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Clonazione umana: il primo passo

La notizia
I ricercatori: l'embrione servirà solo a curare le malattie!
La Repubblica, 26 novembre 2001

Il commento
La notizia della nascita di un "clone zero" ha suscitato nell'umanità angosce, perplessità e contemporaneamente speranze. Quando il Dottor West biologo e imprenditore dell'ACT ha fatto il suo annuncio pubblico, ha cercato di minimizzare "Biologicamente e scientificamente - dice - l'entità che abbiamo creato non è un individuo, non è una vita umana, è soltanto una vita cellulare".

Consapevolmente o inconsapevolmente il dr: West usa il verbo creare. Quel " clone zero" è stato "creato", quindi qualcosa di impossibile sino a questo momento si è compiuto.

L'essere umano da sempre ha cercato di travalicare gli stretti limiti della sua condizione, "Fatti non foste a viver come bruti ma ad acquisir virtute e conoscenza" urlava Ulisse mentre tutti gli déi scatenavano tempeste per ostacolare il suo cammino verso la conoscenza e la verità. L'uomo, eroe dilaniato, cerca di andare oltre le colonne d'Ercole e sa che aldilà troverà tesori, ma anche mondi sconosciuti tutti da decodificare; è però impossibile rimanere oltre le colonne, il mondo conosciuto è sempre troppo piccolo. In fondo la clonazione non solo risponde ad un bisogno di conoscenza, ma può essere un dono a tutta l'umanità; rappresenta, per esempio, una speranza per tutte quelle persone che hanno sviluppato una malattia di tipo degenerativo.

La scoperta potrebbe nascere però anche dal desiderio di modificare la realtà, di renderla più vicino possibile ai desideri ed hai bisogni di noi esseri umani, tristemente umiliati dalla malattia, dalla morte e dalla sofferenza.

Questa scoperta potrebbe essere mossa da un bisogno di riparare e di curare il mondo, difenderlo in qualche modo dalle istanze distruttive che stanno dentro ognuno di noi e di andare sempre un pochino di più verso la conoscenza. Ma che cosa accadrebbe se la clonazione non si fermasse ai tessuti e agli organi ma proseguisse nella clonazione di esseri viventi completi? Allora questa scoperta da dono all'umanità si trasformerebbe in una sorta di tendenza ad erodere i confini del possibile, a rendere possibile l'impossibile. Si creerebbe in tal senso un mondo immaginario, un rifugio per la mente da dove è possibile negare l'esistenza del tempo e crearsi un mondo che inverte le leggi della vita.

Concepire un figlio significa dargli la vita ma anche la morte, dandogli un tempo gli regaliamo anche la sua storia simile a quella di altri esseri umani, ma comunque diversa, e con la sua storia gli doniamo anche la sua identità.

Nell'interiorità del padre-scienziato, e forse nell'umanità tutta albergano stati d'animo contrastanti da una parte una dolorosa tensione verso la conoscenza, un conflittuale bisogno di sfidare gli déi; dall'altra un bisogno di annullare il tempo clonando all'infinito esseri tutti uguali, non per essere simile alla divinità ma per essere la "Divinità".

Un tentativo, quindi, di sostituirsi al padre creatore con lo scopo di ricreare dal caos e dalla mescolanza un nuovo universo, nel quale tutto diventa possibile. Avendo abolito tutte le differenze, scompaiono le sensazioni di essere indifeso, piccolo, inadeguato, così come l'assenza, la castrazione, la morte e lo stesso dolore psichico.

Lucifero è il modello del personaggio demiurgico che cerca di detronizzare il Padre-creatore. Ben diverso da Ulisse, Ulisse sfida il padre cerca di sapere di conoscere sfidando le ire paterne, Lucifero, invece, cerca di detronizzare il padre, di prenderne il suo posto.

Un breve dramma teatrale di Albert Camus, narra di Caligola imperatore romano:
Caligola: Ma io non sono matto. Anzi, non sono mai stato così lucido. Ho provato semplicemente un'improvvisa sete di impossibile. Le cose così come sono, non mi sembrano di tutto riposo. […] Perciò ho bisogno delle luna, o della felicità, o dell'immortalità: di qualche cosa, poniamo, di pazzesco, purché non sia di questo mondo. […] L'impossibile: proprio di questo si tratta. O meglio, si tratta di rendere possibile ciò che non lo è. […] A che mi giova la mano ferma, a che mi serve questo stupendo potere se non posso far tramontare il sole a levante e diminuire il dolore; far che non muoiano i vivi?

