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Orrore per chi, orrore per cosa

La notizia
Nel mare di un paese che è la porta dell'Occidente, del futuro e della libertà per i disperati di mezzo mondo, scompare una nave carica di clandestini, nella notte del 25 dicembre 1996. C'è il racconto di qualche superstite, la supplica delle famiglie dei naufraghi che li hanno visti partire e poi scomparire senza una traccia, gli appelli delle comunità cingalesi, le richieste di aiuto dei governi indiano e pakistano perché la tragedia venga chiarita. Per quasi cinque anni la risposta è stata la stessa: si tratta di un ''naufragio fantasma'', forse una leggenda senza veri nomi e cognomi, una storia senza esito, un dramma senza colpe e senza testimoni, senza neppure un luogo certo. Un cronista di Repubblica, Giovanni Maria Bellu, svolge una sua inchiesta, trova le testimonianze dei pescatori di Portopalo che un mese dopo il naufragio hanno scoperto cadaveri e documenti cingalesi nelle reti, scova verbali di carabinieri, accerta le coordinate. Il nostro giornale invia un robot a filmare il fondo marino, a 108 metri di profondità, e trova la nave, con i fagotti dei corpi, i sari dei tamil, le scarpe e le valigie, gli scheletri dei naufraghi. Il caso è chiarito cinque anni dopo.
La Repubblica, 16 giugno 2001

Il commento
Questa notizia riportata su tutti i giornali e, con le immagini filmate, sulle reti televisive e su internet, ha destato "orrore, sdegno, dolore, vergogna". Si sono mossi Nobel e ministri ed ora che in qualche modo si è dimostrata la verità, non si può più adottare la politica dello struzzo. Forse ci saranno altri modi per attenuare quello che è accaduto e, dalla prima pagina, relegare il seguito in qualche trafiletto che leggerà solo chi avrà mantenuto il ricordo, perché più vicino o più coinvolto.

Quello che si perde è che le testimonianze, le denunce dei superstiti, sono state prese per fantasie, altrimenti sarebbe emersa la speranza tradita di chi ha risparmiato anni per trovare posto in quella nave. Si perde l'azione criminale di chi, fucili spianati, ha costretto i clandestini a trasbordare, in una notte di tempesta, su una nave più piccola e malandata, che subito imbarca acqua, e che, nel tentativo di tornare indietro, viene speronata dalla nave grande e in pochi minuti affonda. Che i superstiti, evidentemente non appoggiati dall'equipaggio della nave, unico testimone certo della tragedia, sono stati continuamente smentiti: dopotutto chi parla è un clandestino, di un altro continente e nessuno sembra aver visto nulla.

Negare, nascondere, occultare, fare come se nulla fosse successo, tutti meccanismi difensivi adottati in massa; possiamo chiederci per quale scopo, anche se lo sappiamo. Per mantenere quella quiete che ci fa dire: "E' terribile", "Non deve più succedere", "Non avrei mai immaginato", "Era una famiglia così tranquilla" ogni volta che accade qualcosa di cruento vicino a noi.

Mi domando perché proviamo orrore per incidenti con vittime così numerose, per i massacri in massa delle guerre, tutte ormai a noi vicine; perché ci sentiamo coinvolti e restiamo tuttavia spettatori impotenti e colpevoli.

Le grandi migrazioni, in alcuni loro effetti, sono paragonabili un po' alle guerre, perché sconvolgono l'assetto del paese in cui giungono gli stranieri, aumentano l'intolleranza e rinforzano le modalità difensive, la presenza dei clandestini ci ricorda la povertà da cui ci siamo sollevati, ci fa sentire colpevoli del nostro benessere.

Quante volte abbiamo sentito, senza volerlo sentire, "Affondassero tutti con i loro barconi!!", negando una tolleranza che poi nei fatti c'è.

"Il nostro inconscio si accontenta di pensare alla morte senza realizzarla. Ma sarebbe un errore sottovalutare questa realtà psichica rispetto alla realtà di fatto. Nei nostri desideri inconsci noi sopprimiamo ogni giorno, e ad ogni ora del giorno, tutti quelli che si trovano sul nostro cammino, e che ci hanno offesi o danneggiati. "Che il diavolo ti porti!", diciamo correntemente e con un tono scherzoso che dovrebbe dissimulare il nostro cattivo umore. Ma ciò che vogliamo veramente dire, senza avere il coraggio di farlo, è: "Che la morte ti porti!"; ed il nostro inconscio prende questo augurio di morte molto più sul serio di quanto noi stessi pensiamo, e gli dà un tono che la nostra coscienza è subito pronta a sconfessare. Il nostro inconscio uccide anche per dei particolari; come l'antica legislazione ateniese di Dracone, esso non conosce per i crimini altra punizione che la morte, giacché ogni torto inflitto al nostro Io autocratico e onnipotente è, in fondo, un crimen laesae majestatis.". (S.Freud, Opere, pag.145)

Nel tentativo di non riconoscere questa nostra realtà interna, siamo presi da civile orrore di fronte ai filmati di povere vite anonime spezzate una notte di Natale. E se non ci fossero, altamente apprezzati anche se come genere un po' a parte, i film dell'orrore, quest'ultimo potrebbe sembrare semplicemente un sentimento che l'uomo prova di fronte a qualcosa che sente contrario ad ogni umanità. Ma se così fosse perché tanti ricercano attraverso film in cui si sprecano cadaveri, scheletri, membra a pezzi e in dissoluzione (per fortuna finti) quel brivido perturbante legato a qualcosa di temuto che torna dal mondo in cui era sotterrato, dimenticato, rimosso si direbbe in psicoanalisi?

