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Lolita, il Cavaliere e l'Ordine dei Buoni Padri

La notizia
Il Cavaliere: Via le prostitute dalle strade!
La Stampa, domenica 6 maggio 2002

Il commento
Nel tentare di commentare questa notizia, dovendo in un qualche modo prescindere da una valutazione politica,di ininfluente interesse in questa sede, non riesco a fare a meno di ritornare insistentemente col pensiero a due ' libere associazioni 'che ho fatto, leggendo la notizia.Come tante libere associazioni, mi sono suonate apparentemente dissintone, inappropriate, incoerenti.

Una riguarda l'aneddoto di Salomone che, richiesto da due donne che gli mostravano un neonato, di stabilire quale tra loro fosse la madre vera, quale la menzognera, propose loro di tagliare a mezzo il bimbo e di prenderselo, metà all'una , metà all'altra. Subito, la sedicente madre, pur di possedere il bambino, rivendica per sé la metà, il corpo straziato.Mentre la vera madre, purché il piccolo viva, accetta di lasciarlo all'altra, purché integro.Questa diviene la prova per Salomone il saggio, di chi sia la madre autentica, quella che preferisce la vita al possesso mortifero. Quella che pone al centro del suo interesse emotivo una concretezza indiscutibile:la vita del figlio.

L'altra libera associazione riguarda, invece, una nota di Vladimir Nabokov a proposito del libro "Lolita". La prima ispirazione, scrive l'Autore, nacque in qualche modo quando lessi su un giornale come una scimmia al Jardin des Plantes, dopo mesi di blandizie da parte di uno scienziato, avesse prodotto il primo disegno a carboncino mai eseguito da un animale: questo schizzo raffigurava le sbarre della gabbia occupata dalla sfortunata bestia. L'impulso che cito non aveva alcun nesso specifico con la successiva evoluzione dei miei pensieri, evoluzione che ebbe come frutto, tuttavia, un prototipo del romanzo…
(V. Nabokov, Lolita, Mondatori Milano 1966, pag 9 ).

Prostituzione sulla strada, prostituzione nelle case chiuse: violenza esplicita nel primo caso, violenza occultata, celata e forclusa nel secondo.

Violenza comunque. La stessa di quelli che vogliono lapidare Safyia per adulterio, o rinchiudere i malati mentali nelle equivalenti case chiuse, i manicomi.

Una violenza che sembrerebbe connessa al dare per scontato che non possa essere operata dallo Stato alcuna trasformazione culturale intorno alla relazionalità affettiva tra i sessi. Eppure, negli anni, abbiamo avuto l'educazione all'alfabetismo con la scuola dell'obbligo, l'educazione sessuale nelle scuole elementari, quella, sempre svolta a livello scolastico, all'educazione alla salute . Persino i malati mentali, categoria verso la quale il pregiudizio e la sfiducia sociale è stata, per secoli, gravosissima, hanno, faticosamente,visto almeno il tentativo di una modulazione dell'atteggiamento mentale del gruppo, dei media e, alla fine, dello Stato.

Persino verso la follia, così disturbante e pericolosa, si è fatto un tentativo.

A livello legislativo, con svarioni e insuccessi, si è tentato molto per i tossicodipendenti, problema che, per aspetti simile a quello della prostituzione, ha però suscitato ben altro atteggiamento. Mi pare che, al di là del successo delle misure intraprese, almeno non vi sia dubbio se mettere i tossici o gli spacciatori nelle prigioni-case chiuse!

La prostituzione,evidentemente, suscita angosce ancora più disturbanti e più pericolose, forse talmente estreme da dover ricorrere ad un meccanismo maniacale di erotizzazione dell'orrore. Pensiamo, ad esempio, alla ottocentesca definizione lessicale di 'donnine allegre ', a quella moderna di "lucciole", poveri insetti dalla vita brevissima…

E' quantomeno curioso che sia la destra che anche la sinistra, quasi l'intera classe dirigente del Paese dimostri tanta sfiducia nella possibilità d'intervento legislativo e culturale dello Stato.

Solo il mondo cristiano pare dimostrare un interesse su un piano affettivo, portando avanti un discorso di rispetto dei rapporti umani, della salvaguardia di queste donne vittime nella maggior parte dei casi di uno sfruttamento a più livelli che vengono lasciate sole, nell'indifferenza e nell'ostracismo da parte di tanti.

Berlusconi, afferma il giornale, si vergogna quando davanti ai figli assiste a questo spettacolo degradato rappresentato dalla prostituzione per le strade. La presenza dei figli gli permette di proiettare sui giovani quella parte tenera e affettuosa che si rivolta, soffrendo, davanti alla violenza, anche se mascherata dalla vernice eccitante dell'erotizzazione. Davanti ai figli prova un attimo di insight, in cui sente la responsabilità di padre sul piano personale e di padre-presidente.

Insight sul dolore, sulla degradazione di spacciare per deduttivo ed eccitante ciò che è solo violenza, prepotenza, il contrario della relazione di intimità pur basandosi sulla caricatura della seduzione. Insight sulla distruttività che indifferenza e diniego, cinismo e perversione manipolatoria comportano contro la possibilità di elaborare le difficoltà e la sofferenza.

Sofferenza legata, forse, alla consapevolezza del limite, dell'impotenza che sono connessi alla condizione umana che ripropone ad ognuno ,di qualunque sesso, il non potersi più fondere nell' "unione oceanica" una volta separati dalla madre.