Cesonia (la sua amante): Ma è voler uguagliare gli déi, questo. Non conosco una peggior pazzia.[…]

Caligola: Voglio mischiare il cielo con il mare; confondere la bruttezza e la bellezza; far zampillare il riso della pena.

Cesonia: C'è il buono e il cattivo, il grande e il meschino, il giusto e l'ingiusto: è una legge che nessuno cambierà mai.

Caligola: Io la cambierò! Farò a questo secolo il dono dell'equivalenza. E quando tutto sarà purificato, e l'impossibile sulla terra, e la luna nelle mie mani, allora, forse, anch'io sarò trasformato, e il mondo con me e gli uomini non moriranno e saranno felici

Con questo pezzo ho voluto illustrare il modo di funzionare della mente, che invece di andare verso la verità pone le sue ricerche al servizio del principio del piacere sovvertendo l'ordine, per creare un nuovo mondo dove non vi sarà più dolore. La clonazione inquieta, perché può dare all'uomo il potere di Dio creatore, dipende comunque da lui l'utilizzo di questa scoperta, se l'essere umano riuscirà costantemente a tener vivo dentro di sé il conflitto, se non dimenticherà la nostra pochezza di essere umani, forse egli potrà mettere questa scoperta non a servizio del principio del piacere ma a servizio dell'umanità.

Ciò che forse non dobbiamo dimenticare è che la sofferenza, il dolore, la morte e la separazione sono sentimenti ed esperienze insiti nell'animo umano, non possono essere cancellati. L'uomo può riparare, ma non inventarsi un nuovo mondo senza separazioni e senza dolore.

Alla ricerca della verità

La notizia
Uccisa in un agguato l'inviata del Corriere della Sera
La Repubblica, martedì 20 novembre 2001

Il commento
Per tutta la settimana si sono susseguiti sui giornali titoli che riportavano la notizia della morte di tre giornalisti, fra cui un'italiana, uccisi in un agguato in Afghanistan. Molti i commenti dei mass-media, molta la partecipazione emotiva e le lettere di sgomento e cordoglio pervenute alle redazioni dei giornali. Un giornalista, alla radio, si chiedeva se saremmo stati ugualmente scossi se si fosse trattato della morte di persone che svolgevano un tipo di lavoro completamente diverso (un ingegnere che costruiva una diga, un operaio caduto da un impalcatura…). Anch'io mi sono ritrovata dolorosamente turbata. Che cosa colpisce di questo avvenimento?

Certo colpisce che si tratti di una donna; di una donna andata in un paese dalla cultura così diversa da quella occidentale. Per il potere degli stereotipi ci appare insolito che sia una donna ad essere inviata di guerra, ad essere disposta a rischiare la propria vita, in nome di una funzione conoscitiva di solito prettamente maschile: sarebbe più normale pensarla in redazione ad attendere ed accogliere notizie raccolte da altri. Colpisce questa donna alla ricerca della verità su un conflitto e su un popolo che ci porta vertiginosamente indietro, come un'improbabile macchina del tempo, e che ci mostra stratificazioni di vestigia di un tempo fatto solo di guerre e di miseria che imprigiona e anestetizza intrecciandosi intreccia con l'indifferenza colpevole dell'occidente. Alla ricerca della verità su una misoginia inaccettabile, che in una donna può risvegliare millenni di rifiuti paterni… Alla ricerca della verità sui conflitti economici che si celano dietro a tutta questa miseria…

C'è dunque l'ammirazione (che poi però finisce di delegare ad altri) nei confronti di coloro che sono disposti a porsi domande, a mantenere viva la curiosità conoscitiva, a saper attingere, ormai adulti, a quella capacità, propria dell'infanzia, di porsi di fronte alla realtà in modo curioso, creativo, non dando mai nulla per scontato e senza preoccupazioni circa l'eventuale natura sconveniente delle loro domande e circa le eventuali conseguenze.