In realtà niente di ciò che nei film ci sembra così distante da noi lo è veramente: lo è solo da quella minuscola porzione di noi che è consapevole. Infatti non conosciamo che molto poco il funzionamento della nostra (molto vasta) realtà inconscia. Infatti nominare l'inconscio non è più di moda da un po' di tempo. Forse perché disturba molto l'idea di essere determinati, spesso, da impulsi da noi non coscientemente controllati. Impulsi che seguono una logica tutta loro. Per cui sappiamo che persistono in noi tutte le fasi di sviluppo (compresa la naturale e inconsapevole ferocia del bambino piccolo) a cui, in qualsiasi momento difficile, possiamo regredire. Inconscio in cui il tempo non passa mai ed è circolare, non consentendoci un passato e togliendoci la speranza di un futuro, in un'inerzia dura da contrastare. Inconscio che in una logica binaria conosce solo l'amico o il nemico, l'amore o l'odio, la vita o la morte.

Freud nel ripercorrere l'evoluzione dell'uomo alla ricerca di un senso all'orrore per delitti così spesso perpetrati, ci dice come aspetti civili e morali siano acquisizioni recenti e precarie, a cui si abdica fin troppo facilmente, specie quando l'intelligenza e la logica siano spazzate via dai forti sentimenti che si generano nei grandi gruppi, da un lato dando il senso dell'appartenenza, dall'altro rendendo l'individuo ottuso ed incapace di pensiero libero rispetto all'odio che prova, anche in tempo di pace, per individui di altri nazioni, razze, ideologie, religioni, ecc. Ci dice dell'ipocrisia venata di paura per cui: "Il rispetto per i morti, di cui poi i morti non hanno più bisogno, ci appare più importante della verità, ed a molti di noi, persino superiore al rispetto per i vivi". (S.Freud, Opere. Pag.138)

Ci fa orrore anche sapere che alcuni pescatori hanno ributtato a mare i cadaveri per difendere il proprio lavoro e per non farsi coinvolgere, ma che avremmo fatto noi ce lo chiediamo? E non è più realistica la posizione del comandante del "Tuono" che dice: " ... mi hanno detto che è stato trovato quel relitto con gli scheletri ... ma io resto della mia idea: se a mare vedo un uomo vivo gliela do io la mia vita, ma se lo vedo morto ... pace all'anima sua."

Il dubbio che ci sia qualcosa di più dell'indignazione per l'assoluto non rispetto della vita umana, ormai mercificata senza speranza, specie nelle popolazioni povere asservite alla logica del profitto o del potere, mi porta a rileggere le "Considerazioni sulla guerra e sulla morte" di Freud che, con lo stupore del positivista fiducioso nella perfettibilità umana, assiste sgomento alla prima guerra mondiale, che dà inizio con i suoi orrori, alla fine dell'illusione dell'intellettuale che la pace possa diventare patrimonio comune e stabile del genere umano. Anzi ci perdiamo nel confronto con le popolazioni cosiddette primitive.

"Il selvaggio ... non è affatto un assassino impenitente; quando egli torna vincitore dalla guerra non ha il diritto di entrare nel villaggio e di toccare la propria donna, finchè non abbia espiato, con penitenze spesso fastidiose e dolorose, gli omicidi commessi in guerra. E' inutile dire che questa interdizione deriva da una superstizione, in quanto il selvaggio teme la vendetta degli spiriti di coloro che ha ucciso. M a questi spiriti non sono che l'espressione della sua cattiva coscienza, del suo rimorso per i crimini commessi. Nel fondo di questa superstizione c'è una certa finezza d'animo di natura morale che in noi uomini civili è andata perduta." (S.Freud, Opere, pag.143)

La patina di civiltà che ricopre i nostri impulsi primitivi ci aiuta ogni giorno a dimenticare, tranne quando, in realtà ormai troppo spesso, accade qualcosa che ci riporta un senso di orrore perché accade sempre, ciclicamente che l'uomo si riveli indegno della sua collocazione in cima all'evoluzione. Non stupiamoci più sentendoci estranei, questa patina è così recente, che basta poco perché lo si dimentichi. E non facciamo come se non riconoscessimo in quell'orrore la tentazione a cui tutti i giorni ci sottraiamo: quello che ci turba è che bastava poco e poteva capitare a noi sia di essere vittime ma soprattutto di essere carnefici, e soprattutto che la crudeltà è stata nostra compagna normale intorno ai due, tre anni, quando in realtà non si possono fare grandi danni e l'averla superata non significa che è a noi estranea..