Limite che il rapporto uomo donna ripropone, situandosi l'incontro, anche il più bello, come un ponte tra due rive, non come un annullamento della distanza. Basti pensare a quanta patologia sessuale sia legata al problema dell'unione-separazione. Paura ad entrare in rapporto, ma anche paura dell'orgasmo come momento che, con l'appagamento, sottolinea il ritornare ad essere separati.

Forse il rapporto cliente-prostituta vede la possibilità a monte di negare la separazione, dando,con la mercificazione, la possibilità di controllarla e dominarla, quando la prostituta è immaginata deprivata di una qualità di persona viva, altra da sé e pensata come un oggetto in magica rispondenza illusoria ai bisogni e alle fantasie dei clienti.

Davanti ai figli - parti affettive capaci di sentire il dolore mentale - viene sperimentata la vergogna, ma subito questo insight si dimostra troppo doloroso. La pena, se si guarda sotto al famoso perizoma ed eccitamenti varii, diventa devastante. Si vedrebbe una ragazza, lontana da casa, certamente infreddolita, stordita, annoiata e disperata. Queste emozioni non indurrebbero in nessuno una reazione erotica, così come non la induce vedere un gattino schiacciato. La vergogna riguarda, in prima battuta, anche la pena e la responsabilità a far qualcosa, a prendersi cura. Ma questo sentimento disturbante e destrutturante, anche se potenzialmente utile a produrre cambiamento, è troppo pesante. Comporterebbe uno stato di dubbio, un interrogarsi sulle proprie capacità politiche, personali di uomo, personali di cittadino, come in ognuno di noi, comporterebbe sentire il dolore dell'impotenza e il disagio intorno a grandi problemi: che facciamo nella relazione con l'altro? In quella con l'altra parte di noi, con il piacere e il dolore, con la responsabilità rispetto alla persecuzione e alla colpa. Tutto questo è troppo disturbante e viene allontanato tramite una difesa di stampo decisionista: rendiamo non avvenuto il fatto, rimovendolo dalla coscienza e isolandolo da ogni contesto affettivo. Non è un caso che un altro deputato parli di recludere le prostitute in un luogo isolato dove " siano possibili controlli sotto l'aspetto dell'ordine, della sanità e del fisco". Un paziente con una caratteropatia ossessiva a copertura di una violenza psicotica, non avrebbe potuto fare un sogno più significativo.

L'importante sembra essere che questi "figli" - del Cavaliere, ma anche i nostri - non vedano questo scandalo: magari vedendoselo a casa, sulle reti televisive del suddetto Berlusconi, quando si sorbettano le pubblicità, i film, l'atmosfera pornografica e manipolatoria dei vari programmi. Nella scontatezza più totale, nell'indifferenza degli adulti.

In materia sessuale, la politica del non parlare del non mostrare non è certo una novità. La politica di "vizi privati e pubbliche virtù" mi pare sia secolare. Ma, nella cultura moderna, si sta anche facendo strada la consapevolezza della pericolosità di questo occultare e allontanare i problemi, che si ripropongono poi con un conflitto tra i sessi che sta producendo patologie varie e atteggiamenti di costume che hanno aspetti preoccupanti che tornano indietro, per esempio sotto forma di disagio diffuso nei maschi a trovare un qualche altro modo di interagire, magari sul lavoro, con le donne, della cui non passività hanno più che paura, mi sembra, totale inesperienza.

Questi figli che devono essere protetti così, con l'isolamento delle prostitute nelle case chiuse, ma che devono essere esposti fin da piccoli all'esibizione visiva del nudo femminile violento in quanto non solo irrispettoso ma improprio, all'esibizione di ruoli sessuali non solo violenti per la donna, sempre oggetto del maschio, ma anche costrittivi per il maschio, che si deve conformare ad un ideale di ipervirilità, che deve stare nello stretto binario dell'ottica della performance, quella che lo vuole produttore di "durezza" in tutti i sensi.

Viene imprigionato l'immaginario femminile ridotto ad oggetto di desiderio di qualcuno, ma viene imprigionato anche quello maschile.

Non solo la psicoanalisi, anche le filosofie antiche, alcune religioni affermano il desiderio di bisessualità nell'uomo. Una bisessualità da intendersi, a mio parere come bisogno di completezza, di poter giocare fantasticamente tutti i ruoli possibili per aumentare la propria capacità affettiva, non la propria confusione. Poter immaginare tutti i ruoli possibili amplia la comprensione di tutto ciò che è umano e crea possibilità di varietà e di gioco a qualsiasi rapporto ,non solo a quelli sessuali.

Ma è soprattutto il poter immaginare che dà apertura alle possibilità. Fa anche molta paura, perché ci toglie la certezza rigida del nostro sentire per abitudine, per controllo, per possesso.

La prostituzione mi pare rappresentare il massimo della non immaginazione, della controllabilità illusoria, lì resa agita, del sopruso di uno sull'altro mascherato da seduzione. Quando la seduzione copre qualcosa di mortifero, la mancanza di legame umano, di rispetto della vitalità , non può non rivelare l'aspetto dissintono, degradato che la distruttività sempre comporta diventando volgarità.

