le distanze dalla famiglia Lorenzi.

Dalle interviste sembra che anche la distanza della propria casa da quella dei Lorenzi diventi emblematica della possibilità per ciascuno di sentirsi completamente estraneo ai fatti.
Sul giornale di oggi vediamo anche una piantina che segna le distanze: 30 metri dividevano la casa di Stefano e Anna Maria Lorenzi dalla casa di Carlo e Daniela Guichardoz.

"Volevamo la casa sul prato di Montroz per starcene in pace fuori dal paese" dicono i Guichardoz.

Nell' articolo leggiamo che Daniela Guichardoz ha fama di donna burbera, sempre chiusa in casa con rare amicizie e prodiga di ceffoni se i due figlioletti fanno i discoli. Se qualcuno cerca di avvicinarsi alla villa, Daniela chiama immediatamente i carabinieri, se la si incontra per caso in paese fugge a "rotta di collo", trascinando i ragazzini.

Di Anna Maria, invece, si è detto un po' di tutto; non è una buona madre perché non ha stretto al petto Samuele quando l'ha trovato morto, non è una buona madre perché il giorno del funerale aveva i capelli freschi di parrucchiere…

Evidentemente si cercano indizi di colpevolezza e si fa ricorso, quindi, a tutti gli stereotipi sulla maternità.

Spirito di sacrificio, abnegazione, incuranza di sé sono gli attributi che designano una buona madre, e allora si dice che Anna Maria non li possiede e neanche Daniela forse li possiede e solo per questo potrebbero essere loro ad aver ucciso Samuele.

Accantonando per ora la ricerca dell' assassino di Samuele, chiediamoci qualcosa di più sull'amore materno e cerchiamo forse un'altra scomoda verità.
L'amore materno è un istinto che scaturisce dalla "natura femminile"?

No. l'amore materno è un sentimento contingente; può esistere e non esistere, non va dato per scontato.

Ma perché questo amore possa esserci e crescere e maturare la donna deve essere aiutata dall' ambiente che la circonda. Il padre, i nonni, la comunità possono offrire alla madre il sostegno che le permetterà di dare amore incondizionato e di non sentirsi chiusa in un rapporto dove vita tua equivale a mors mea.

Scrive Mauro Mancia in Dall'Edipo al sogno "…ad una madre confusiva e simbiotica corrisponde un padre assente e morto, non solo fisicamente, ma soprattutto psicologicamente morto, atono, lontano, incapace di comprendere i reali bisogni del bambino, pronto ad adeguarsi a regole sociali o ad ipocrisie di gruppo senza preoccuparsi delle reali esigenze emotive del figlio, incapace, in ultima analisi (e spesso anche per un difetto materno) di porsi come un vero e autentico modello di identificazione".

Anna Maria è stata lasciata sola, come sole sembrano essere quelle donne di Cogne che non riescono a pensarsi buone madri semplicemente riferendosi all'affettività fuori e dentro di loro.
Far ricorso a degli stereotipi risulta essere l'unica via per potersi riconoscere "non colpevoli".
In psicoanalisi si sa che la prima e più fondamentale tra le nostre rassicurazioni o misure di sicurezza contro i sentimenti di dolore, contro l'essere attaccati, contro l'impotenza è l'espediente da noi chiamato proiezione.

Tutte le sensazioni o i sentimenti dolorosi e spiacevoli nella mente sono, automaticamente, relegati fuori di sé; si suppone cioè che questi si trovino altrove, non dentro di sé.
Noi li sconfessiamo e ripudiamo come nostre emanazioni; per esprimerci con una frase sgrammaticata ma psicologicamente esatta: noi li rimproveriamo su qualcun altro. Se arriviamo a riconoscere tali forze distruttive in noi stessi, affermiamo che vi sono giunte arbitrariamente, o per qualche causa esterna e che dovrebbero ritornare nel luogo a cui appartengono.