"Non c'è bisogno di proibire ciò che nessuno desidera. Proprio nel modo in cui è formulata la proibizione non uccidere può darci la certezza che noi discendiamo da una serie infinitamente lunga di generazioni di assassini che, come forse anche noi oggi, avevano nel sangue la voglia di uccidere". (S.Freud, Opere, pag.144)

Parafrasando, dice Freud anziché si vis pacem para bellum, si vis vitam para mortem. Ovvero, se vuoi vivere la vita non negare né dimenticare anzi sii consapevole della facilità e dell'ubiquità della morte.

Delitto di Cogne: aspettando le risposte...

La notizia
Samuele, verità più lontana. Il pm prende tempo, ho bisogno di tre settimane. Dopo l'ultimo sopralluogo dei Carabinieri nella villa dove è stato ucciso il bimbo di tre anni, il magistrato chiede una ventina di giorni per attendere i risultati delle analisi sui reperti e fare il punto della situazione.
La Repubblica, venerdì 8 febbraio 2002

Il commento
Questo è uno dei tanti titoli che da una decina di giorni si susseguono su tutti i quotidiani italiani, dopo l'omicidio di un bambino di tre anni avvenuto in un piccolo e tranquillo paese di montagna.

Tra i tanti forse ho scelto questo articolo perché, sommersa come credo tutti da emozioni e da sensazioni diverse ad ogni notizia aggiunta dai mass-media su questa tragica vicenda, la parola "verità" mi ha colpito, data la sua densità e pesantezza.

Quale verità, in questo caso? Certamente, tutti ci auguriamo e ci aspettiamo che significhi obiettività e aderenza alla realtà, cioè certezza assoluta su chi ha compiuto questo delitto e sul perché di un tale tragico gesto.

Penso, però, che verità a volte possa voler dire anche qualcosa di più personale e di più profondo, qualcosa che riusciamo a percepire come emotivamente significativo, per esempio un pensiero, un'idea, un'ipotesi che risuonino dentro di noi in modo totalmente autentico.

Allora può essere vero che, ancora una volta, siamo purtroppo di fronte a qualcosa che rifiutiamo inorriditi ed esterefatti, stentando a credere che sia realmente accaduto, può essere vero che alla nostra coscienza ripugnano delitti come questo perché in essi ritroviamo una tragica eco della lotta tra istinto di vita e certezza di morte, lotta che da sempre accompagna l'umanità a livello individuale e sociale e che è un'essenza stessa della vita.

L'aggressività è il modo più evidente per esprimere questa lotta, ma può venire coniugata in molti atteggiamenti e tempi diversi: per esempio a livello individuale, tra parti di noi che non sopportano la fatica del processo di integrare differenti aspetti emotivi di sé, o, a livello sociale, tra gruppi, nazioni, religioni, che non riescono a dialogare o si combattono…

L'istinto, o impulso o come dir si voglia, aggressivo spinge da sempre l'umanità a sopravvivere, a conquistare, ad attaccare o a difendere, diventando buona o cattiva a seconda della molla che la fa scattare, e così l'ambizione o il desiderio di onnipotenza possono, anche all'improvviso, trasformare in tragedia un'espressione di vivace interessamento, un impulso alla crescita, un desiderio di cambiamento, oppure interrompere un dialogo, una trattativa, un incontro politico.

Ancora una volta, bisogna fermarsi a riflettere sul sottile confine di tutto questo.

Costretti come siamo ad aspettare i risultati dell'indagine, è grande lo stupore agghiacciato che ci pervade ascoltando le varie ipotesi che si susseguono da giorni su questo delitto: di volta in volta un vicino, un familiare, un amico di famiglia, un balordo più o meno di passaggio, tutti sono stati indicati come potenziali assassini di una piccola creatura inerme, e, smarriti, di nuovo ci chiediamo perché tanta violenza, tanto accanimento, soprattutto insomma tanta cattiveria; così, ci dimentichiamo che per l'individuo e per la società intera l'aggressività sottende qualunque azione, che la cosiddetta "bontà" non è data né per nascita né per grazia divina, ma è invece una conquista, e molto faticosa.

Infatti, è già dalla primissima infanzia, nella relazione con la madre, che il bambino è aiutato a vivere e via via a tollerare le espressioni del suo mondo interiore, cioè le emozioni allo stato nascente; il bambino trasmette alla madre elementi emotivi grezzi, legati fondamentalmente all'angoscia di morte, e la madre, con la sua capacità di contenimento, gli restituisce queste forti emozioni, in un certo senso "narrate" e rielaborate.

Come scrive Bion: "Descritta in termini di funzione materna (o di funzione analitica della mente) la capacità di tollerare il mondo emotivo ha a che fare…anche con l'offerta, da parte della madre, di un "dono" di significato che permetta al bambino di tollerare le emozioni negative".

Da questa relazione nasce nel tempo la capacità di pensare del bambino, in origine un dono gratuito fornito dalla madre insieme alle cose che istintivamente gli offre per provvedere ai suoi bisogni: questa funzione materna permette al bambino di imparare a tollerare l'angoscia di morte senza esserne sopraffatto.

Ma anche in seguito, nella vita da adulto, sarà necessario ripetere questo percorso, cioè la rielaborazione delle emozioni attraverso "l'apprendere dall'esperienza", poiché pensare è una funzione della personalità in continuo sviluppo, non una facoltà innata conclusa in sé fin dall'inizio e bisognosa soltanto di essere usata per esprimere la propria maturità.