Capisco, pian piano, l'associazione fatta con l'episodio narrato da Nabokov. Anche i nostri figli, come al Jardin des plantes, più che nelle strade, davanti alla TV che mi ha richiamato le blandizie dello scienziato, fanno come la scimmiotta.

Imparano a disegnare la loro prigione mentale, assorbendo i modelli di relazione tra i sessi, ma anche quello delle relazioni tra le persone, i modelli del legame con l'alterità, che fungeranno da binario guida del futuro adulto. Una prigione mentale che si basa sul dare per oggettivo il fatto che tra uomo e donna esista solo ed eternamente un rapporto di potere, attivo - passivo, forte - debole,violentatore - violentata, cliente - prostituta.

Che sia espressa nei termini berlusconiani, questa violenza, o nei termini del bonario S. Anselmo d'Aosta che definiva la donna "un immondo ricettacolo", questa violenza non pare aver cambiato il connotato di fondo. Georges Bataille intravede nella prostituzione una trasgressione che l'avvicina al sacro, ma arriva anche a dire che "la prostituzione è la conseguenza dell'atteggiamento femminile..Le attenzioni che una donna dedica al proprio abbigliamento, alla cura della propria persona dimostra che essa si considera un oggetto incessantemente proposto ai desideri degli uomini.." ( G. Bataille "L erotismo" Edizioni SE, Milano 1986, pag 126) .

Sembra che manchi - forse è questa mancanza la radice della violenza - la speranza di poter inserire qualcosa di vivo - un " bambino" vivo, non fatto a pezzi per esser posseduto metà per uno - nelle relazioni uomo donna così concepite. Nei secoli, la violenza e l'accanimento che il maschio ha portato avanti contro la donna, mascherato romanticamente sotto forma di protezione affettata o volgarmente sotto forma di disprezzo e assenza di spazio di dignità, sembrano rivelare una paura enorme della diversità, della frustrazione, dell'impotenza.

Tirar su i figli non significa certo proteggerli dallo spettacolo del degrado di noi adulti. Forse ha più a che fare col permetter loro, maschi o femmine che siano, di tollerare i dubbi, i fallimenti, la frustrazione e la nostalgia. Cercare di non sedurli e blandirli fino a fargli perdere le loro caratteristiche proprie, la loro "scimmietà", fino a far loro disegnare sbarre di prigione.

Vorrei chiudere con una poesia d'amore, con tutta la sensualità del desiderio e della bramosia amorosa dell'innamoramento, ma molto diversa, mi pare, dall'ottica delle case chiuse o dei perizomi. Una poesia d'altri tempi, di Saffo:

Gioia di amore
Beato è, come un dio,
chi davanti ti siede e ti ode,
e tu dici dolci parole e
dolcemente sorridi.
Subito mi sobbalza, appena
ti guardo,dentro nel petto il cuore,
e voce più non mi viene,
e mi si spezza
la lingua, e una fiamma sottile
mi corre sotto la pelle,
con gli occhi più niente vedo,
romba mi fanno
gli orecchi, sudore mi bagna,
e tremore tutta mi prende,
e più verde dell'erba divento,
e quasi mi sento,
o Agallide, vicina a morire.


(Da Manara Valgimigli Saffo e altri lirici greci ed. Il Pellicano, Vicenza, 1942 )

Forse, se passasse tra noi adulti e i nostri figli, questa dimestichezza con le emozioni, con gli affetti, con la capacità di tollerare la dipendenza e il bisogno, la frustrazione e la necessità… con la capacità di eros che è gioco, differenza e anche regola, ma mai degradazione e controllo mortifero sulle emozioni… beh, forse le case chiuse ci sembrerebbero un'altra cosa.

Il vecchio saggio

La notizia
L'albero genealogico cresce su Internet. Francesca Paci sottolinea il grande interesse registrato in ambito Internet per il recupero dell'albero genealogico della propria famiglia. La ricerca on line degli antenati pare essere ultimamente in aumento ed è supportata da home pages attraverso cui si può accedere a veri e propri database, cataloghi di cognomi, manuali di genealogia e bacheca-sito dei ritratti di famiglia.
La Stampa, venerdì 4 gennaio 2002

Il commento
L'articolo occhieggia, con un certo ammiccamento, dopo pagine che brindano al successo dell'euro, ma alludono contemporaneamente alle difficoltà dell'accettazione della nuova moneta, dopo resoconti di politica interna e dopo stanche considerazioni su un ancora più stanco popolo afghano.

Se mi abbandono al flusso della lettura e sfoglio le pagine del quotidiano come se mi si presentasse una catena associativa, la successione dettata dall'esigenza giornalistica mi pare assumere un senso proprio.

Il popolo dell'euro - che ha assistito impotente ai tragici eventi degli ultimi quattro mesi - sta per essere unificato dalla moneta che economisti e politici si sono preoccupati di legittimare anche attraverso considerazioni di pertinenza psicologica: l'uso di una stessa moneta finirà per avvicinare e accomunare genti diverse che forse scopriranno di poter avere diritto a più riferimenti comuni.

Questi uomini, a cui si prospetta un grandioso processo di unificazione, un sentire da fratelli, sembrano rilanciare piuttosto la necessità di trovare radici e un'identità propria.

Quali sono le radici? Dove sono? Rassicuranti le risposte a portata di mouse: gli antenati ci sono, si tratta solo di ricomporre il puzzle, di ritrovarli.