Il vedere che c'è ancora qualcuno disposto ad essere curiosamente creativo non va forse a risvegliare quel bambino -a volte troppo "normalizzato"- che si trova in ognuno di noi? Questa giornalista non faceva forse per conto nostro domande che da tempo avevamo rinunciato a fare? Perché quell'occhio "infantile", nella maggior parte di noi adulti rinuncia all'appassionata ricerca? Certo se nel faticoso lavoro della crescita siamo stati spinti ad un adattamento alle regole che poco ha tenuto in considerazione i nostri bisogni di bambini e troppo le esigenze dell' "ambiente", molto probabilmente sapremo essere acquiescenti alle richieste di adeguamento sociale, ma purtroppo a scapito di una capacità di stupirsi, emozionarsi e sentire il desiderio di comprendere ciò che stiamo vivendo.

Per non perdere la speranza di poter continuare a porci domande, la morte della giornalista ci obbliga ad interrogarci sui rischi (non solo fisici, ma anche emotivi) che questo comporta. Alcuni, infatti, potrebbero obiettare che sapeva del pericolo, che nessuno l'aveva costretta. Forse è un rischio anche astenersi e sopravvivere scivolando in una sorta di anestesia delle emozioni.

A questo punto vale la pena chiederci quali possono essere le motivazioni che spingono alcune persone a scegliere professioni da "prima linea" in cui si è messo in conto un prezzo alto da pagare. Non penso solo ai giornalisti che con il loro lavoro consentono agli altri, fornendo notizie, di sapere, di formarsi un'opinione, ma anche a quelle professioni che ci riguardano più da vicino in quanto prevedono il prendersi cura dell'altro.

Per cercare di capire, è necessario ripensare al bisogno originario del bambino di essere considerato e preso sul serio per quello che è di volta in volta, e per quello che fa. Se il genitore, quando era bambino, non ha fatto quest'esperienza, non potrà nemmeno offrire al proprio figlio un rapporto in cui interessarsi a lui, comprendendolo e accudendolo per quello che è e non per quello che può rappresentare. Cioè il rischio di incarnare il desiderio del genitore di realizzarsi attraverso il figlio. Le parti saranno invertite e il figlio, dipendendo in tutto e per tutto dal genitore, non potrà fare a meno di rispondere alle richieste, sostituendosi a lui nella posizione di sostegno e di ascolto. Avrà quindi il compito di supportare il genitore, di ascoltarlo, di rispondere ai suoi bisogni. Nel bambino si affineranno così quelle caratteristiche particolari, quella capacità d'ascolto, d'attenzione ai bisogni altrui che lo porterà poi, da adulto, ad adattarsi ancora ai bisogni degli altri scegliendo una delle cosiddette professioni di aiuto.

Il ripensare alle motivazioni delle proprie scelte, non solo professionali, potrebbe essere anche questo un modo per cercare un pezzo di verità, una parte delle nostre determinanti più profonde.

Tutti cerchiamo delle verità: giornalisti, pazienti, medici, ministri… Quando qualcuno si fa carico di questa ricerca, siamo manlevati da una responsabilità faticosa ed importante. E siamo poi anche molto coinvolti quando qualcuno paga con la vita il prezzo di una ricerca ineludibile per l'essere umano: un prezzo che noi ci siamo risparmiati.

L'alto prezzo dell'emotività negata

La notizia
E il medico diventa cinico. Ti rende cinico, quasi ''staccato'' dalla realtà emotiva che ti circonda. E ti fa diventare così ''cattivo'' da scaricare sugli altri, siano essi collaboratori, amici o ''utenti'' di quanto stai facendo, le tue frustrazioni. Convegno a Genova per studiare il fenomeno del Burn Out, il prezzo dell'aiuto agli altri.
''Il Secolo XIX, venerdì 9 novembre 2001

Il commento
E' la sindrome del Burn Out: può accadere a persone che si occupano degli altri a livello psicologico e sociale come medici, infermieri, insegnanti, magistrati, sacerdoti, psichiatri e psicologi. Chi decide di intraprendere queste professioni spesso ha motivazioni profonde che possono rimanere sconosciute al soggetto in questione. Tali motivazioni nascono e si sviluppano lungo l'arco della vita e in conseguenza delle proprie esperienze personali, in particolare all'interno della famiglia d'origine. Il desiderio di occuparsi di altri esseri umani può dunque derivare da un'abitudine acquisita fin da bambino a porsi come soggetto che ascolta e soccorre il genitore, per tale ragione rinforza in quest'ultimo lo statuto di individuo diventando una sorta di specchio nel quale egli può riconoscersi. Il sentirsi così importante nel farsi carico di questa funzione, pur nell'enorme presa di responsabilità, porta il bambino a sostenere l'adulto piuttosto che essere da lui sostenuto e riconosciuto, nel tentativo disperato di essere da amato.