Man mano che si confronta con l'esperienza, la mente impara a conoscere, capire, integrare in sé i diversi aspetti della realtà e le diverse emozioni che essi provocano, in un processo che è tutt'altro che indolore, soprattutto se, per qualunque motivo, qualcosa non ha funzionato all'inizio del percorso, se, per esempio, il bambino non è stato aiutato e abituato ad integrare gli elementi nuovi.

In questa crescita la mente è sempre esposta a momenti di imprevedibilità, ad esempio, per contenere un'idea nuova corre il rischio che il "contenitore" di pensiero si rompa, frammentando così le sue funzioni e dando origine a parti scisse nella personalità dell'individuo.

Tutto questo può accadere soprattutto quando il processo del pensare si scontra con aspetti dolorosi, che vengono rifiutati poiché implicano sofferenza, e alla fine bloccano la possibilità stessa di pensare.

Nel caso di questo fatto di cronaca, osserviamo come ciò possa succedere anche a livello di gruppo: giornali e televisioni ci inondano di atteggiamenti diversi, indicatori tutti di alcune modalità di difesa. Gli articoli e i servizi oscillano tra l'interesse voyeuristico per i luoghi e le persone implicate, e l'appello moralistico al rispetto del dolore e della privacy, tra il porsi in atteggiamento riflessivo con domande agli "esperti", e l'arrivare a conclusioni affrettate, ma in quanto tali rassicuranti.

Sembra manifestarsi una caratteristica di questa società, una sorta di "duplicità etica": ritenendo acquisito o dando per scontato l'ideale della "bontà", della tolleranza, si dimentica che esso invece è punto di arrivo di un cammino che, come accennato prima, gli individui, ma contemporaneamente tutte le istituzioni che li rappresentano, devono compiere, tenendo cioè conto delle emozioni di fondo legate all'angoscia di morte, all'istinto di sopravvivenza, all'aggressività, quindi al desiderio di sopraffare, al rifiuto dell'altro, alla non tolleranza.

La necessaria integrazione di questi elementi per realizzare una crescita, individuale o sociale che sia, si realizza sempre con fatica e sofferenza, implica atteggiamenti di ascolto, possibilità di attesa, capacità di comprensione e di tolleranza dei nostri aspetti non chiari, o delle ragioni dell'altro che sembra contro di noi.

Con questo rifiuto di prendere in considerazione la tendenza aggressiva che sta sempre come sfondo in ogni avvenimento, la società la estromette da sé, la rende altro, scissa dal resto, per ritrovarsela poi agita in qualche azione che risulta allora incomprensibile o frutto di qualche solitaria pazzia, esattamente come per l'individuo che la compie, quando lascia agire parti non integrate di sé.

Credo che tutti gli atteggiamenti manifestati da giornali e mass-media intorno a questa vicenda siano mossi a livello profondo dal tentativo di coprire la paura e il dolore di doversi ancora una volta confrontare con un atto che vorremmo non ci appartenesse, con un gesto di pazzia del quale vorremmo almeno una spiegazione, per continuare a credere, per esempio, che questi fatti accadono agli altri, indotti alla follia per nascita o per vicende personali, che comunque senz'altro essi non ci riguardano, perché noi "proprio in buona fede" non siamo aggressivi, ma crediamo nella bontà, nel rispetto degli altri, abbiamo idee di pace e di tolleranza… e possiamo dunque invocare la verità, quella dei dati certi, dei risultati scientifici, dei riscontri obiettivi, per poter additare finalmente qualcuno, mostro o pazzo che sia, e, rassicurati, voltare pagina (nell'attesa della prossima cronaca…).

Sempre Bion cita Keats per sottolineare "Quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze, attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare a una agitata ricerca di fatti e ragioni."

Mi sembra che la richiesta di tempo espressa dal magistrato, per aspettare i risultati scientifici e mettere insieme tutti i dati raccolti, possa corrispondere non solo ad un atteggiamento scrupoloso e cauto nel condurre il proprio lavoro, ma anche alla capacità di porsi in un clima di attesa, al riparo dalla troppa fretta e dalle richieste della società intorno, provando a rimanere per un po' in silenzio.

E forse davvero il silenzio stampa più volte invocato dai protagonisti della vicenda, dagli abitanti del paese, da tutte le persone più sensibili, è la richiesta di quell'ulteriore silenzio che troppo spesso in questa società non è dato, e noi stessi non ci concediamo, indispensabile per trovare sì la verità, quella però che non solo corrisponde ai fatti, ma risuona in noi, e tante volte si associa al dolore.


"Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e…
cerca di dominare le domande che sono simili
a stanze chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte che non possono esserti date,
poiché non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa.
Vivi le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta."


[R.M.Rilke]

Ma separarsi è un piacere?