La società dell'informazione e dell'immagine sembra coniugare l'evidenza del libero scambio con l'esigenza di riconsiderare relazioni non intercambiabili.

In un momento storico in cui sempre più si parla di globalizzazione e massificazione, non riesce difficile concordare con il fatto che all'individuo vengono sempre più sottratte le decisioni morali e la possibilità di scegliere la condotta della sua vita, per cui si viene amministrati, nutriti, vestiti, educati, alloggiati e divertiti (per usare un'espressione di Jung in Presente e futuro, 1957) con un metro ideale fornito dalla soddisfazione della massa.

Preso dal sentimento della sua poca rilevanza, il singolo si allontana dal senso della sua vita, che non si esaurisce nel concetto del pubblico benessere. L'uomo come essere sociale ha bisogno del legame, ma può resistere nella sua individualità se è organizzato quale essere psichico; egli, grazie alla sua attività cosciente riflessiva e alla sua natura ereditaria e archetipica, ha in sé una corrispondenza con il grande mondo.

Sappiamo che l'esercizio dell'attività cosciente riflessiva comporta un notevole investimento contro cui lavorano, più o meno volutamente, l'omologazione e l'immobilismo ideativo di cui si è ammalata la nostra società. Come sempre, quando si verifica una rimozione, l'altra strada che si impone è quella del ritorno dei bisogni accantonati in forme che esercitano un fascino particolare.

L'uomo è in possesso di eredità dei suoi antenati; quando nasce è inconsapevole, ma porta con sé sistemi organizzati, pronti a funzionare, che sono il risultato di milioni di anni di evoluzione umana. L'uomo racchiude in sé la trama fondamentale del suo essere, non solo della sua natura individuale, ma anche di quella collettiva. Lacan (La topologie et le temps) indica con l'immagine della treccia borromea la traccia di un "anteriore" già presente nell'individuo, che prima ancora di nascere è fortemente determinato dal lignaggio, dalla casata, dalla stirpe (attraverso la metafora del nome del padre). Le storie cliniche dei nostri pazienti si portano appresso sovente tracce-trecce familiari da cui l'intervento terapeutico non può prescindere.

Al bisogno di radici da parte di un Io più vulnerabile, sollecitato dall'instabilità del presente momento storico, dall'opportunità di adattarsi in tempi brevi a nuovi scenari, risponde la componente inconscia che guida l'individuo alla ricerca di un riferimento comune allargato, appartenente al passato, che assume - nello specifico sottolineato dall'articolo - la forma dell'antenato. L'esigenza di appartenenza, al di là dei legami spesso sfilacciati e problematici dell'odierno tessuto familiare, e della generica rappresentazione di una fratellanza universale in quanto umana, viene rappresentata e agita dalla riscoperta dell'albero genealogico.

Mi sovviene, a tale proposito, la figura archetipica del vecchio saggio (Jung, Gli archetipi e l'inconscio collettivo, 1946), che simboleggia il fattore "spirito". Nelle fiabe il vecchio saggio appare quando l'eroe è in forte difficoltà e può essere aiutato solo da una profonda riflessione o da una felice intuizione. Il vecchio che porta aiuto e consiglio, che interroga sul chi, sul perché con un invito alla riflessione, rappresenta dunque sapere, saggezza, prudenza, intuizione, ma anche qualità morali come benevolenza e sollecitudine.

Forse l'uomo di oggi (in particolare l'uomo appartenente ad una fascia d'età medio-giovane, quale potrebbe essere l'utente tipo del mezzo informatico), oltre ad incontrare nelle chat-line sconosciuti interlocutori, cerca anche la storicizzazione dell'antenato-vecchio saggio, che come presenza silenziosa ma non poco influente, gli dia il senso certo dell'appartenenza a qualche realtà già data.

Il legame arcaico dei segnali visivi

La notizia
Denti bianchi: quanto costa avere un bel sorriso? E' la nuova ossessione di politici, star e imprenditori. Avere un'arcata dentaria a prova di primo piano. Perché il successo comincia dagli incisivi.
Panorama, 20 dicembre 2001

Il commento
Mi ha colpito la foto da pubblicità dentifricia di Julia Roberts (i buoni sentimenti americani) a tutti denti sulla copertina di Panorama. Quasi che il mondo dell'immagine in questo clima di guerra e intolleranza, pur usando una donna, avesse pudore a schiaffare il solito nudo in prima pagina.

Certo il primo piano per conquistare folle e sedurre menti pigre, col sorriso, è uno strumento di una efficacia intuitivamente sempre saputa.

Infatti gli enormi manifesti da grande fratello (a proposito, chi l'ha letto davvero sa che non è solo una trasmissione televisiva, ma una immagine incombente nel libro fantascientifico di Orwell "1984" che tratteggiava un futuro in cui il continuo rimaneggiamento della storia e lo slogan "L'ignoranza è forza" tenevano in schiavitù psicologica l'intera inconsapevole popolazione) sono stati ampiamente usati nella politica, specie se totalitaria.

Pertanto reggere, a livello estetico, il primo piano è un imperativo categorico per chi ha una carriera pubblica e ogni sacrificio vale la pena, dato che una bella bocca diventa uno status symbol, anche per il costo cospicuo delle cure dentarie a scopo estetico.