Quando si diventa a propria volta adulti si può tendere a perpetrare questo modello, a farsi contenitore delle richieste e delle angosce altrui, oltreché dei bisogni fisici e psicologici. Nell'altro però può essere proiettato il nostro stesso bisogno, in noi non riconosciuto, negato e quindi scisso. L'illusione può renderci persone che "al di qua della barricata" si occupano di chi ha bisogno "al di là" dove chi è debole, fragile, malato o bisognoso di aiuto e di cure ci chiede qualcosa e dove noi ci sentiamo forti e in grado di dargliela.

Il non riconoscere però che anche noi possiamo essere individui estremamente bisognosi perché ciò può portarci a percepire anche la nostra fragilità e dipendenza arriva a farci sentire molto soli, nel tentativo di "curare" negli altri quello che non riconosciamo in noi stessi.

A questo punto però la richiesta di aiuto, il grido angosciante di chi non ammette deroghe ci risulta estraneo, pressante, persecutorio; sembra che una violenza invadente si appropri di noi non lasciando nemmeno lo spazio per pensare, per vivere i propri affetti, per elaborare i propri stati d'animo.

Il tentativo di attuare una difesa, di affermare che tutto questo dolore riguarda l'altro, malato o bisognoso di cure e d'attenzione ma non noi, può stare nel trasformarsi in esseri estranei a quanto stiamo vivendo, staccati dalla realtà emotiva vissuta come pericolosa. Il lavoro, allora, può essere svolto in modo automatico, a volte anche in maniera efficiente, purché la realtà emotiva non sia percepita, purché l'anestesia che ci procuriamo ci preservi da quegli stati d'animo che temiamo.

Questa posizione risulta essere, specialmente su tempi lunghi, estremamente limitante per l'individuo che la vive: essa porta a negare la percezione emotiva di buona parte delle esperienze che ci circondano, quindi a sentirci estranei, al di fuori del contatto con la realtà che si sta vivendo, quasi alienati.

Sembra una vita in cui sia difficile o impossibile apprendere dall'esperienza che pure stiamo vivendo: anche la nostra stessa facoltà di percepire stimoli emotivi diventa impoverita; la possibilità di imparare dagli altri sembra spegnersi ogni giorno di più, è "un morbo invisibile che può assumere le sembianze di una depressione invincibile ed è comunque difficile da curare".

Allora la risposta può trasformarsi in efficienza sul lavoro, in fatica estrema ed estrema solitudine: l'onnipotenza di chi si occupava degli altri malati e bisognosi diventa impotenza, disperata rinuncia a cambiare qualcosa, senso di sconfitta.

Gli "utenti" con le loro richieste diventano portatori di istanze che sembrano annientarci; sconosciute e pericolose esse ci rimandano il limite, la finitezza che è propria di ogni essere umano ma anche la frustrazione di sentirci quasi paralizzati di fronte a certi eventi che sembrano ripetersi sempre uguali.

Nel tentativo di difenderci da tanta angoscia della quale possiamo non capire l'origine ma che ci viene chiesta di contenere possiamo, allora, scaricare sugli altri le amarezze e il malumore: e se il problema non viene curato, nel momento in cui l'individuo diventa "capo" riproduce sui sottoposti la sua tensione creando un ambiente di lavoro invivibile.

Diventa visibile in questi stati come l'individuo chieda agli altri di farsi carico al suo posto dell'ansia che prova: qualcuno che sia in grado di contenere la delusione e la rabbia vissuta e in questo modo limitare e dare un senso, pur illusorio, a ciò che così pesantemente si vive.

Ma quale può essere la risposta, quale il lavoro da fare per impedire di essere colpiti dal "morbo invisibile" del Burn Out? La risposta può forse trovarsi in una maggiore conoscenza di sé, dei propri bisogni ed emozioni al fine di comprendere che esse possono accomunare tutto il genere umano pur se a livelli quantitativi diversi.

Conoscendo ciò che ci contraddistingue nel profondo non saremo tentati di negarlo e di vederlo solo negli altri come qualcosa che può attaccare e distruggere la nostra individualità.