La notizia
Divorzio, il Papa a giudici e avvocati ''Non collaborate'' In un discorso tenuto davanti al tribunale della Rota romana il Papa afferma categoricamente alcuni principi fra i quali l'indissolubilità del matrimonio come parte fondamentale del patto matrimoniale. E suggerisce, sarebbe meglio dire: impone, una linea di comportamento a giudici e avvocati.
Il Secolo XIX, 29 gennaio 2002

Il commento
"Non è facile commentare l'opinione del Papa". Comincia così un articolo sul SECOLO XIX di Genova a commento della notizia che oggi, 29 gennaio, campeggia sulle prime pagine di quasi tutti i giornali. E, in realtà credo che sia veramente molto difficile. Le parole del Papa sono, evidentemente, un valore assoluto all'interno della chiesa cattolica, il valore teologico, religioso, morale di queste dichiarazioni non può essere messo in discussione.

Un punto che, forse, risulta più "commentabile" è quando si legge che il Papa vorrebbe che alcuni soggetti della società civile (avvocati e giudici) si astenessero dall'operare per consentire alle persone di divorziare. Qui potrebbe essere più agevole affermare, a seconda delle proprie idee, se si è d'accordo o meno con il Papa, oppure - addirittura - se è lecito che il Papa si occupi così a fondo di questioni regolate da una legge dello stato. Ma anche questo è un punto che voglio lasciare alle considerazioni di ognuno.

Il Papa dice che il divorzio è: "… una piaga dalle conseguenze devastanti"; che "non ci si deve arrendere alla mentalità divorzistica, l'indissolubilità del matrimonio fa parte dell'essenza stessa del patto matrimoniale …"; i giudici "devono trovare mezzi efficaci per favorire le unioni matrimoniali mediante un opera di conciliazione saggiamente condotta".

Affermazioni, per altro, anche condivisibili se non fosse per il fatto che sembrano essere un "dato" di partenza irrinunciabile e non un obiettivo da raggiungere liberamente.

L'indissolubilità del matrimonio, questa espressione mi colpisce!

Mi colpisce perché si riferisce a un mondo perfetto, luccicante, sempre felice, in cui si è sempre e per sempre assieme.

E il mondo in cui viviamo non è così.

Il matrimonio, ad esempio, non è una realtà assoluta: ci sono civiltà che ne fanno a meno, e poi, non è mai come dovrebbe essere.

Ma poi come dovrebbe essere? Soprattutto indissolubile! - dice il Papa.

E basta? Questa espressione mi colpisce perché mi sento anche un po' defraudato: ma come, io pensavo di avere scelto liberamente di vivere con una persona (il più a lungo possibile, si capisce) e vengo a sapere che sarà così soltanto perché ho scelto la formula giusta: il matrimonio della Chiesa Cattolica. E quindi il merito o la responsabilità di questa lunga unione sta solo nel fatto che niente e nessuno ci potrà "slegare".

Questa espressione mi colpisce perché in tutta questa storia - che poi è la mia vita - ci posso fare ben poco, a proposito di una delle cose che potrebbero essere importanti per me … io, ripeto, non ci posso fare niente, nel bene e nel male, l'ho sposata/o e quindi basta, se va bene è merito del matrimonio, se va male … il matrimonio indissolubile farà migliorare le cose.

Mi colpisce perché mi sento privato della possibilità di voler bene e di arrabbiarmi con la persona con cui vivo: sono obbligato a calpestare i miei sentimenti e a viverci per sempre.

Forse ci vorrebbero degli esami prima del matrimonio, forse i corsi prematrimoniali tenuti dai parroci dovrebbero essere più selettivi prima di arrivare ad un legame indissolubile. Perché poi arriva il momento in cui si fanno i conti con la realtà!

E cioè, "semplicemente" arriva il momento (generalmente dopo la cerimonia) in cui si comincia a pensare al perché e al percome dell'unione appena effettuata.

E, nell'esperienza di ognuno di noi, è un gran momento quello in cui si comincia - parafrasando Bion - a provare a pensare a quello che si sente.

È un gran momento, ma sicuramente è un momento di grande crisi, e dai momenti di grande crisi si può uscire con le ossa a pezzi, oppure con lo ossa leggermente rinforzate: dopo qualche mese di ingessatura si forma il callo osseo e si può provare a proseguire.

Superando per un poco queste considerazioni dettate forse soprattutto dallo stupore, cerchiamo di fare qualche riflessione sul matrimonio e su quelle che, qui sulla terra, sono le ragioni che spingono due persone al matrimonio o alla convivenza: l'amore, il desiderio di un figlio, il desiderio e la speranza di costruire una realtà diversa da quella che abbiamo conosciuto, la volontà di andarsene di casa, l'interesse, un atto riparatorio …molto spesso sono ragioni del tutto chiare ai futuri sposi, a volte no, che fare?

Non voglio affermare che il divorzio sia la migliore soluzione possibile, di fatto è, probabilmente, il segno che si è commesso un piccolo errore, o magari soltanto che si è un po' cambiati, ma perché non lasciare agli uomini e alle donne la possibilità di cambiare?

E poi c'è un'altra questione di cui il Papa non si è occupato davanti al tribunale della Rota romana (che, credo, sia il tribunale dove si annullano i matrimoni): i figli.

Ecco, i figli. Sembra che i figli siano una specie di corollario al Sacro vincolo del matrimonio. Ragazzi costretti a vivere per anni fra due persone che non si sopportano più, ma che saranno i loro genitori per tutta la vita - questo sì che forse è un legame naturale indissolubile ma contrastato - e dai quali, prima o poi, ci si dovrà separare.

