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Il sorriso di mia madre

La notizia
Uscirà tra un mese e poi rappresenterà l'Italia a Cannes L'ora di religione, l'ultima fatica cinematografica di Marco Bellocchio che, in un primo tempo, il regista pensava di intitolare Il sorriso di mia madre.
La Repubblica, sabato 16 marzo 2002

Il commento
La trama del film ci racconterà la singolare storia del processo di beatificazione di una donna. Il protagonista, Ernesto, appena separato dalla moglie, viene inaspettatamente convocato da un cardinale che sta istruendo la causa di beatificazione di sua madre.

Il processo religioso è stato richiesto dagli altri tre fratelli, con i quali Ernesto ha rotto i rapporti da molti anni. Il primo, Erminio, vive e lavora in Africa; il secondo, Ettore, ex estremista, cerca di recuperare e di rimettere insieme la sua vita. L'ultimo, Egidio, quello che, in un'esplosione di violenza, ha ucciso la madre, condannato, per questo e contenuto in un carcere psichiatrico, si è chiuso, da allora, in un definitivo mutismo. L'intera famiglia, coalizzata per ragioni opportunistiche, tenta di trarre vantaggio dalla tragedia.

Un film, apparentemente, dalle tinte intense e saturanti.

Così risponde Bellocchio all'intervistatore che gli chiede ragione dell'indecisione sul titolo: ''L'ora di religione'' è solo un pretesto, ma è diretto. ''Il sorriso di mia madre'' va più in profondità, evocando la capacità di una madre di distruggere un bambino indifeso con il suo sorriso apparentemente benevolo che può nascondere indifferenza e, peggio, anaffettività.

Ci immaginiamo la famiglia, una lenta ed inesorabile freddezza fatta di sguardi mancati, di attenzioni negate, di assenze, attese deluse. Al posto di un'intesa, una corrente pietrificante di odio, al posto di un fiducioso abbandono, il dolore della disperazione.
Sappiamo quanto tutto questo possa essere intollerabile, quasi mancanza fondamentale, origine di ogni vuoto e dolore.

Se, attraverso le sue cure, la madre non placa solo la fame, ma trasforma, quasi per divino potere, sentimenti di rabbia e terrore in sazietà e benessere, il bambino mutua da lei, oltre l'alimento per conservare la sua vita biologica, anche l'esperienza di una riunificazione della mente, minacciata da emozioni troppo intense, dolorose, distruttive. Deriva la sicurezza della sua continuità d'essere e del suo significato.

E' quasi un'opera creatrice profonda e silenziosa: il modo in cui è cullato, nutrito, cambiato, carezzato, diventa la prima grammatica che plasma il suo mondo, lo ordina e lo dota di senso.
E' un'esperienza così importante che condiziona tutto il resto della nostra vita come tensione alla ricerca di avvenimenti e di incontri che ancora sappiano ricomporre le nostre frammentazioni in una fragile e luminosa unità

Di questi momenti fatti di un tempo sospeso, rapito in una antica e non ancora detta meraviglia, spesso ci parlano i poeti.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose si abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto […] più chiaro si ascolta il sussurro dei rami amici nell'aria che quasi non si muove e piove in petto una dolcezza inquieta […] Lo sguardo fruga d'intorno e la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga. (E. Montale, I limoni)

Spazi di un fortuito incontro con qualcosa che ci è noto, ma che pare trasfigurare una sua più profonda essenza che tocca la nostra anima sino alla commozione. Una nuova ed antica pienezza, di cui sembrava smarrita la memoria, è ancora vicina, quasi la si può accarezzare.

Se procedi ti imbatti, forse, nel fantasma che ti salva: si compongono qui le storie, gli atti scancellati per il gioco del futuro […] Va, per te l'ho pregato, - ora la sete mi sarà lieve, meno acre la ruggine … (E. Montale, Godi se il vento ch'entra nel pomario)

L'esistere sembra, di colpo, ridiventato possibile, quasi lieve e consolata presenza; l'affanno e la paura, un'altra volta ancora, forse, vengono pacificate da un ''singolare, seducente e misterioso sorriso'' che è nel vento, nel cielo sfigurato dalla sera, sul volto di una persona amata.

Ma spesso tutto questo non è possibile, il mondo e gli uomini sembrano restare muti in una terribile chiusura di contatto, nel rifiuto di ogni comunicazione. La bellezza diventa incubo e dolore: non c'è spazio per quello che siamo, non c'è tempo per le nostre richieste, non c'è speranza per noi.
Se la cifra della nostra prima comunicazione con gli altri è stata quella prevalente del silenzio e della lontananza, sarà difficilmente attingibile l'esperienza di un significato riunificatore e di un amore che si può dare e ricevere.