La forza persuasiva dei soldi

La notizia
Oltre ai kalashnikov Mujahddin a Kabul, anche grazie alla forza persuasiva dei soldi. Kabul. La ''liberazione di Kabul'', come la chiamano i nuovi conquistatori del Fronte unito antitalebano, non è frutto solo dei raid alleati o degli assalti dei Mujaheddin. Oltre alle cannonate, hanno pesato sulle sorti della battaglia i salti dell'ultima ora sul carro dei vincitori, i rapporti personali, spesso di famiglia, tra comandanti dei fronti avversi e il valore del denaro che compra i disertori: 50 dollari per un soldato, 100 per un ufficiale talebano, somme ben più elevate per i veri capi.
''Il Foglio di martedì 14 novembre 2001

Il commento
E' difficile non porsi in una prospettiva psicoanalitica mentre immagini ed eventi, che ci giungono da territori poco conosciuti, occupano molta parte del nostro immaginario e ci inducono anche a chiederci se è lecito usare i nostri strumenti quotidiani per "pensare" altri mondi. Forse quasi inavvertitamente modificheremo e adatteremo i nostri strumenti. Per ora, come psicoanalisti, vedere con occhio psicoanalitico, ci permette di difenderci dalla troppa sofferenza e di porci nella situazione mentale di sentire ed indurre, nonostante tutto, speranza.

E' forse superfluo, in questo contesto di comunicazione, ricordare come, sia la psicoanalisi delle origini che quella successiva, legge ciò che accade nella psiche degli individui che costituiscono gruppi di combattimento. Possiamo accennare agli eventi più importanti: la regressione a fasi di funzionamento infantile con le difese corrispondenti più primitive come la proiezione del male nel nemico, la negazione del pericolo e della paura, l'identificazione nel comandante e nell'invulnerabilità del gruppo, l'eccitazione molto alta che difende dal pericolo della compassione, il passaggio all'atto di gruppo in cui l'aggressività persecutoria potrà togliere i freni per l'esecuzione di trucidezze impensabili ecc.Ma ciò non è evidente a tutti; invece possono saltare agli occhi altri segni: la guerra può essere vissuta per lunghissimo tempo come gioco e come lavoro e rendere contenti; chi in guerra non vorrebbe proprio esserci, come molti di noi qui a guardare ad Oriente, non fa che occuparsi delle guerre altrui con godimento. E' stupefacente la banalità e ripetitività di queste ricorrenze.

C'è un bellissimo film/documentario francese sul comandante Massud capo dei mujaheddin che racconta per immagini e interviste un ventennio di battaglie tra le montagne afgane. E' notevole l'impatto con l'aria apparentemente felice di uomini che dovrebbero essere distrutti da fatica e sofferenze. Si pensa: la guerra può rendere felici, se non fosse così non sarebbe preferita ad altre soluzioni. Ad un soldato viene chiesto: "Perché combatti?" "Non lo so, lo sa il comandante".

Se la guerra perdura vuol dire che ci sono ragioni psichiche dell'essere mano, più forti di ogni apparentemente ragionevole modalità di pensare ed agire con altri strumenti e questo vediamo nei miti e nella realtà. E' anche più facile che questo avvenga dove i bambini crescono tra le bombe e il lavoro quotidiano fondamentale è quello di combattere. Però in mezzo al fumo e agli scoppi ci sono altri intrighi; il gioco della guerra totalmente agito in campo di battaglia si avvia a trasformarsi in scambio di denaro e uomini.

Ho sentito raccontare che c'è un gioco permesso tra le tribù afgane, in cui, non il pallone viene conteso ma il corpo decapitato per l'occasione di una capra (non ho mai visto un esempio più eclatante di lotta per il possesso dell'oggetto primario). Ma nel momento in cui ci si scambia denaro invece che pugnalate, la più primitiva violenza e paura ha una sosta.

Guardando il documentario/film sopraccitato altre cose mi colpivano oltre l'apparente o reale vitalità e gioia di vivere dei combattenti e la loro capacità di trovare momenti per la musica, la poesia, la convivialità: che tutto questo non era diverso nei racconti che mi è capitato di leggere sulle guerre partigiane in Italia; lo stesso piacere di segnare il territorio, di conquistarlo al di là della sua importanza e l'esclusione totale dell'elemento femminile anche se il cibo viene confezionato, servito, dove quando non si sa; un accudimento assicurato e invisibile (come non vedere la fiducia che la mamma ci sarà sempre a proteggerci ma visibilmente solo quando vogliamo noi?).