Forse non si tratta di una separazione paragonabile a quella del matrimonio (o forse sì), ma è sicuramente un momento importante nella vita di ognuno di noi, il momento in cui - dolorosamente - si cambia, si prova a crescere, e si prova a trasformare un rapporto quasi esclusivamente simbiotico in un rapporto un po' più maturo.

Probabilmente anche la separazione di una coppia ha lo stesso valore di crescita e di maturazione se non esiste più lo spazio per litigare e per volersi bene, e credo che si possano nutrire forti dubbi sul fatto che sia meglio una coppia stabile e inamovibile, a due individui che - ripeto - dolorosamente cercano di proseguire nella vita in maniera più autonoma e più rispondente alla propria realtà affettiva.

La politica delle scatole cinesi

La notizia
Guerra a Osama. I detenuti di al Quaeda. Le critiche dell'Europa sul trattamento dei prigionieri talebani hanno spinto gli Usa a interrompere i voli di trasferimento a Cuba. Ma la costruzione delle celle sull'isola continua a pieno ritmo. Nell'attesa di trovare una soluzione politica e giuridica al problema.
Panorama di giovedì 31 gennaio 2002

Il commento
Guantanamo è una base militare USA, è un angolo di Cuba, che occupa un'area grande come San Francisco. E' in questo lembo di terra -da cui seppur cacciati gli americani non " se ne sono mai andati"- che oggi sono imprigionati 158 detenuti talebani.
Il Pentagono considera questi prigionieri dei criminali, rifiutando loro lo status di prigionieri di guerra e il relativo trattamento assicurato dalla convenzione di Ginevra.
Gli alleati europei criticano le condizioni in cui sono tenuti i detenuti. Il ministro degli Esteri dell'Unione Europea parla di tortura, un gruppo di avvocati americani capeggiati dall'ex ministro della Giustizia Ramsey Clark chiedono che ai detenuti venga riconosciuto almeno un capo di imputazione, se non la presenza di un legale.

La scelta della base militare di Guantanamo è stata determinata proprio per poter mantenere i prigionieri in una sorta di limbo giuridico, prima di una decisione definitiva circa il loro destino.

Al di là delle ragioni giuridiche colpisce il fatto che ci sia stata l'esigenza di interdetto del suolo americano ai terroristi talebani, membri dell'organizzazione di Al Quaeda, che si siano dovute isolare, con tanta determinazione, queste oscure forze del male. Forse viene spontaneo chiederci se confinare extra moenia questi prigionieri, non fargli nemmeno toccare la terra di Colombo, non possa costituire una misura necessaria al fine di mantenere intatta l'integrità del pensiero americano, così seriamente minacciata da tensioni e lacerazioni interne. Integrità di pensiero che la ricca e opulenta America è riuscita a conquistarsi a prezzo di continue scissioni interne ed esterne. La stessa Cuba a suo tempo è stata isolata, controllata e repressa. I prigionieri sono stati rinchiusi a Guantanamo; il nemico, in un gioco scatole cinesi, lo si è isolato in un'isola creata dalla natura, che accoglie al suo interno un'altra isola politica, che accoglie al suo interno un'altra isola militare circondata da filo spinato. In questo gioco di scatole cinesi i confini delle nostre e altrui ragioni si perdono, non c'è più bisogno di riconoscere in noi la stessa violenza del nemico, magari ben camuffata sotto la completa differenza di stile e di argomentazioni.

A Guantanamo vediamo questi esseri umani privati della loro identità, ridotti a fantasmi arancioni, che piegati dal dolore, dall'umiliazione e dagli psicofarmaci, vengono spiati in continuazione.
Una luce forte infatti li insegue notte e giorno. Portano bende intorno agli occhi e mascherine sulla bocca, capelli e barba sono stati tagliati per privarli della loro identità di popolo. Questa necessità di dover ridurre esseri umani ad oggetti è forse una difesa per allontanare da sé per sempre la paura?
Paura della povertà, dell'ignoranza dell'integralismo, della misoginia, paura di chi senza speranza attacca e uccide anche se stesso?

Forse queste paure vengono isolate a Guantanamo, vengono nascoste, represse, soffocate e così un numero spropositato di soldati americani sorveglia 158 detenuti assolutamente non più in grado di nuocere.

I terroristi devono essere sistemati in questa piccola e ultima scatolina cinese e lì devono stare per sempre, visto che non è possibile farli sparire.
Per favorire le scissioni, i mezzi di comunicazione ci forniscono notizie da un solo vertice di osservazione. Così i meccanismi normali di integrazione e di ricomposizione vengono inibiti: non bisogna lamentare la perdita degli altri, di quelli del fronte opposto, bisogna negare la sofferenza di questi esseri umani.

A tre mesi dall'inizio della guerra in Afganistan, il governo degli Stati Uniti annuncia la morte sul campo del primo soldato americano e il presidente Bush lo cita come caduto per amor di patria. Neanche una parola per i caduti del fronte opposto. E' propaganda, ma è propaganda tesa ad evitare la depressione determinata dalla distruzione, dal semplice motivo che esseri umani in conflitto sono costretti ad uccidersi, ad umiliarsi. I meccanismi di lutto, che tale situazione determina, vengono arrestati e contrastati da evidenti atteggiamenti maniacali: turisti americani a Cuba al modico prezzo di 35 dollari spiano dall'alto i detenuti…Mc Donalds conta di aprire una filiale con vista sulle celle dove vengono tenuti i terroristi.