La relazione con gli altri poco sarà vissuta come un ''accrescersi e un darsi forma a vicenda'', ma quasi temuta e sfuggita perché possibile luogo di una bruciante delusione e di una fondamentale assenza.

Voi, gli uomini, mi avete respinto con il vostro tacito disprezzo. Ai miei impulsi appassionati avete risposto con un'offesa mortale. Ora io, dunque, ho il diritto di chiudermi in una torre d'avorio. (F. Dostoevsky, La mite)

Una clausura apparentemente obbligata, del tutto quotidiana, costante, come unica ed estrema difesa dal dolore. A volte una scienza perfetta, organizzata, di matematica precisione, impegnata nella costruzione di un silenzio emotivo assoluto e preordinato, solo a volte turbato da qualcosa di imprevisto ed inaspettato. Come la sicurezza di chi ancora chiede quasi certo di una risposta, di chi ancora attende con fiducia il calore di una parola, la comunicazione tenera sino alle lacrime di una carezza.

Questa richiesta e questa fiducia, in alcuni casi, possono essere per noi addirittura intollerabili, odiata memoria della nostra mai rimarginata ferita. La furia del dolore per la solitudine di ogni contatto può chiedere giustizia verso chi ancora non sa e osa ricordarci la disperazione e il vuoto senza centro della nostra mente.

La freddezza ricevuta un tempo può mutarsi in freddezza restituita ad altri, anche se questi altri non erano presenti al compiersi della nostra tragedia.
Solo un mondo alternativo al vero, in tutto costruito da noi stessi, scelto pietra su pietra, pensiero su pensiero, un mondo di ''esotica compostezza'' sembra il luogo dove potere ancora sopravvivere.

Nessuna idea può rimuovere la dura scorza del mio spirito. Non mi ferisci, la tua mano non può indurmi a ricordare e ad essere triste. Io ti prendo con me, dolce pena, e ti rendo più aspra con il mio gelo. (D. Thomas, Nessuna idea)

La nostra unica casa diventa un mondo capovolto, stretto dall'urgenza della costruzione e dell'autocelebrazione per non lasciare spazi al dubbio, per allontanare lo spettro di venire smascherati nella fondamentale ed originaria, mai rimarginata, mancanza d'amore. E questo rischio ci può riguardare non solo all'interno delle nostre singole e private esistenze, ma ci può coinvolgere anche al livello più allargato del contesto sociale in cui viviamo.

E' forse in questo senso che il film di Bellocchio ci ricorda la nostra possibile partecipazione ad una mistificazione collettiva che tenta di allontanare la sofferenza con operazioni di risignificazione al contrario, dove un processo di beatificazione cerca di cambiare definitivamente il male in bene.
Si parla molto oggi di crisi della famiglia e certo è dei nostri tempi il cambiamento profondo del luogo dove, per ognuno di noi, è cominciata la vita biologica e quella del pensiero. E non sono certo solo i numeri sempre crescenti delle separazioni a dare la misura della fragilità del momento. Più precisamente, questa dimensione è comunicata, forse, da una domanda: dove ancora chi nasce potrà imparare la speranza e la gratitudine e chi avrà la responsabilità di essere presente, di accogliere, di accettare e di fare crescere i bambini sino ad una sufficiente autonomia emotiva?

Nelle separazioni e nei divorzi, a volte anche troppo precisi per quello che riguarda la definizione del tempo che i figli devono passare con il papà e con la mamma, spesso sembra nascondersi la difficilmente confessabile angoscia per la rottura di una continuità di cui nessuno sembra più potersi fare carico, quella continuità d'essere così indispensabile al bambino per crescere.
E, di fronte all'angoscia, può essere forte la tentazione di una rapida ed impaziente composizione. Può essere quasi ipnotico, sull'onda della paura, il desiderio di mettere tutto a tacere prima che il dolore possa di nuovo farsi riconoscere e disegnare trame di disperazione.

Ma i processi collettivi di beatificazione, dei quali a volte ci scopriamo artefici attivi, possono condannare alla miseria ben più severa della menzogna dalla quale non si riesce a trarre sufficiente alimento per vivere. Possono condannare alla messa al bando della speranza e della bellezza, percepite, al fondo, come le minacce più temibili al mondo di compostezza artificialmente creato.
Se ci pensiamo, proprio l'inverso di quello che dovrebbe accadere. Osserva D. Meltzer ne ''La comprensione della bellezza'':

Il processo evolutivo nell'intero arco della vita lotta per reintegrare ciò che il fragile Io del bambino non può sopportare e da cui è lacerato, così che la bellezza dell'oggetto possa essere contemplata direttamente senza recare danno all'anima come temeva Socrate.