Ma 20 anni di guerriglia possono anche stancare e rendere meno esaltante la guerra per chi sopravvive. Come la droga dopo parecchi anni. Nell'ultima intervista del comandante Massud, prima di essere assassinato, a settembre scorso, Massud si ricorda dell'analfabetismo delle donne e delle armi della cultura.

Quando succede questo? Quando l'imperituro gioco della guerra ha perso la tensione iniziale, quando la stanchezza dei gruppi che si affrontano rischiano di far scivolare tra gli individui la depressione. Il capo fa un sogno "politico" e ora un articolo ci racconta delle trasformazioni della lotta, dei tentativi di vendere e comprare uomini. Vuol dire che il gioco con i soldi sarà meno cruento?, Sì, sebbene possa essere terribilmente crudele.

La psicoanalisi ci insegna che tutta l'area degli scambi economici, in una gamma assai grande di variabilità qualitativa, è supportata da un funzionamento mentale che rivisita la fase anale dello sviluppo infantile. La variabilità qualitativa vuol dire che si può trovare in persone diverse una capacità di simbolizzazione inesistente o molto raffinata, però l'opposizione è ugualmente dominante. Soltanto che la violenza viene pensata ed agita con modalità meno totalmente distruttive; invece delle bombe, qualcosa che ricorda la materia fecale, per l'occasione rivestita di lucentezza e seduzione: il denaro, cui è comunque attribuito qualità di salvezza ed onnipotenza.

Poter pensare con Freud che ogni esplosione della pulsione di morte possa avere una tregua, che ci sia una maggior capacità individuale e collettiva di simbolizzazione, che diversi intrecci tra le forze di costruzione e riparazione e la tentazione di distruggere e morire si rendano visibili, ci permette di cercare nella ripetizione degli eventi la possibile unicità dei percorsi evolutivi.

Farmaci... basta un click!

La notizia
Sempre più Internet si rivela utile anche per scopi non chiarissimi. Ci si collega ad un sito e si può: ''comprare il Viagra senza ricetta né imbarazzanti visite mediche... si possono avere anche pillole contro l'Antrace, l'obesità, la caduta dei capelli... qualcuno bara!''.
''L'Espresso, novembre 2001

Il commento
A che cosa serve Internet? È un mezzo di comunicazione straordinario che consente a tutti quelli che possono essere collegati di usufruire di moltissimi servizi. Ovvero impedisce a coloro che ne sono privi l'accesso a tali servizi e ancora, permette agli utenti di usufruire di certi servizi perdendo la possibilità di affrontare davvero i problemi.

Sembra quasi, a volte, che sia soprattutto importante avere lì, "a portata di mouse" qualcosa a disposizione per poter soltanto pensare che le cose si possano risolvere, anche se, di fatto, non si acquisterà mai il Viagra "online".

A questo proposito, a dimostrazione della diffidenza che ancora le persone hanno (almeno in Italia) nei confronti degli acquisti in rete, ho letto recentemente che uno degli oggetti più "cliccati", in previsione di un acquisto, è un indumento intimo maschile: uno slip "tipo perizoma".

Al di là di queste considerazioni sul commercio telematico, non è mia intenzione criticare Internet, anche perché sarebbe intrinsecamente sbagliato, ma è forse il caso di interrogarci su come usiamo poveramente un mezzo potentissimo soltanto per difenderci dall'opportunità di affrontare i problemi che ci affliggono: Internet può essere utilissimo per tantissime cose, purtroppo anche per evitare di avere dei rapporti con le persone e con noi stessi.

E sì, perché a cosa serve avere il Viagra in forma anonima? (non parliamo dei farmaci offerti contro l'Antrace che probabilmente sono soltanto il frutto di un'operazione commerciale dovuta esclusivamente alla paura che sta attanagliando tutto il mondo occidentale)

Cosa ci si guadagna?

Cosa si perde?

Si guadagnano tante illusioni, si spera che con un "clic" e la pillola promessa si possano mettere le cose a posto. Si pensa che in questa maniera non si perde troppo tempo.

Si perde il rapporto con una persona: anche ammettendo che un farmaco come il Viagra possa risolvere un sintomo, si perde il significato del problema e anche della persona con cui siamo.