Eppure assumersi la responsabilità della propria integrità di individuo e di popolo vuol dire non isolare, reprimere e confinare, vuol dire non lasciare che parti rimangano isolate o inascoltate, significa assumersi la responsabilità della propria condizione mentale, la responsabilità dei conflitti interni e della necessità di integrarli tra loro, invece di segregarli in territori separati e diversi.
Fa paura pensare che un Occidente ricco e culturalmente avanzato possa albergare realtà e sentimenti ancora così primitivi, come povertà, ignoranza, integralismo, misoginia. Eppure è solo accettando questo e non richiudendo tutto in isole sempre più piccole che possiamo crescere come individui e come popolo.

Forse dovremmo smettere di costruire a pieno ritmo celle per confinarvi dentro ciò che non vogliamo vedere; non è spiando che possiamo capire, è solo avvicinandoci con cautela e osservando.

Perché poi, in fondo in fondo al mare le isole non esistono!


"Beneath the wind turned wave
Infinite peace
Islands join hands
'Neath heaven's sea"


[King Crimson: Island]

Giochi di potere: una cimice nel letto

La notizia
L'aereo più spiato del mondo. Il Boeing 767 costruito negli Stati Uniti per il presidente cinese era pieno di microspie. C'era una cimice nel letto del presidente cinese, e un'altra nel suo gabinetto, anzi tre, no, quattro, cinque, aspettate, sei , dieci, ventisette, sì, almeno ventisette cimici che brulicavano dentro l'aereo presidenziale di Jliang Zemin.
La Repubblica, 20 gennaio 2002

Il commento
Mi viene da pensare come sarebbe interessante regalare, nella nostra fantasia, a tutti i potenti del mondo, la sottrazione di alcuni lustri, ed immaginarli, nel giardino incantato dell'infanzia, mentre sono intenti a governarci, giocando a nascondino, guardie e ladri, mosca cieca…

Giocano, poiché sono bambini ed è certamente la cosa che sanno fare meglio: poi, a seconda delle risultanze del loro gioco, delle loro alleanze, di chi ha vinto o perso, si determinerà, anche, la geografia politica delle nostre esistenze.

Leggendo la notizia delle microspie nell'aereo, ho, immediatamente, pensato che questo fatto avrebbe comportato un incidente diplomatico di notevoli proporzioni e che forse non averi rivisto Bush, in pigiama cinese, al prossimo summit di febbraio. Invece no - Zucconi rassicura - tutti amici come prima, perché sono cose che capitano abitualmente, e la Cina ha troppo bisogno dei dollari americani mentre l'America necessita della Cina per la coalizione globale!!

Allora tutto a posto, poiché tutti spiano tutti, è quasi un gioco da ragazzi dove vince chi si fa scoprire meno; ma, se per caso, viene scoperto, si fa '' pari e patta'' e magari ''sta sotto'' qualcun altro, nel perenne diplomatico gioco a nascondino.

In effetti, se, per un momento, fantasticassimo di essere bambini, in un mondo governato da bambini che giocano nel portare avanti il faticoso compito direttivo, ci proietteremmo in un eden immaginario, dove tutto può avvenire, frammentarsi e poi ricomporsi, senza essere catastrofico come nel mondo dei grandi; noi bambini, inoltre, guarderemmo agli accadimenti drammatici, che ci annichiliscono, con spirito più libero da pregiudizi.

Non saremmo rigidamente fissati a posizioni determinate di'' buoni o cattivi'', perché, nel gioco, le parti si invertono con molta semplicità e velocità e questo scambio di ruoli permette a l'uno di mettersi nei panni dell'altro, e, quindi, di comprenderlo e di diventare più tollerante.

C'è una notevole differenza fra capire e comprendere: capire si riferisce all'aspetto cognitivo dell'esperienza, mentre comprendere si riferisce all'aspetto emotivo che chiede di essere esperito attraverso l' affettività, senza ulteriori spiegazioni razionali.

In effetti, questa fantasia di essere in un giardino d'infanzia, me l'ha regalata Bush, col suo improbabile pigiamino cinese e la sua espressione perplessa, in bilico fra l'imbarazzo e il faceto.

Certo, riuscissimo a vedere così i nostri governanti, ci risparmieremmo molti turbamenti e delusioni, in quanto, le aspettative sarebbero ridotte, ed, inoltre, avremmo lo sguardo benevolo che si concede sempre ai piccoli.

Peccato che rischieremmo di naufragare, con un delirio di onnipotenza, in un mondo-altro, molto lontano dalla realtà.

Ma poiché è dato fantasticare, vorrei continuare a immaginare questi bambini - governanti nel loro giardino incantato della gestione del potere e avvicinarmi a questo irrefrenabile impulso a spiare, origliare, guardare dal buco della serratura che trasforma ogni adulto in un bambino regredito, che soffre nel sentirsi escluso.

Perché il senso di esclusione e il dolore che questo comporta, anche se spesso negato, è presente in ogni pulsione e sentire o vedere ciò che non ci compete.