Il giullare, la luna perduta e l'incontenibile leggerezza della satira...

La notizia
Roberto Benigni sul palco dell'Ariston, dopo le minacce di linciaggio di Giuliano Ferrara. Il commento di Curzio Maltese: ''Ci voleva un tocco di civiltà nell'abisso di volgarità di questi giorni e mesi, ed è venuto da un comico (…) Rimane un mistero che la scienza politica non riesce a spiegare: perché il nuovo potere ha così tanta paura della satira?''
La Repubblica, domenica 10 marzo 2002

Il commento
Eppure io credo che se ci fosse un po' più di silenzio,
se tutti facessimo un po' di silenzio,
forse qualcosa potremmo capire…
La voce della luna

Con queste parole, lasciate cadere dentro la gola del pozzo dallo stralunato Benigni, si conclude il film di Fellini. La luna , compagna di viaggio del mite protagonista, è stata catturata dai suoi compaesani che, trionfanti, hanno organizzato una roboante e ridicola tavola rotonda televisiva: a lui non resta che rovesciare nel pozzo la sua preghiera.

Un accorato appello ad un po' di silenzio: suona forse come pretesa eccessiva, in piena bagarre sanremese, mentre il consueto rito dei piccoli scandali si consuma, e lo strepito che ne deriva è appena sufficiente a coprire il brusio delle canzoni festivaliere. Cediamo, allora, anche noi alla tentazione di commentare la notizia che ha rumoreggiato, in questi giorni, su tutti i quotidiani italiani, mentre stragi nei territori occupati, storie di clandestini annegati, indagini su omicidi di bambini, articoli 18 e conflitti d'interesse hanno temporaneamente ceduto l'onore della prima pagina.

Il Direttore di un quotidiano lancia una pesante sfida al piccolo Comico: per la sera della sua esibizione sul palcoscenico del festival, promette un pubblico linciaggio a base di uova e verdure, se il Piccolino parlerà di politica.

Ci sono svariati modi per incassare pubblicità, con il duplice risultato di migliorare le sorti di un giornale e di garantire ad una trasmissione televisiva l'agognato aumento degli ascolti: una minaccia che esalta il recupero degli eroici furori di marinettiana memoria, è solo un modo fra gli altri. E tanto urgente è il bisogno di fare notizia, di risuonare, di intensificare il rumore, di distrarre l'attenzione di tutti noi da quanto di tragico e davvero minaccioso ci accade intorno, da indurre a dimenticare che, fra le regole della democrazia, c'è teoricamente la libertà di satira, la consuetudine secolare per cui - si sa - prerogativa del Giullare è quella di irridere il potere.

Ma - e anche questo si sa - ci sono storiche contingenze e particolari condizioni politiche e sociali che paiono giustificare tale dimenticanza. Ci si accorge, in momenti come questi, quanto corrosiva possa essere la parola del Giullare e come la leggerezza ironica, mentre graffia la coscienza di alcuni, rischi di allargare troppo i confini della consapevolezza di molti.

Corrono tempi di ideologie violente mascherate da sorrisi benevoli, di false propagande, imposizioni, artificiosi compromessi: quando corrono questi tempi, la sola voce che può uscire dal pozzo a contrastare la pesantezza - non solo metaforica - del potere costituito, è quella leggera del comico.

Riguardo alla forza della leggerezza, scriveva Italo Calvino nelle sue "Lezioni americane" che la mitologia ha parecchio da insegnarci : " l'unico eroe capace di tagliare la testa alla Medusa è Perseo, che vola con i sandali alati (…) ma per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole."

E' stato Mauro Mancia (in "Percorsi", Bollati Boringhieri, 1995), ad offrirci una riflessione particolarmente suggestiva sul tema trattato da Calvino, e a consentirci quindi di comprendere meglio il bisogno - o in alternativa la paura - che il mondo ha dei giullari, capaci, come Perseo, di azioni leggere e, insieme, così drasticamente "taglienti".

"Perseo" scrive Mancia "può rappresentare la parte del Sé leggera, forte e coraggiosa, potremmo dire la parte del Sé libidica, mentre la Medusa è la parte pesante, distruttiva e mortifera del Sé, capace di trasformare gli oggetti in pietre attraverso l'identificazione proiettiva delle sue parti pietrificanti."