Del resto c'è chi con la propria immagine ci lavora, in senso stretto, la gente di spettacolo, e veicola con essa le proprie capacità espressive e comunicative, ma oggi sembra che nessun personaggio di potere sia economico che politico, possa prescindere dalla comunicazione visiva per l'efficacia dei propri messaggi.

Si attivano quindi psicologi esperti di comunicazione, di gestualità, per dirci quando il messaggio verbale si perde o si fissa subliminalmente, a seconda dell'impatto visivo sul destinatario.

Questo accade grazie al legame di significato emotivo-affettivo che si instaura e che è relativo ad arcaici inprinting preverbali.

Il viso in generale ed il sorriso in particolare, costituiscono il primo legame di riconoscimento e di appartenenza, tra madre e bambino, della nostra specie. Al contrario, per esempio, dei gattini che sono ciechi alla nascita e poppano senza guardare in viso la madre, anche per collocazione delle mammelle.

Per cui lo sguardo e il sorriso sono per ciascuno di noi legati all'accudimento materno, al caldo abbraccio che conforta, alla sazietà che calma, al piacere di essere unico per l'altro.

Tutti questi significati, che sono presenti nei primi momenti della nostra vita, si ritrovano nell'incanto dell'innamoramento e del piacere erotico.

Perciò, senza che ce ne accorgiamo, il viso che ci guarda dallo schermo ci comunica la nostra unicità, l'appartenenza, l'importanza che abbiamo per l'altro. E' anche comprensibile che la fatica dell'intelligenza che ci costringe a sentirci uno dei tanti, a cui è rivolto un messaggio strumentale, rispetto a finalità a noi spesso sconosciute, è estremamente deludente.

All'aspetto fisico si è sempre data attenzione, ma più spesso con l'abbigliamento, per valorizzare le caratteristiche e nascondere i difetti, non si metteva in discussione la morfologia spontanea del corpo. Ora si va a toccare e controllare anche questa, soprattutto per cambiare i segni lasciati dal tempo. Attraverso la chirurgia estetica in particolare si cerca di modificare il viso.

Quindi forse c'è qualcosa di più che non il solo valore estetico?

Il viso specchio dell'anima che porta i segni dei nostri stati d'animo presenti e passati, oggi vogliamo che divenga schermo, per potervi proiettare la nostra volontà di potere sull'altro e più potere abbiamo più sono importanti i segnali anche fisici di questo potere.

L'animale uomo è l'unico, insieme alle scimmie, che sorride fin da neonato. E il sorriso è un potentissimo stimolo al legame.

Tuttavia proprio perché il sorriso inizia prima della dentizione, la sua funzione prescinde dall'esibizione dell'intera dentatura in tutta la sua lucentezza.

Una bella e forte dentatura è una difficile conquista, per le vicissitudini dello svezzamento, con le sue sofferenze e della prima dentizione con tutte le sue microperdite. Quindi una bella dentatura che segnala salute, giovinezza, prestanza fisica, sicurezza delle proprie armi, sembra il risultato di chi ha affrontato con coraggio tutte le prove di iniziazione nella giungla della vita.

Noi tapini dalla dentature così e così, dalle lunghe torture con gli apparecchi ai denti, come minimo, se non con le cure dentistiche di cui conosciamo il dolore e l'umiliazione, come possiamo resistere ad un caldo sorriso a denti smaglianti (luccicano come specchietti per allodole).

E come ricordare allora il simbolismo legato ai denti, al mostrare i denti come segno di forza e di sfida. Oppure come ricordare che a cavalli e schiavi si guardavano i denti per deciderne i prezzo.

Come distinguere un sorriso costruito da uno sincero? Paradossalmente è piuttosto semplice. Jiulia Roberts o Berlusconi possono incantare con il loro bel sorriso, ma noi che relazione abbiamo con loro? Ciò che ci può catturare è l'intimità e la vicinanza di una relazione che non esiste. Perciò solo in relazioni autentiche, concrete e vissute possiamo non essere ingannati da un sorriso, che i denti siano belli o brutti.

Il nostro compito difficile è permetterci di apprezzare esteticamente, senza lasciarci sedurre ad accogliere significati non filtrati dalla nostra, sempre meno usata, intelligenza.

L'Euro e l'età infantile della pietra

La notizia
Rudolf Hickel professore di scienze economiche all'Università di Brema intervistato a proposito dell'ansia che attanaglia i tedeschi per il passaggio all'euro risponde dicendo che la scadenza del primo gennaio 2002 in realtà ha un valore relativo sul piano economico, perché l'euro è già stato di fatto introdotto nel 1999. La novità sta solo nel fatto che cambiano le monete e le banconote nel portafoglio. Il problema è che il denaro ha molti significati.
Il Manifesto, 27 dicembre 2001

Il commento
In questi giorni che precedono l'introduzione della circolazione materiale dell'euro si sono formate agli sportelli postali e nelle banche lunghe code di cittadini che hanno atteso, in alcuni casi per ore, di poter acquistare il minikit contenente le nuove monete euro. Alcuni istituti di credito hanno dato ai propri operatori di sportello l'indicazione di consegnare un solo minikit ad ogni intestatario di conto corrente e questo ha provocato in alcune occasioni accese discussioni tra i cassieri e quei clienti che pretendevano di venire in possesso di più pacchetti.

