Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorarne l'esperienza di navigazione e consentire a chi naviga di usufruire dei nostri servizi online. Se prosegui nella navigazione acconsenti all'utilizzo dei cookie.
Per maggiori informazioni leggi la privacy policy e la cookie policy presenti nel sito.

In carcere... per vivere!

La notizia
La strana visita di un ladruncolo dal carabiniere che lo arrestò. ''Fatemi tornare in carcere fuori non ce la faccio più''.
''Il Lavoro, di lunedì 29 ottobre 2001

Il commento
E' una notizia curiosa quella di un ladruncolo che chiede di essere messo in carcere … per non rubare. E' una notizia che, proprio per questo, può suscitare interrogativi e far nascere la voglia di andare a vedere che cosa ci possa essere dietro una così "strana richiesta".

E subito alla mente viene spontaneo pensare quanto, infatti, sia difficile trovare dentro se stessi la capacità di controllare i propri bisogni, di gestire i propri impulsi, di modulare i propri desideri. Il detto popolare: "L'occasione fa l'uomo ladro" sembra sottintendere, per l'appunto, tale difficoltà e acutamente mette in evidenza che non è solo un problema di pochi, ma di ogni uomo, anche se per alcuni -più che per altri- tale problema diventa drammatico.

Come mai?

L'osservazione clinica e le conoscenze psicoanalitiche possono darci una mano nel tentativo di capire qualcosa.
Ogni essere umano, in un determinato momento della sua vita, ha fatto l'esperienza di essere guidato, se vogliamo "educato" a gestire quel crogiuolo di emozioni, sentimenti, bisogni che provava, al fine di mettersi in rapporto con gli altri e con il mondo. Alludo, per esempio, al momento delicatissimo, nella prima infanzia, dell'educazione degli sfinteri, ovvero l'apprendimento del bambino a fare cacca e pipì in determinate circostanze e in dati luoghi, con tutti i vissuti psichici sottesi. Alludo, poi, al momento fondamentale dell'introiezione della legge paterna, quale risoluzione della problematica edipica, quando fra i 3, 5 anni il figlio realizza l'identificazione con il genitore del proprio sesso come superamento degli intensi sentimenti di gelosia, rabbia e aggressività nei confronti del padre (per il bambino) e della madre (per la bambina), vissuti come rivali nella conquista della esclusività dell'amore del genitore dell'altro sesso. Alludo, infine, al drammatico periodo dell'adolescenza quando, nella ricerca di una propria identità, il giovane , deve fare i conti con un retaggio familiare di relazioni, codici, valori, leggi assimilati ed una nuova realtà esistenziale da pensare, elaborare e realizzare. Ed è proprio questo il momento in cui, da quella situazione dove erano gli adulti a guidare, ad indirizzare si può realizzare il passaggio ad una capacità di gestire più autonomamente la propria realtà emotiva e la propria capacità relazionale. Ma è anche questo il momento dove, come dire, i "nodi vengono al pettine". Sappiamo che una personalità può svilupparsi nella misura in cui è in grado di sopravvivere, a livello psichico, alle gravose esperienze del cambiamento e delle perdite che tale cambiamento inevitabilmente comporta. Ora questo è possibile se si è stati in grado di creare un' identificazione con una figura interna pensante, come dire, con un centro di amore e di attaccamento, che alla fine può funzionare in modo autonomo dalla sua origine e rappresentazione esterna. In altre parole, la crescita, l'evoluzione, la realizzazione a livello psichico dipendono dal fatto che il "nucleo originario" di ogni essere, quel Sé inesperto ed ancora immaturo, venga inizialmente contenuto (direbbe Winnicott ) e guidato nel corso dei suoi rapporti intimi in famiglia, prima, e nella vita poi. Ora, se questo è mancato o è stato inadeguato, si possono aprire alcune prospettive esistenziali anche drammatiche. Esse vanno dalla incapacità a tollerare autorità, norme, leggi; alla impossibilità a contenere vissuti, stati d'animo … fino alla richiesta all'altro di essere lui quel contenitore che si sente mancante dentro se stessi. I modi sono molteplici: dalla fanatica adesione al credo (politico, religioso, filosofico) del capo; alla acritica adesione ai modelli sociali dominanti; all'appoggio emotivo simbiotico con il partner … fino alla richiesta esplicita al tutore dell'ordine di essere incarcerato, come succede a Roberto M. Il motivo è sempre lo stesso: fammi da contenitore!