Daniela picchia violentemente i suoi bambini, grazie a questo diventa sospettabile, chi l'accusa dice a sé e agli altri: "io non picchio i miei bambini". Anna Maria ha i capelli sempre in ordine, chi l'accusa pensa che solo gli altri si occupano più dell'aspetto fisico che dei figli e così via, in un gioco di proiezioni infinite, dove pare che l'unico risultato ottenuto sia il poter mettere più chilometri possibili tra una casa e l'altra, tra una persona e l'altra.
In realtà soltanto l'ascolto, la comunicazione, la vicinanza possono rompere il gelo che più che sul paese di Cogne pare scendere sul cuore dei suoi abitanti.

Sulla strada del tempo

La notizia
Alla conferenza dell'Onu: Una società per tutte l'età organizzata in questi giorni a Madrid, hanno partecipato delegazioni di 160 Paesi con l'obiettivo di approvare un piano d'azione internazionale per far fronte alle conseguenze dell'invecchiamento globale e siglare una Dichiarazione di impegno politico. L'invecchiamento della popolazione è uno dei problemi principali che l'umanità deve affrontare nel XXI secolo. Un problema praticamente irreversibile a cui tutte le società dovranno adattarsi partendo per esempio con l'eliminare ciò che esclude o discrimina gli anziani.
Il Corriere della Sera, martedì 9 aprile 2002

Il commento
Secondo l'articolo riportato dal Corriere della Sera, la nostra società incomincia timidamente a fare alcune riflessioni su un aspetto della vita spesso rimosso e negato e cioè l' invecchiamento.
Durante gli ultimi decenni la cultura occidentale sembra essersi impegnata nella ricerca delirante ed onnipotente dell'eterna giovinezza: i valori dell'efficienza fisica, della produttività, della bellezza sembrano avere raggiunto una incontestabilità ed una assolutezza mai prima possedute.

Tutto ciò che può portare l'uomo a riflettere sui suoi limiti, sull'invecchiamento, la malattia, la morte, viene considerato inutilmente deprimente, non aderente allo spirito del tempo e quindi impopolare. La figura dell'anziano, con tutto il suo bagaglio d'esperienza, che strutturava fortemente le grandi famiglie patriarcali e il gruppo, è stata via via delegittimata e accantonata a favore di una trasmissione tra le generazioni asettica, in pillole, deprivata completamente di quella tridimensionalità che costituisce l'essenza di un sapere che non esclude le emozioni.

Infatti "noi discendiamo da una lunga serie di antenati umani e animali, per un'innumerevole successione di eventi casuali, incontri fortuiti, brutali catture, fughe riuscite, tentativi ostinati, migrazioni, sopravvivenze da guerre e da malattie. Per produrre ognuno di noi fu necessaria un'improbabile e complessa catena di eventi, una storia immensa che dà ad ogni individuo la sacralità della sequoia, a ogni bambino il capriccio del segreto." (Robert Nozick, La vita pensata in Le dimensioni della bioetica di Luisella Battaglia)

Se istintivamente, come accade, ci allontaniamo da chi è vecchio, neghiamo le nostre radici e questa operazione di apparente alleggerimento ci inaridisce vieppiù. Del resto, come dice Julien Green, "si rimane a volte terrorizzati nello scoprire se stessi in un altro", a maggior motivo se questo altro ci precede sulla strada del tempo.

All' anziano, smarrito il suo ruolo, non resta che difendersi dalla sofferenza ripiegandosi su se stesso e rinunciando a vivere pienamente, pur con le difficoltà legate ad un deterioramento fisico e mentale, quello spazio affettivo che ancora gli resta.