Tutta questa fretta e bisogno di accaparrarsi le agognate monetine possono risultare poco comprensibile dato che dal primo gennaio i nostri portafogli saranno invasi da un'enorme quantità di spiccioli e che per almeno altri due mesi potremo ancora utilizzare, parallelamente alla nuova moneta, le lire. Il problema è che il denaro ha molti significati, come correttamente è rilevato dal professore intervistato, a tale proposito è interessante quanto è proposto da Sandor Ferenczi nel suo articolo del 1914 intitolato "Sull'ontogenesi dell'interesse per il denaro". In questo scritto l'autore esamina in quale misura l'esperienza individuale favorisce la trasformazione dell'interesse erotico-anale in interesse per il denaro. Partendo dalla scoperta di Freud dell'esistenza di uno strettissimo rapporto tra il denaro e lo sterco, l'osservazione del comportamento infantile ci mostra come il bambino originariamente rivolga il proprio interesse verso il processo di defecazione provando diletto nel trattenere le feci. I materiali fecali trattenuti, veri e propri "primi risparmi" rimangono in correlazione inconscia con tutte quelle attività che abbiano alla loro base il raccogliere, il collezionare. Successivamente l'interesse del bambino, allorché l'odore delle feci gli diviene repellente, si sposta su altro materiale non maleodorante come per esempio il fango, nel momento che il senso di pulizia aumenta qualsiasi materiale umido e viscoso viene sostituito dalla sabbia che pur mantenendo lo stesso colore è asciutta e pulita. Durante la crescita anche la sabbia diventa inaccettabile e inizia così quella che Ferenczi definisce "l'età infantile della pietra", durante la quale il bambino raccoglie pietrine d'ogni colore e forma. Dopo le pietre i manufatti diventano oggetto della mania collezionistica infantile e a questo punto il passo per l'interesse a maneggiare monete e monetine è ormai avvenuto. Originariamente ciò che colpisce il bambino non è il valore puramente economico, ma il piacere di guardare, manipolare i dischetti metallici. In questo modo lo sviluppo del simbolo del denaro è compiuto. Il piacere che prima dava il contenuto intestinale, ora diviene piacere per il denaro che non è altro che "sterco inodore, disidratato e luccicante".

A conferma di quanto rilevato da Ferenczi è interessante a mio avviso costatare come altre forme di pagamento come i nuovi carnet d'assegni in euro e le carte bancomat, mezzo quest'ultimo che evita eventuali errori di conversione, non sono stati oggetto in questi giorni d'altrettanta attenzione e ansiosa richiesta come le nuove monetine. Un altro fenomeno che sta avvenendo in questi ultimissimi giorni prima del fatidico passaggio è l'aumento esponenziale, alcuni dati degli istituti di credito indicano più del doppio rispetto allo stesso periodo negli anni precedenti, di prelievi di contante (lire) presso gli sportelli bancari e bancomat, proprio nel momento in cui sarebbe consigliabile, apparentemente, ridurli data la necessità prossima di restituire le lire per convertirle in euro. Questo paradossale comportamento potrebbe essere messo in relazione al timore che molte persone provano nel gestire un cambiamento, una novità, paura che può portare a negare in senso difensivo quegli aspetti della realtà che vengono vissuti inaccettabili e pericolosi.

L'euro, moneta con radici culturali e storiche ancora poco evidenti, diventa così una sorta di oggetto alieno che arriva a sostituire ciò che invece viene vissuto, da alcuni discorsi colti per la strada in modo nostalgico e romantico, come qualcosa di familiare e rassicurante. Tutto questo avviene in un momento storico dove la possibilità individuale di gestire il proprio pensiero, compresi gli aspetti pratici della vita, viene costantemente delegato alla tecnologia, come per esempio l'utilizzo del computer anche per risolvere le piccole incombenze domestiche, o all'altro allo specialista, cioè a colui che ci può evitare di sforzarci ad affrontare i piccoli e grandi ostacoli della vita.

Purtroppo ciò non permette all'individuo di allenarsi, di abituarsi ad avvicinare con fiducia e quindi di gestire i cambiamenti e le novità, rischiando così di perdere quell'opportunità, che l'uomo ha fin dalla sua infanzia, di esplorare e sperimentare per prove di errore il mondo circostante non ancora conosciuto.

Morire in nome di Allah

La notizia
Corsa all'arruolamento per morire in nome di Allah, dove vengono tratteggiate le caratteristiche dei kamikaze palestinesi, responsabili degli ultimi attentati terroristici nel cuore di Gerusalemme.
La Repubblica, 4 dicembre 2001

Il commento
Le recenti notizie provenienti da Gerusalemme sembrano appesantire ulteriormente i mesi e i giorni che stiamo vivendo. Ancora morti, ancora rappresaglie, in una spirale di violenza apparentemente inarrestabile, senza fine e senza speranza. Possibile che siano questi i "frutti dei tempi?" Eppure eravamo convinti che tutto quello che sta accadendo - la violenza agita, l'uccisione di massa, la guerra - fosse fenomeno del passato, consegnato definitivamente ad una nostra primitività rozza e poco evoluta. Nei roghi del secondo conflitto mondiale, nell'olocausto, nelle ore pietrificate di Hiroschima, pensavamo si fossero consumate una volta per tutte la follia e la furia cieca dei popoli. Nel nostro universo pacificato, nelle nostre città piene di luci e di alberi verdi, l'unica attesa sembra dedicata ad interni domestici ovattati che si rimbalzano sulle immagini delle rivista di cucina o di arredamento: caminetti accesi, fiori, tavole imbandite per la celebrazione e la conferma rassicurata di una intimità protettiva, spesso fastosa.