Vi sono, dunque, sistemi politici che fondano la loro forza su un'operazione di pietrificazione degli animi; ma l'origine della pesantezza è nella realtà intrapsichica dell'individuo: è la zavorra che imprigiona e pietrifica il pensiero. Solo la parte del Sé leggera può assumersi il compito di Perseo: la sua, prosegue Mancia, "è un'operazione dolorosa di castrazione e separazione, rappresentata dal taglio della testa della Gorgone, affinché possa nascere, dal sangue della Medusa, Pegaso, il cavallo alato, metafora della trasformazione della pietra pesante nel suo contrario. A Perseo serve scindere e rimuovere la parte pesante e mortifera del Sé (per padroneggiare quel volto tremendo, egli lo tiene nascosto) per poi affrontarla. E in seguito egli usa un gentile riguardo per questa parte dolorosa, deponendola sul terreno, reso soffice da uno strato di foglie."

Perché Medusa era un essere tremendo e pericoloso, ma, in qualche modo, anche una creatura deteriorabile, fragile. Scopriamo, così, quanto la pesantezza non sia solo condizione violenta e tirannica, ma anche dolorosa: ciò che è pesante, è rigido e fragile insieme.

La leggerezza giunge allora come speranza di trasformare quel che è pietrificato in qualcosa di nuovo, e di vivo: un cavallo capace di volare.

Secondo Calvino, proprio questa è la funzione della letteratura: dare leggerezza al peso del vivere. Secoli di opere letterarie ci hanno aiutato a sfidare la legge di gravità (di grevità) insita in ogni forma di potere istituzionale, ma presente - severa minaccia superegoica - anche nella vita mentale di ogni individuo: la nostra memoria è fitta di personaggi e immagini di leggerezza…Cyrano, che colpiva la realtà di spada e di poetiche finzioni; o il barone di Munchausen, con la sua surreale mongolfiera; o la silenziosa luna di Leopardi…o il canto più bello del Paradiso dantesco, proprio quello scelto dal Giullare per parlare d'amore sul palcoscenico di Sanremo. Che diviene così, nel silenzio che accoglie la recita della preghiera alla Vergine, la caricatura di se stesso: tempio in cui ogni anno si celebra il solito rito di canzoni che dell'amore parlano sempre nello stesso, pesantemente consolidato, modo.

E silenzio, finalmente, si fa anche da parte di chi - con granitica assenza di umorismo - minacciava il linciaggio: certo, è solo il silenzio di un istante, perché quando il Comico esce di scena, la pesantezza recupera terreno, e il rumore che produce può riprendere a impietrire i nostri pensieri.

Ma qualcosa - ci piace sperare - rimane impigliato nelle menti di chi ha guardato e ascoltato: la comprensione, magari nebulosa e appena accennata, che la pesantezza possa essere trasformata da qualcosa che assomiglia ad un "atto d'amore".

Infatti: "Sono qua per un atto d'amore" così ha inizio il torrenziale monologo del Giullare "perché i comici sono zuppi d'amore, e non gli si può chiedere di essere anche saggi, quello è compito del Signore; i comici sbagliano per amore, e allora bisogna proteggerli, sono bellissimi, infrangono le regole, sono viziati, sono maestri di passaggi proibiti, fanno piangere e ridere…fanno come gli pare, contrabbandieri senza licenza…"

E così si conclude: "…Se vi potessi far vedere il mio core, vi tirerei in faccia questo affetto centuplicato per mille, perché vi amo…"

L'amore come emozione contrabbandata, che non conosce saggezza; l'amore come affetto scagliato in faccia a quanti sono impietriti dallo sguardo di Medusa.

Il Comico sa che alla violenza di coloro che detengono il potere - politico, governativo, mediatico, economico - non si può che rispondere con la violenza "leggera" dell'ironia e dell'umorismo. Con la delicata leggerezza di Perseo, capace di usare particolare riguardo per la testa, ormai mozzata, di Medusa. Il vero miracolo, tornando al mito, sarà la trasformazione della testa della Gorgone, deposta sul morbido terriccio, in coralli: esili, ramificati, leggeri. Come i pensieri di una mente che ha ripreso a funzionare.

Così si compie la metafora di un percorso segnato dall'incontro pauroso tra gli aspetti più rigidi e superegoici del Sé e del mondo e quelli più leggeri e tolleranti; incontro in cui, attraverso la separazione e il lutto, le emozioni paralizzanti non vengono annientate, ma trasformate e rese infine pensabili.

Come accade nel film di Fellini, la speranza è che la luna si liberi della rete di zavorre che la inchioda al suolo, che i riflettori si spengano, che torni un po' di silenzio.

Il silenzio necessario per avvertire il passo leggero, il guizzo e il saltello del Giullare, capace - parafrasando Calvino - di penetrare come l'aria dentro le cose, senza romperle.