Gerard Le Gouès, nel suo libro "La psicoanalisi e la vecchiaia", in un certo senso ci rassicura circa il destino dell'anziano. L'autore analizza puntualmente i cambiamenti che la vecchiaia determina e le difese che un apparato psichico è in grado di organizzare per continuare a vivere al meglio.
Nei trattamenti psicoanalitici in condizioni estreme, che l'autore annovera nella sua esperienza, viene per esempio gettata una luce diversa sulla regressione, difesa a cui di solito gli anziani ricorrono. Il concetto di regressione viene capovolto, diventa un moto un moto dell'apparato psichico per ritrovare un piacere nel funzionare, come controbilanciamento della sofferenza. Ciò che prima appariva come un moto d'allontanamento dalla realtà è ora valutato come una reazione salutare, l'espressione del desiderio di vivere. L'autore propone inoltre un approccio terapeutico che possa offrire all'anziano indementito un invecchiamento più sopportabile, rivolgendo l'attenzione ai suoi aspetti vitali e allo stato della relazione d'oggetto. Il disorientamento dell'anziano a cui spesso si assiste come impotenti spettatori, non viene più considerato uno sconvolgimento, bensì uno sforzo enorme che il soggetto fa per riprendere contatto con il suo oggetto interno perduto. Il clinico offrendosi come oggetto ausiliario permetterebbe di dare sollievo all'anziano demente in questa sua faticosa ed estenuante ricerca. A questo proposito Le Gouès ritiene che durante il trattamento terapeutico abbia molta importanza un clima transferale di grande accoglimento e pazienza. Cautele necessarie poiché il paziente in alcuni casi vive uno stato di grande debolezza e spesso la vita attuale come un incubo carico di "agonie primitive" (Winnicott). In queste situazioni egli avrebbe bisogno di una funzione ausiliaria per far fronte alle angosce d'annientamento, un appoggio (l'analista) che lo rimandi al suo bagaglio affettivo consentendogli di verificare che i sentimenti dentro di sé non sono svaniti. Attraverso un cauto utilizzo dello strumento psicoterapeutico psicoanalitico si riuscirebbe -secondo l'autore- a ricompattare, magari anche solo per brevi periodi, alcune funzioni affettive e cognitive e quindi a trasformare ridimensionandole tutte le incomprensioni che possono esserci tra l'anziano demente e il suo ambiente. Questo lavoro di Le Gouès ci permette, cioè, di concepire un'ipotesi di cura anche per quell'età dell'essere umano più ricca d'esperienza da un parte e dall'altra più difficile da elaborare ed accettare, dal momento che dobbiamo vivere il lutto per aver perso stati di benessere precedenti e allo stesso tempo dobbiamo tollerare la consapevolezza che la nostra esperienza si scontra con il limite della vita.

"Ogni volta che un vecchio muore,
nel cielo si accende una nuova stella"

(Leggenda africana)

Curare, prendersi cura, accanirsi: un intervento del Papa

La notizia
''Il Papa contro l'accanimento terapeutico'', di R. Monteforte.
L'Unità domenica 24 marzo 2002

Il commento
A commento intorno alle polemiche suscitate in Gran Bretagna dalla decisione assunta a Birmingham a favore dell'eutanasia, il Papa ha espresso un'importante puntualizzazione intorno alla assoluta non opportunità di ogni atteggiamento medico improntato all'accanimento terapeutico. Si è riferito in particolare, alla necessità di ricordare che ogni essere umano "è limitato e mortale". Essendo io medico, cresciuta nella scuola di chi insegna al medico l'obbligo non dei risultati, ma dei mezzi, frase che riassume , con la stessa parola " mezzi", la reificata e deificata ideologia di un'onnipotenza dell'efficienza, sono stata molto colpita che il Papa riportasse questa parola: limitato e mortale.

I sostenitori dell'eutanasia si pongono in un'ottica dell'umiltà: quella dell'accettazione di poter, da parte dell'uomo, chiedere di essere aiutato, non solo a vivere, a imparare, a lavorare, tutti capitoli dell'esistere per i quali è non solo lecito ma anche naturale, ormai, poter pensare ad essere aiutati, ma anche a morire. E chiedono di non dover ricorrere a confondere un'altra logica dell'onnipotenza, quella del suicidio, col diritto di poter scegliere di non vivere più. Col poter scegliere di non essere artificiosamente mantenuti in un vivere che, talvolta, non ha più le caratteristiche stesse della vivibilità.