La stanza genitoriale, la porta chiusa che esclude e fa sentire solo il bambino è il punto primo, il motore iniziale della curiosità. La curiosità può poi trasformarsi positivamente in desiderio di sapere oppure fissarsi allo stato arcaico e patologico di scopofilia.

Dice Melanie Klein: '' se osserviamo il nostro mondo adulto, dopo averne esaminate le radici nell'infanzia, otterremo una visione più completa del modo in cui la nostra mente, le nostre abitudini e le nostre opinioni si sono andate formando a partire dalle primissime fantasie e emozioni infantili fino ad arrivare alle manifestazioni adulte più complesse ed elaborate.''

Forse, allora, è per l'antica consuetudine infantile di essere sempre sotto il controllo genitoriale, che, con tanta tranquillità, attraverso un massiccio meccanismo di negazione, facciamo, ora, finta di non accorgerci di avere perso ogni possibilità di privacy; anche se la convenzione europea dei diritti dell'uomo stabilisce che ogni intrusione nella vita privata deve essere oggetto di una legge precisa, motivata e necessaria rispetto ad un obiettivo preciso.

Il sociologo David Lyon si domanda se la tanto celebrata società dell'informazione non stia piuttosto evolvendo verso una nuova società della sorveglianza, poichè l'introduzione delle tecnologie della comunicazione informatica comporta un salto di qualità rispetto ai tradizionali meccanismi del controllo sociale. Le memorie informatiche vengono trasferite e scambiate attraverso reti di comunicazione al di la' dei vincoli costituiti dallo spazio - tempo. Le tecnologie della sorveglianza diventano meno intrusive, si fanno raffinate e seduttive, ma il loro compito è, comunque, quello di mantenere l'ordine sociale nelle tradizionali sfere del controllo.

Non abbiamo più segreti: al bancomat, su Internet, persino se camminiamo per strada, ogni nostra mossa può essere spiata. Il nostro diritto alla privacy è calpestato, bit dopo bit. Registriamo i nostri movimenti, ogni volta che preleviamo contante dai bancomat o paghiamo le autostrade con tessere magnetiche. In città come New York, si viene fotografati dalle telecamere, una media di 20 volte al giorno. D'altronde, non si capirebbe come, altrimenti, sia stato possibile avere le immagini della distruzione delle torri gemelle da più punti di osservazione.

La nostra cultura sta attraversando una crisi d'identità di massa, cercando di conservare un qualche senso di privacy, all'interno di un villaggio globale composto da decine di milioni di persone. Secondo Kelly, ''nel villaggio tradizionale, la privacy non esisteva affatto: tutti conoscevano i segreti di tutti. E ciò funzionava. Io so tutto di te, tu sai tutto di me. Esisteva una simmetria di conoscenze. Quel che non quadra oggi e' che non sappiamo più chi conosca le nostre abitudini. La privacy e' divenuta asimmetrica.''

''La libertà stessa é sotto attacco,'' dice Bush, e ha ragione. Gli americani sono sul punto di perdere molte delle loro libertà. Il governo propone di controllare i nostri telefoni, di leggere le nostre e-mail, e di impadronirsi dei registri delle nostre carte di credito senza ordine del tribunale.. Per salvare la libertà, si rischia di distruggerla. La ''nuova guerra'' americana contro il terrorismo sarà combattuta con una segretezza senza precedenti, non ci é permesso comprendere le ragioni che stanno sotto ai crimini raccapriccianti del 11 di settembre, si punta verso un futuro Orwelliano di guerra infinita.

Il 1984 é arrivato. Nel suo discorso al Congresso, George Bush, ha efficacemente dichiarato guerra permanente, guerra senza limiti temporali e geografici; guerra senza scopi chiari; guerra contro un nemico vagamente definito e costantemente mobile. Nel libro ''1984 ''di George Orwell, lo stato totalitario di Oceania é perennemente in guerra con l'Eurasia e l'Estasia. Nonostante il nemico cambi periodicamente, la guerra é permanente; il suo vero scopo é controllare i dissensi e sostenere la dittatura nutrendo la paura e l'odio del popolo. Il discorso allarmante di Bush puntato verso un nemico indistinto che si nasconde in più di 60 paesi, inclusi gli USA annuncia una politica che usa il massimo della forza contro qualsiasi individuo o nazione da lui designata come nemica.

Ha esplicitamente avvertito che la maggior parte della guerra sarà condotta in segreto. Bush entra nel ruolo del Grande Fratello, che ha bisogno di essere amato e contemporaneamente temuto.

Le trasmissioni come 'Il grande fratello' o i talk show che hanno tanto successo, evidenziano la tendenza umana al voyeurismo come metafora del nostro modo di conoscere che ci porta ad assistere piuttosto che a sperimentare direttamente le cose.

Voglio dire che, se ci regalassimo la possibilità di ascoltarci maggiormente, di sentirci responsabili ciascuno delle proprie azioni, senza giocare a scarica barile, forse riusciremmo, noi nel nostro micro-universo personale e i politici nel loro macro-universo diplomatico internazionale, a non sentire quell'irrefrenabile impulso a spiare che ci fa tornare bambini spaventati e insoddisfatti.

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