Di professione soldato

La notizia
Li chiamavano i 'mastini della guerra'. E come nel romanzo di Frederick Forsyth, erano dei Rambo senza scrupoli che, per alcune migliaia di dollari al mese, erano pronti a rischiare la vita tra golpe, insurrezioni e misteri dell'Africa post-coloniale.
La Repubblica, domenica 24 febbraio 2002

Il commento
L'articolo a tutta pagina con cartina delle aree del mondo in cui operano attualmente le 'armate a pagamento', nonché i nomi e il curriculum dei principali personaggi interessati, l'intervista a Tim Spider, capo di un'importante società militare privata, il giornale Soldier of Fortune, i siti web specializzati, la rivelazione che le Ong pensano di utilizzare soldati privati come scorta ai convogli di aiuti, ci apre una finestra su una realtà presente nel mondo ad amplissimo raggio, per cui la proposta riveste semplicemente il senso di una razionalizzazione e regolamentazione del già esistente.

Quello che mi colpisce è il tentativo di nobilitare questi operatori di morte facendoli passare per operatori di pace o meglio per conduttori di operazioni di peace-keeping. In particolare nell'intervista succitata c'è l'assicurazione di accettare lavoro solo da governi legittimi, di occuparsi più dell'addestramento che del combattimento, di condurre operazioni preventive, ecc

Le società private in quanto tali non sono controllabili perché di solito operano nell'ombra; tranne una quarantina, che a questo punto ovviamente pagheranno le tasse.

Non ci vedo niente di diverso dalla re-istituzione delle case chiuse, per proteggere le donne, per regolamentare in modo 'sano' la prostituzione ecc., per far pagare anche a loro le tasse.

Sarò antiquata ma Freud nel suo saggio Sulla più comune degradazione della vita amorosa e nelle Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, ci dice con semplicità come la gestione del mondo pulsionale, sia sul piano dalla sessualità sia sul piano dell'aggressività, venga sottoposta a restrizioni superegoiche che richiedono operazioni complesse nel primo caso per concedere al piacere sessuale di avere spazio nella propria vita, nel secondo per superare, attraverso l'istituzione bellica, il divieto di uccidere senza incorrere in sensi di colpa.

Mi sembra che per preservare la nostra sensibilità, il desiderio di uccidere sia scisso e proiettato in professionisti o, come propone un giornalista di fama, in gruppi o popoli più adatti per etnia ad uccidere, come le antiche bande di soldati di ventura, appunto.

Così come ridurre la sessualità umana al rango di bisogno da soddisfare, richiesta che ai tempi di Freud riguardava quasi unicamente gli uomini, oggi sempre più anche le donne, porta a considerare normale fruire semplicemente di 'professionisti' che vivano a lato della nostra più politically correct ed efficiente esistenza.

Saremo sempre più in grado di vivere senza sensi di colpa, né dubbi in zone diverse e separate della nostra psiche, lo sfruttamento e la perversione accanto agli affetti sinceri e alla coscienza pulita, perché la coerenza dolorosa implica il sacrificio della immediatezza razionalizzata e l'assunzione di responsabilità delle proprie scelte non solo l'acquiescenza a presunti bisogni o necessità politiche ed economiche.

Se gli alberi sono alberi e gli uomini sono uomini

La notizia
Lo smog uccide ogni anno 17.000 persone. I costi dell'inquinamento: 17.400 i morti in Italia nel 2000 a causa delle emissioni stradali di polveri sottili (PM10); 7.861 i morti per incidenti stradali nel 1999; 27.727 milioni di Euro ogni anno i costi "esterni" degli incidenti stradali; 200 miliardi di Euro il prezzo della mobilità (salute sparita, ore di lavoro perse, ambiente distrutto; inquinamento per ogni Km percorso da un passeggero con un'auto si emettono 28 milligrammi di polveri sottili; 19 con un bus, 16 con un treno, 8 con un aereo; 15.535 tonnellate/anno di polveri sottili (PM10) vengono emesse in ambito urbano, di cui 5.256 dalle autovetture; 276 da motocicli e ciclomotori; 832 da mezzi di uso collettivo; 7.171 dal trasporto merci.
La Repubblica, venerdì 1 marzo 2002

Il commento
Un ennesimo articolo (con molti allarmanti dati) che con sempre maggiore frequenza documenta, anzi certifica "lo stato di salute" dell'ambiente; un ennesimo articolo che, ancora una volta, non mette in collegamento che questo mondo esterno in cui viviamo è l'espressione di ciò che "agisce" nel nostro mondo interno e che soltanto un cambiamento delle menti, anzitutto, e non solo delle strutture di potere e organizzative potrà portare al recupero di una dimensione più umana della vita e dell'ambiente.