Ma a questo punto, la mistica del curare, che sappiamo rasenti il furore terapeutico sempre più spesso, dato che i mezzi tecnici sempre più raffinati lo consentono, si sostituisce all'esercizio del buon senso.

Il Papa si è riferito ad un discorso che non tiene conto del solo corpo, ma anche e soprattutto dello spirito. Pur non essendo cristiana, e parendomi spesso la religione una sacra bottega che, a prezzi di fabbrica, ti compra e ti lega, devo riconoscere, in questo caso che il riferirsi ad una vita spirituale possa farci riflettere, come persone e come medici, al significato complessivo del termine "cura". Che, derivato dalla lingua latina, avrebbe il significato ambiguo, sia di operare delle pratiche volte a far star meglio, sia di sollecitudine e preoccupazione per l'Altro.

Una delle primarie cure materne al bambino, che passa necessariamente attraverso le cure corporee, l'attenzione al soddisfacimento dei suoi bisogni primari ecc, e non attraverso la parola, ovviamente, è volta a non farlo morire. La morte, quindi, implicitamente, è presente nell'esperienza di vita fin dai primi momenti. Il fatto, poi, che questo cammino difficile e faticoso, affascinante e tormentoso che è la vita, dovrà, a un certo punto, finire, è una realtà così significativa da farci organizzare attorno le nostre difese psichiche, sia in senso depressivo, che costruttivo. Le fantasie di onnipotenza, che non riguardano solo i pazienti deliranti!, contengono implicitamente dentro di sé anche quelle dell'immortalità.

Non a caso H. Searles ha dedicato parte dei suoi studi sulla schizofrenia a quel fenomeno di diniego, fisiologico per tutti, della consapevolezza della propria morte e dell'ineluttabilità di essa. Un diniego emotivo, parziale, per la maggior parte di noi, per gli schizofrenici in particolare, un diniego totale.

La possibilità di avere una vita bene integrata, un sé intero in grado di partecipare alla vita e di sentirsene parte è un modo di poter elaborare il fatto tragico di essere, comunque, destinati a morire.
La possibilità anche non definitiva, di sentire realizzate delle relazioni di contatto, di vivere pienamente delle esperienze, sentimento che ci avvicina e agli altri e ad un senso di continuità con la vita, ci permette di non provare più l' idea della morte come idea di angoscia pura, ma di sostenere al nostro interno una sensazione di naturalità.

Ma vivere in condizioni oggettive che non permettano, che si oppongano, per la loro dolorosità, o per l'avvilimento totale della propria capacità di autonomia, ci depriva della possibilità di vivere pienamente e di accettare la morte. Ci ripiomba in una situazione di totale rottura del contatto con l'Altro, rottura che è alla base del sentimento insopportabile della perdita.

Voler, da parte dei medici, come strumenti ultimi, dei legislatori o di altre figure, far prevalere la sopravvivenza corporea al vivere, in certe condizioni, mi pare un condannare l'essere umano ad una situazione che non ha più niente di fisiologico, che si apparenta a quella serie di sollecitazioni folli di cui è impregnata l'esistenza psicotica: illusioni e concretizzazioni, intensa intimità - con la macchina che ti tiene in vita, ad esempio, - e totale separazione psicologica dall'altro, che , se solo si mettesse empaticamente nei panni di chi sta " curando ", non potrebbe che comportarsi altrimenti .La classe medica negli ultimi anni, è sempre più allettata dalla classe dei tecnici, ad illudersi di poter non riconoscere l'ineluttabilità della morte. Questa illusione, che fa parte più genericamente di questa nostra cultura che ci permette tante cose impensabili solo trenta anni fa, permea non solo l'atteggiamento verso i malati detti terminali, ma anche quello assolutamente generico ad esempio, verso la prevenzione. Mi fa sempre riflettere il leggere quelle statistiche dove si dice che, ad esempio, su 100 persone, 21 moriranno di tumore, altre di malattie cardiovascolari ecc. Quasi sembra rimosso che tutte moriranno di qualcosa, e che, senza niente togliere ad un corretto cercare di migliorare la situazione di vivibilità, non bisognerebbe nemmeno escludere dalla nostra consapevolezza che il morire fa parte di un processo naturale, ineliminabile.