Invece, muovendoci veloci tra le vetrine scintillanti, investiti e trasfigurati da colori soffusi che vanno dal rosso all'oro, con inquietudine sottile, non sappiamo decidere se la manica del cappotto si è sporcata perché ha scontrato contro l'albero inghirlandato del grande magazzino, oppure se un poco di polvere sollevata dalla bombe è arrivata sino a noi.

Le immagini che ci trasmette la televisione risultano sorprendenti: paesaggi fatti di pietra e di sabbia, uomini feriti, mutilati, con in mano cannoni e fucili. Una bomba ogni due minuti su Kandahar. L'esodo di un popolo, i campi profughi, una disperazione insensata. Non può essere, quello, anche il nostro mondo; forse siamo una colonia definitivamente staccata dalla madre patria, partita secoli prima per popolare un altro pianeta, oppure siamo esposti ad un messaggio virtuale tra gli altri, una rappresentazione scenica semplicemente più lunga e ripetitiva del solito. Ma l'apparente incredulità cela, forse, il disagio che tutto questo ci riguardi direttamente, uno per uno, casa per casa. E' l'angoscia per un disastro collettivo imminente che ricaccerà il nostro pianeta, come nei consueti film di fantascienza, sino alla miseria delle origini, nella consumazione di tutte le conquiste della nostra civiltà. Oggi forse non siamo diversi, dai romani che, sul finire dell'impero, sentivano altri popoli premere ai confini dello stato.

Il nostro sogno di pacificazione infinita si è incrinato soltanto pochi mesi fa quando kamikaze alla guida di alcuni aerei si sono schiantati su New York, sul pentagono, sull'America. Le tribù ai confini del mondo a noi conosciuto, le tribù parificate tutte nella categoria di "popoli in via di sviluppo" escono dall'indifferenziazione con messaggi di morte.

Kamikaze, parola pesante e terribile. Così recita il Corano:
"Il martire è il prediletto da Dio. Non dovrà attendere il giorno del giudizio per entrare in Paradiso, vi accede nell'attimo stesso in cui abbandona questa vita terrena. Il martire non dovrà rendere conto dei suoi peccati [...] Non considerate coloro che muoiono per la causa di Dio dei morti, coloro che combattono per la causa di Dio ottengono la vita eterna in cambio di quella terrena".

L'età dei kamikaze è compresa tra i 18 - 23 (64%) e i 24 - 30 anni (34%); la maggioranza di essi è in possesso di un diploma di laurea o di scuola media superiore. Non sono una sparuta minoranza di emarginati, ma il loro numero risulta sempre in aumento, al punto che gli organizzatori delle operazioni belliche hanno difficoltà a farli attendere per l'occasione opportuna. "Abbiamo martiri per i prossimi vent'anni" afferma Khaled Meshaal, dirigente dell'ufficio politico di Hamas. E' difficile accettare il pensiero che un giovane di diciotto anni si prepari a morire il più presto possibile come suo unico e significativo progetto di esistenza, si appresti a trasformare se stesso in arma mortale per altri.

Il ricordo immediato è quello del nostro Medioevo, dell'integralismo religioso e dei suoi eccessi, dei roghi della santa inquisizione. Anche in questo caso, tutto sembrava superato e sepolto in un passato, certo terribile, ma definitivamente compiuto. Ci si ripropone, invece, con forza di assolutismo, il credo di una vita vera, quella dopo la morte, rispetto a cui l'esistenza terrena, la sola di cui ora facciamo esperienza, è mero accidente, superficie, assenza di autonomo valore. Tutto è materia contingente, pallido epifenomeno del vero essere e la morte è; l'atteso superamento della distanza che ci separa dall'autentico bene. Una prospettiva che può trasformarsi nel tentativo di eludere il peso della nostra finitudine e il mai risolto dubbio che l'ultima parola, per quanto ci riguarda, spetti, alla distruzione, alla negatività, alla dissoluzione di tutti i nostri significati affettivi.

Così dice Fernando Pessoa ne "Il libro dell'inquietudine":
"Penso in continuazione, sento in continuazione; ma il mio pensiero è privo di raziocinio, la mia emozione è priva di emozione! Da una botola situata lassù, sto precipitando per lo spazio infinito, in una caduta senza direzione, infinitupla e vuota. La mia anima è un mäelstrom nero, una vasta vertigine intorno al vuoto, un movimento di un oceano senza confini intorno ad un buco nel nulla, e nelle acque, che più che acque sono turbini, galleggiano le immagini di ciò che ho visto e sentito nel mondo: vorticano case, volti, libri, casse, echi di musiche e spezzoni di voci in un turbine sinistro e senza fondo.
E io, proprio io, sono il centro che esiste soltanto per una geometria dell'abisso; sono il nulla attorno a cui questo movimento gira, come fine a se stesso, con quel centro che esiste solo perché ogni cerchio deve possedere un centro. Io, proprio io, sono il pozzo senza pareti, ma con la resistenza delle pareti, il centro del tutto con il nulla intorno.
E in me è come se l'inferno ridesse, senza neppure l'umanità di diavoli che ridono, la follia starnazzante dell'universo morto, il cadavere girante dello spazio fisico, la fine di tutti i mondi che fluttua oscuramente al vento, disforme, fuori del tempo, senza un Dio che l'abbia creata, senza neppure se stessa che gira intorno nelle tenebre delle tenebre."