Per entrare direttamente nel merito, quello su cui desidero attirare l'attenzione, con questo commento, è che ogni aspetto della nostra vita può essere colpito dall'inquinamento, ma che anche le forze che operano all'interno dei singoli individui facilitano rapporti ambientali che possono "favorire la crescita e lo sviluppo", o "agire in modo distruttivo, attraverso la crescita e lo sviluppo", per dirla in termini meltzeriani.

Ogni funzione organica, infatti, a partire dalle più importanti, può essere danneggiata tramite l'ambiente. Attraverso l'inquinamento dell'atmosfera: l'apparato respiratorio; attraverso l'inquinamento dell'acqua, della terra, delle coltivazioni, degli allevamenti: l'apparato gastrointestinale, il metabolismo, le funzioni endocrine; attraverso l'inquinamento acustico e visivo: le principali vie sensoriali. Per non parlare delle conseguenze dell'accumularsi nell'organismo umano (ultimo anello della catena alimentare) di sostanze chimiche direttamente nocive o indirettamente capaci di indebolire o di annullare i naturali sistemi di difesa dell'organismo: il sistema immunitario, per primo. Per cui oggi ci sentiamo in una situazione di impossibilità ad evitare tutta una serie di influenze esterne che ci possono nuocere, tanto da interiorizzare il timore per tutto ciò che proviene dall'ambiente. Per trovarci, infine, a diffidare della natura stessa nella sua totalità, vivendola globalmente come nemica e come avversaria da cui difendersi per poter sopravvivere. Possiamo ben dire, dunque, che l'uomo di oggi ha perso quel legame quasi viscerale con la terra, con la natura, che una lunga esperienza culturale aveva sentito e pensato come "cosmos", come ordine ed equilibrio vivente che tutto comprende e tutto avvolge. Lo sviluppo disarmonico del rapporto con l'ambiente, al di là della minaccia di ogni concreta catastrofe, ha così progressivamente condotto a quella condizione interiore in cui ora ci percepiamo "senza casa" o per lo meno con "il tetto che ci crolla in testa". Si ripresenta, insomma, sul piano naturale quello che avviene sul piano individuale nel momento in cui non riusciamo a rinunciare alla nostra onnipotenza, non riusciamo a riconoscere e ad accettare la presenza del limite. Quel limite allo sviluppo tecnologico, alla salute, alla vita stessa che sfocia inevitabilmente nella morte. Quel limite che dovrebbe farci definitivamente perdere la fiducia acritica in un progredire lineare senza fine, per portarci a capire la circolarità degli eventi, l'avvicinarsi pericoloso del progresso al caos, della salute alla malattia ... Tutto ciò non certo per giungere ad una passiva ed inerte rassegnazione delle cose, ma per permetterci una fruizione più equilibrata di noi stessi e del mondo naturale. Sono proprio gli effetti perversi di questa onnipotenza del sapere tecnico, di questa non accettazione del limite a sollecitarci un impegno in un difficile riesame e in una faticosa rivisitazione di alcuni dei modelli più appariscenti e più rassicuranti della nostra civiltà, che non è più possibile ulteriormente procrastinare. Sollecitati pressantemente dall'inattesa angoscia di fronte ad un ambiente in rivolta e da altre fonti di stress, sempre più insidiose per ogni essere umano, ci troviamo a dover accogliere una ineludibile richiesta di cambiamento. Ci troviamo a dover "inforcare delle lenti più potenti", per così dire, per ampliare, anzi per approfondire l'ottica di lettura dei fatti, con tutto il carico di dolore, di incertezza, di fatica e di lacerazione che questo comporta.