La cultura medica, che, come motivazione iniziale, basilare, alla scelta professionale, dovrebbe avere quella di confrontarsi con la sofferenza, la malattia e la morte, sembra sempre più, invece, avere come modello quello di attribuire a questa o quella causa la colpa della morte. Questo fattore, se portato, come sottolinea il Papa, ad un livello che faccia dimenticare il rispetto per le dimensioni spirituali del vivere, rischia di diventare un allontanarsi dal prendersi cura di.

Del resto, lo stesso spazio che la nostra cultura dà al linguaggio verbale allontana in un modo talvolta rarefatto ed astratto di vivere quello che dovrebbe essere un fluire continuo del ritmo emotivo e psicofisico della nostra esistenza. L'efficienza tecnica, le macchine, i farmaci, le protesi artificiali ci allontanano in modo ancora più astratto e frammentato da una visione di insieme dell'esistenza,come esperienza che ci dovrebbe tenere in contatto continuamente con la relazione di ogni vivente con la morte.

Così come, infatti, riconosciamo che nessuna esperienza piacevole o sufficientemente gratificante, potrebbe restare tale se fosse infinita, anche per la vita nella sua globalità dobbiamo riconoscere la stessa cosa. Heidegger, ad esempio, parla spesso di " esistenza per la morte", la morte essendo un modo di essere in cui l'esistenza si pone non appena ha inizio.

Freud, in " Considerazioni attuali sulla guerra e la morte" (1915) dice "Effettivamente la propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo constatare che in realtà continuiamo ad essere presenti ancora come spettatori…..D'altra parte noi accettiamo la morte per gli estranei e i nemici e la decretiamo nei loro confronti con la stessa prontezza e mancanza di scrupoli dell'uomo primigenio."

Non per paragonare i medici che si accaniscono a curare i loro pazienti con coloro che torturano e decretano condanne a morte, ma.. un po' di somiglianza con chi condanna, a vivere male, per la stessa logica del rifiuto del limite umano fondamentale, quella si può intravederla!

Mi pare che il Papa, per vie diverse da quelle della psicoanalisi, ci riporti al rispetto e al dovere di rispettare quelle che sono le caratteristiche intrinseche, non culturali della natura biologica dell'uomo: il limite.

Questo dovrebbe farci riflettere sulla minaccia continua che le tendenze psicotiche all'onnipotenza, onniscienza, controllo e manipolazione esercitano sulla vita quotidiana, anche quando siano travestite dalle migliori intenzioni, delle quali, peraltro, come sottolinea il proverbio, è lastricata la strada dell'Inferno.

Le condizioni talvolta insopportabili di un vivere artificialmente protratto ci dovrebbero far riflettere sul significato stesso del cosiddetto progresso scientifico. Nelle culture primitive, l'anziano ormai incapace di sopravvivere, si allontanava - non si suicidava - semplicemente dal gruppo sociale di appartenenza e si lasciava, in questo modo, morire, mancandogli le forze per difendersi e per procacciarsi il cibo da solo. Era il suo modo di staccare la macchina.

Il medico deve curare, certamente, questo fa parte del dovere del suo lavoro. Ma non può e non deve sostituirsi a Dio o al Destino. Specialmente in presenza di una richiesta assolutamente contraria. Dovrebbe far parte del dovere di curare anche il saper tollerare col proprio paziente l'ineluttabilità della condizione umana e la morte che ne è corollario fondamentale.