Certamente, può essere forte la tentazione di credere di stare semplicemente scivolando sulle vita, guardata con malcelato disprezzo proprio per le sue mancanze e la sua incompiutezza. Sentire solamente trascorrere sulle ore, luminosi e sicuri, indifferenti alle parole degli uomini, circonfusi da una verità divina, la sola che ci riguarda personalmente e per la quale non dobbiamo ringraziare nessuno. Scoprire che il nostro significato, ciò per cui vale la pena di vivere, non è affidato alle relazioni con gli altri, ma alla parola rivelata di un Dio e al modo in cui sapremo rispondere ad essa, alla disponibilità di cui saremo capaci. La nostra realtà fatta di limiti e di incertezze, la nostra storia di miseria e dolore, può essere rifondata dalla forza di un credere perfetto che accoglie in sé l'estremo sacrificio, può venire trasfigurata come nessun rapporto umano, nemmeno il più intimo e profondo, potrà mai fare per noi.

L'assoluta bellezza e compiutezza del sacrificio estremo, cancella e purifica anche ogni gesto della vita. Non è più necessario lasciare spazio al pensiero che ricorda le nostre azioni e che, in alcuni casi, le può scoprire sbagliate, ingiuste, addirittura crudeli. Possiamo liberarci una volta per tutte del pungolo dolorosissimo che ci spinge a cercare una possibile riparazione, nel crollo dell'immagine di una personale ed autonoma perfezione, né sopportare il peso soffocante di un irrevocabile "troppo tardi", il peso a volte straziante di non potere fare più nulla. Un unico gesto sublime cancella la sofferenza della coscienza, un atto senza rapporto con nessuno ripristina un'innocenza assoluta.

Ma, in fondo, non è proprio questo il sogno che cerca di costruire anche la nostra civiltà?

Il modello occidentale con cui ogni giorno ci confrontiamo è quello di un essere imprescindibilmente giovane, eternamente single, lontano e non legato a rapporti considerati fragili e deludenti, brillante ed affermato in una professione totalizzante, mai perdente e che non muore mai.

Chi muore, generalmente è confinato e nascosto, allontanato dalla vita quotidiana, nel timore di una terribile e corrosiva contaminazione. Di morte non si parla mai e l'obbligo, per tutti, è quello di nascondere i segni di un declino fisico vissuto come vergognosa mancanza di adeguatezza sociale, foriero di emarginazione. Cure estetiche sempre più raffinate, interventi chirurgici, soggiorni in cliniche specializzate, il ricorso massiccio alle tecniche della fecondazione artificiale sono al servizio, per certi versi, della negazione del limite e della caducità delle cose terrene, compresi noi stessi.

Al pari dei kamikaze, desidereremmo liberarci per sempre del peso di dovere costruire passo per passo i nostri progetti, accompagnati dall'amarezza delle frustrazioni e dei fallimenti. Soprattutto desidereremmo essere sollevati dalla fatica di amare, all'interno di rapporti che ci rendono spesso insoddisfatti per la mancata perfezione dell'altro, che ci aprono alla sofferenza per la possibile perdita di un bene e di un affetto che non sono sotto il nostro esclusivo controllo.

Attraverso il supporto delle scoperte scientifiche e tecnologiche, non cerchiamo semplicemente di prolungare la vita, ma un particolare periodo di essa, quello in cui si può ancora profondamente credere che si esisterà per sempre, in una perennità di affermazione autarchica di se stessi.

Proprio il periodo di vita nel quale i kamikaze decidono di uccidersi uccidendo. La forza della giovinezza dall'una e dall'altra parte, al servizio di un tristemente simile sogno di potenza.

Un sogno che inizia anche dalla nostra incapacità di dialogo con la diversità e con ciò che, in quanto diverso, è avvertito come fragile e dolorante. L'impulso che ci spinge a nascondere con vergogna la vecchiaia, la malattia, la solitudine e la morte è lo stesso, forse, che ci impedisce di conoscere e di comprendere le tribù in via di sviluppo che ci circondano.

Nel passato erano il buon selvaggio a cui portare il messaggio della salvezza e della verità; missioni e chiese di cemento in universi di terra e di fango, accoglievano e vestivano con divise d'ordinanza una moltitudine di bambini senza identità, da plasmare, a cui annunciare la buona novella. La violenza non è cambiata nel corso del tempo, quando alle missioni si sono semplicemente aggiunte le multinazionali o i villaggi turistici per i nostri sogni esotici. Un imperialismo arrogante si è cercato "riserve umane" indifferenziate, da utilizzare per l'industria, per il collaudo delle proprie armi, per il personale piacere. Tanto tutto accade in luoghi troppo lontani e forte è il senso collettivo di impotenza.

Ma l'inquietudine ci lascia sempre meno, è terribile pensare di costruire il proprio sogno di immortalità sulla miseria e sulla morte di interi popoli. Come terribile è sospettare che forse, per la nostra parte di responsabilità, a quei popoli non abbiamo lasciato altro spazio se non quello dei kamikaze, altro messaggio possibile da mandare.