Ritengo che il saggio di D.Melzer e M.Harris "Il ruolo educativo della famiglia. Un modello psicoanalitico dei processi di apprendimento" (To, 1986) possa essere illuminante anche per un suo uso nell'ambito della riflessione sull'individuo e sul suo rapporto con l'ambiente, come già rileva G. Blandino in "Relazioni e Sviluppo" (To, 1990). In particolare, la distinzione che viene fatta fra "stati della mente adulto" e "stati della mente infantile". Il presupposto di questa concettualizzazione sottolinea "il primato della realtà psichica nella produzione dei significati" e "l'intenzionalità nella produzione dei valori". In altre parole, sottolinea la totale dipendenza della percezione che abbiamo del mondo esterno dall'organizzazione del nostro mondo interno. Nello stato mentale adulto, l'individuo si caratterizza per la maturità emotiva, cioè per la capacità non solo di amare, ma anche di odiare, di riconoscere il ruolo delle proprie parti distruttive, di stare dunque attento alla possibile intrusione della propria parte "imbrogliona e bugiarda". Questo comporta una faticosa integrazione di parti del Sé, con l'abbandono della scissione, l'accettazione della sofferenza e la rinuncia all'onnipotenza. Nello stato mentale infantile, l'individuo, che si caratterizza per una scarsa differenziazione tra mondo esterno e mondo interno e tra sè e gli altri, presenta avidità, competitività, desiderio di trionfo, sensualità e onnipotenza. Aspetti questi che non possono che avere anche delle conseguenze per quanto riguarda il rapporto con il mondo e specificamente il rapporto con la natura. Mi spiego meglio: dato che è tipico di una mentalità infantile voler possedere gli oggetti con la tendenza a sfruttarli fino in fondo per poi buttarli via e sostituirli, non è difficile riconoscere come lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, fonte di gravi danni all'ambiente, sia la riprova della permanenza diffusa di un simile atteggiamento, che si manifesta poi anche a tutti gli altri livelli, da quello tecnologico, a quello scientifico, a quello delle strategie politico-economiche. Il drammatico problema ecologico, quotidianamente sotto i nostri occhi, si può dunque anche leggere ed interpretare come una forma di incapacità di rinunciare allo sfruttamento degli oggetti e al possesso avido delle cose, o viceversa, come una forma di incapacità di acquisire quell'atteggiamento mentale più adulto che comporta invece rispetto e comprensione nei confronti del mondo e di tutte le creature animali o vegetali che siano, cioè della natura nella sua totalità. Solo in tal caso è possibile salvaguardarne le risorse e la mancata salvaguardia è indice di modalità di pensiero e di relazione di tipo infantile. Un atteggiamento mentale di tipo adulto è orientato a conoscere e a servirsi del mondo più che a volerlo controllare e sottomettere, è quindi profondamente ecologico, è quindi orientato, come ci ricorda Fornari in "Genitalità e cultura" al riconoscimento del "principio di realtà", anziché al predominio di quel "principio di piacere" che equivale poi alla presenza della pulsione di morte, cioè alla tendenza alla distruzione e all'autodistruzione, piuttosto che all'amore per la vita e la natura.

E' questo il cambiamento che ciascuno di noi può realizzare anzitutto dentro di sè e il contributo individuale che può dare, riconoscendo con onesta riflessione, la propria adesione a modelli di vita "infantili" che ci richiedono certi costumi e certi consumi.

Uno scritto Zen così dice:
"Per coloro che non sanno nulla dello Zen
le montagne sono soltanto montagne
gli alberi sono soltanto alberi
gli uomini sono soltanto uomini.
Dopo aver studiato lo Zen per qualche tempo,
uno giunge a percepire la vanità
e la fugacità di tutte le forme,
e le montagne non sono più montagne,
gli alberi non sono più alberi,
gli uomini non sono più uomini.
Per colui che ha compreso pienamente lo Zen
le montagne sono di nuovo montagne,
gli alberi sono alberi
e gli uomini sono uomini".

(da A.Watts "Lo Zen", Mi,1964).

Questo matrimonio non s'ha da fare!

La notizia
Questo matrimonio non s'ha da fare!
Suoceri antipatici? Niente nozze! Il vicario giudiziale: meglio conoscerli prima di sposarli...
Il Secolo XIX, domenica 17 febbraio 2002

Il commento
Per un matrimonio felice e duraturo, una ricetta semplice e antica: scegliersi bene i suoceri.

Detta così sembra una regola, un comandamento cui bisognerebbe adeguarsi pena il fallimento del rapporto di coppia: ancora una volta si intravvede il tentativo di riconoscere in qualcosa di esterno la difficoltà o l'impossibilità di mettersi in relazione con un'altra persona, come se si focalizzasse un obiettivo lontano e più rassicurante.

Il rischio può essere quello di tralasciare di pensare che una buona parte del fallimento di un'unione dipende principalmente dai due membri della coppia: ogni rapporto non si presenta statico come una fotografia ma è frutto della presa in carico delle responsabilità che ogni relazione comporta.
Se può essere vero che dei suoceri poco inclini a lasciare alla coppia il proprio spazio possano incrinare il rapporto è però altrettanto vero che sta ai coniugi stessi cercare di salvaguardare la propria autonomia.