E per quello che riguarda il rapporto altrettanto importante con il medico: non è la stessa cosa comprare un farmaco quasi di nascosto e anonimamente piuttosto che alla fine di un colloquio con un medico; un farmaco ha una sua efficacia, ma questa dipende anche da come lo si assume e da chi lo somministra, se l'approvvigionamento anonimo dà soltanto la possibilità di non parlare con nessuno di sé, il risultato è soltanto quello di aumentare la cappa di silenzio che incombe sopra e dentro di noi con annesso un aumento della sofferenza, del senso di solitudine e della sensazione di onnipotenza di poter fare tutto da soli.

Inoltre non ci concediamo "del tempo". Non prendiamo tempo per riflettere e per pensare un po' a noi stessi. È la stessa cosa che non avere rispetto per noi stessi. Si abolisce qualsiasi responsabilità verso di noi, si elimina la responsabilità dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e dei nostri problemi.

Un sintomo, una sofferenza, non nascono a caso nel nostro organismo, sempre hanno un significato. Se troviamo il modo di non pensarci le cose rimangono sempre uguali a se stesse fino a quando non assumono dimensioni tali per cui non è più possibile fare qualcosa.

Un banale mal di testa può senz'altro avere origini organiche, ma può anche avere il significato di una reazione inconscia del nostro organismo quando, non volendo parlare di qualcosa che non va, ad esempio con il partner, preferiamo "un bel mal di testa" alla relazione con l'altro. A questo punto a cosa serve l'analgesico? Forse a fare passare il mal di testa, ma sicuramente anche a non pensare e a credere che il corpo e la mente siano due entità separate quasi in lotta fra di loro.

Eugenio Gaddini, uno psicoanalista recentemente scomparso, nel suo scritto Note sul problema mente - corpo del 1980 inizia così il suo lavoro:
"La psicoanalisi considera l'attività mentale come la funzione più altamente differenziata del corpo, talmente differenziata da richiedere un suo proprio metodo di indagine, atto cioè a studiare i suoi fenomeni come sono, indipendentemente dai presupposti biologici che li sottendono. Tuttavia, la psicoanalisi considera il corpo e la mente sotto l'aspetto di un continuum funzionale, l'elemento chiave del quale rimane quello di un processo, nella differenziazione della funzione mentale, la cui direzione è dal corpo alla mente, ma che la psicoanalisi studia nella direzione dalla mente al corpo"

Gaddini spiega come questo "continuum funzionale" nasca e si sviluppi necessariamente nel bambino attraverso una costruzione di un sé mentale che passa attraverso la ricostruzione di un sé corporeo. Prima della nascita i confini del feto sono reali, concreti: il liquido amniotico, la parete uterina che contiene e dà una forma al sé. Mente e corpo sono per forza la stessa cosa. Dopo la nascita tutto muta; il bambino impara a fare le prime cose, ovvero comincia a funzionare per determinati aspetti e deve costantemente imparare che esiste un limite al suo corpo e che esiste anche una sua mente, o funzione mentale, che non ha ancora trovato il contenitore adatto.

Quello che accade quando siamo un po' più grandi sembra essere molto simile; una malattia o un sintomo emergono e ci colpiscono nel corpo, ci sembra impossibile che altro rispetto al corpo possa avere un ruolo. Facciamo troppa fatica ad accettare come una qualche funzione mentale (affettiva, emotiva, interiore) non abbia trovato un altro mezzo per evidenziarsi.

Mitscherlich in Malattia come conflitto, dice: "la malattia non è mai in nessun caso qualcosa di fortuito che agisce in maniera anonima: la malattia è una delle possibilità di reazione che si presentano all'individuo allorché si trova in quella che gli appare una situazione senza via di uscita".

E ancora Chiozza in Per un incontro fra psicoanalisi e medicina: "Ogni malattia ha un significato umano che consiste nel fatto che, in qualche modo, un uomo è allontanato dalla sua decisione [ … ]. Esiste, quindi, una partecipazione dell'uomo alla sua malattia, tanto all'origine quanto al decorso della stessa".

Per ritornare al discorso su Internet e i farmaci, non è per questo che è nata Internet, non è un contenitore di pubblicità e basta, o una vetrina, questo è l'uso che ne facciamo, ma è un uso puramente difensivo, quasi patologico, per nulla comunicativo. Senza contare che la Rete non è così nella sua sostanza, siamo noi che ne utilizziamo gli aspetti più "perversi", trascurando le potenzialità comunicative e creative che essa ci offre.