Frequentemente la persona che decide di sposarsi non lascia davvero la sua famiglia d'origine, almeno in senso simbolico: rimane all'interno dell'individuo un prolungamento di quella famiglia, una fusione con essa, un'appendice che fa sì che egli resti una parte del padre o della madre. Su di lui vengono investite grosse aspettative narcisistiche come, per es., che riesca a raggiungere traguardi che ai genitori possono essere stati preclusi o che rimanga per sempre il ''bambino'' di qualche anno fa.

Se vediamo sempre più spesso figli che restano in famiglia fino a 30, 40 anni e più forse una causa può derivare dal fatto che un distacco autentico, una crescita, un'autonomia vera sarebbe vissuta da ambo le parti - figli e genitori - come una cosa molto pericolosa, alla stessa stregua di una morte interiore.

L'alternativa può essere quella di rimanere ''bambini'' all'interno di un nucleo familiare che proteggendo, impedisce però di crescere. Anche nelle famiglie in cui vi sono figli che escono per sposarsi questa autonomia non sempre è stata raggiunta pienamente: i genitori possono vivere come un vero e proprio tradimento il fatto che il figlio li abbia lasciati per sposarsi.

La conseguenza di ciò non potrà che essere una sorta di competizione con la nuora o col genero il cui fine è dimostrare, anche a se stessi, che il proprio figlio o figlia non si è reso per niente autonomo, non ha formato una coppia adulta con un'altra persona ma continua ad essere quello che ha bisogno della mamma o del papà così come ne aveva bisogno da piccolo, tanti anni fa.

Da qui l'invadenza di certe suocere, il bisogno di entrare in tutto e per tutto all'interno della vita della coppia per controllare ciò che accade, per rinnovare il bisogno del figlio fedifrago, per continuare l'illusione che egli non sia cresciuto ma sia parte integrante della famiglia originaria.

D'altro lato lo stesso partner può rappresentare, a propria volta, un genitore o una famiglia sostitutiva nel tentativo di negare una separazione dal proprio padre o più spesso dalla madre; questo anche nel caso si fugga da una famiglia opprimente ed invadente: il rischio potrà essere quello di scegliersi una moglie o un marito molto simili a ciò che si era lasciato alle spalle.

La scelta fatta dall'altro coniuge potrà, di converso, essere dettata dal desiderio di fare da madre o da padre al partner impedendone così la crescita interiore ed impedendosela a propria volta al fine di continuare a portare avanti l'illusione che non è vero sia un rapporto tra adulti con delle responsabilità e dei limiti ma il cui scopo è di tenere legato l'altro in una rinnovata dipendenza.

Molto frequentemente si sceglie una persona, ci sì ''innamora'' sotto la spinta di bisogni che il partner è chiamato a soddisfare: nel momento dell'innamoramento si torna indietro, si ridiventa bambini, fragili ed esposti. L'altro può rappresentare il genitore o la famiglia ideale, quella mamma o quel papà che avremmo voluto sempre con noi, pronti a soddisfare tutti i nostri desideri, ad essere presenti ad ogni nostro richiamo.

Se questa idealizzazione risulta essere normale all'inizio di ogni rapporto, rischia, continuando, di porre la famiglia d'origine in competizione col partner e i motivi possono essere diversi: nel partner può cercarsi una conferma che nessuno è ''buono'' come la propria madre o padre o un desiderio mai realizzato che esista qualcuno che, invece, possa realmente essere migliore.

Ora come è stato detto, ogni relazione non rimane ferma al primo momento: la scelta di un marito o di una moglie può essere stata fatta inconsciamente su alcuni presupposti ma rimane la possibilità di un confronto con l'altro e di una crescita.

Ciò può portare ad accorgersi dei propri bisogni che prima ci si nascondeva per timore della sofferenza e a capire che, forse, non abbiamo più niente da dirci con l'altro.

In questo caso la separazione dal partner, pur se dolorosa, o proprio per questo, può rivelare nuovi aspetti di crescita e di sviluppo: una raggiunta autonomia che permetterà un'eventuale nuova scelta con maggiore serenità.

L'alternativa può davvero essere una fotografia, a questo punto sempre più sbiadita; la ripetizione con partner diversi dello stesso copione allo scopo di trovare, forse, quel genitore o quella famiglia ideale che possano colmare lo struggente senso di vuoto che ci attanaglia, salvo ritornare dai propri genitori avendo la conferma che nessuno è meglio di loro.

In questo senso possono essere lette le parole del cardinale: ''molte persone rischiano di giocarsi la salvezza dell'anima celebrando un secondo matrimonio ecclesiasticamente irregolare'', nel significato di una ripetizione fine a se stessa che può farci sentire più poveri dentro, non come dogma che impedisce un autentico rinnovamento che spesso solo una separazione può portare.