Rimane ancora da capire il senso di quello che la psicoanalisi definisce un "agito": quella necessità di rubare di cui Roberto non può fare a meno. Senza pretendere di analizzare il caso, si può però presumere che tale comportamento possa avere anche più di un significato: magari ripristinare qualcosa che si avverte come andato perduto, ad esempio un rapporto padre/figlio. Potrebbe esprimere aggressività, cioè un modo di privare qualcun altro di un oggetto per invidia e rabbia primitive; oppure potrebbe essere il tentativo di colmare con cose preziose appartenenti ad altri una povertà interiore sentita come molto profonda e dolorosa. Potrebbe trattarsi ancora di una reiterata protesta per un'attenzione ed un accoglimento che, nella storia infantile, non sono stati dati con sufficiente continuità dalle persone significative di riferimento. O potrebbero esserci altre ragioni ancora.

Quello che qui si vuole, però, cercare di mettere in luce è un fatto estremamente importante. Al di là delle varie strategie che si possono attivare più o meno inconsapevolmente per sopravvivere, ciò che si ricerca con esse è il tentativo di sfuggire al dolore mentale o se vogliamo, di affrontare tale dolore con delle azioni piuttosto che con il pensiero. E questo si può presentare in qualsiasi stadio della vita, anche in età adulta inoltrata, perché è lo stato mentale dominante che finisce per favorire l'azione rispetto alla riflessione e che provoca reazioni infantili invece di risposte adulte. Sta qui il dramma di ogni essere umano, di ognuno di noi, dunque, nel momento in cui ci si trova ad oscillare di fronte alle quotidiane fatiche della vita e alle difficoltà della realizzazione dei rapporti con gli altri.

Halloween tra vecchie angosce e nuovi terrorismi

La notizia
E se questa volta gli spiriti malvagi si materializzassero? Se lo è chiesto in un inchiesta il Wall Street Journal e se lo chiedono milioni di americani che di stanno preparando alla festa di Halloween. Con i bambini che scelgono i costumi da indossare la notte del 31 ottobre per poi andare da una casa all'altra dei vicini, formulando l'innocua minaccia: "dolcetto o scherzetto"?
''Il corriere della Sera, di sabato 20 ottobre 2001

Il commento
Il nuovo incubo terroristico si chiama antrace.
Il postino contagiato a Washington è morto; la camera e il senato USA restano chiusi.

Ora, tenere sotto controllo la paura e la nevrosi è forse il compito più difficile...migliaia di persone potrebbero essere contaminate...anche i telegiornali e i mass media divulgano ormai notizie agghiaccianti, senza protezione per le" psicosi collettive".

Bacilli come antrace, vaiolo o anche gas nervini diventano i protagonisti dei nostri pensieri, e dei nostri incubi notturni.

La spirale della guerra infrange tutte le barriere ed in qualche modo, paradossalmente, elimina le diversità; sembra che a tutti noi possa toccare la stessa sorte e che una polverina mortifera vada lentamente spargendosi sulle nostre parti vitali.

Di fronte a questo appiattimento delle aspettative e delle progettualità di ciascuno, dobbiamo ritrovare un bagliore di vita.
Alla mostruosa dispersione di ogni nostro slancio vitale, di ogni speranza e progetto per il futuro nostro e dei nostri figli, dobbiamo cercare di opporre una forte e consapevole presa di coscienza che ci permetta di rispondere in maniera soggettiva e non massificata.
Questo attacco terroristico, prima di attentare alla nostra incolumità fisica, sicuramente mette a repentaglio la nostra incolumità psichica.

Ognuno di noi rischia di diventare un potenziale paranoico capace di scambiare dell'innocuo zucchero sui dolcetti di Halloween per polvere di antrace.

Da tempo si parlava della possibilità del bio-terrorismo, ma si diceva che il completamento del progetto-genoma e l'approfondimento del sapere, riguardo a malattie di tipo epidemico come l'antrace e il botulismo, avrebbero permesso, in un prossimo futuro, di ottenere vaccini in grado di proteggere le società occidentali da possibili attentati, oltre che da epidemie di tipo naturale.

Paradossalmente, il nuovo incubo terroristico parte da un'anonima lettera d'amore, scritta alla attrice cantante Jennifer Lopez e recapitata alla redazione del giornale scandalistico Sun in Florida, una settimana prima dell'11 settembre.
Assieme alla lettera c'era della polvere bianca e un talismano ebraico, e come tante lettere di fans è stata cestinata. Dopo un mese, Robert Stevens, fotografo del settimanale Sun, è morto stroncato dal carbonchio e ora si indaga su quella lettera.

Il dottor Gupta, famosissimo neurochirurgo e consulente medico della Cnn cerca di tranquillizzare milioni di americani spaventati dal nuovo incubo del terrorismo biologico con queste parole: "l'antrace è un virus pericoloso, causa una malattia, il carbonchio, che può essere mortale. Tuttavia è una malattia che non si trasmette da uomo a uomo attraverso il respiro, come l'influenza. Può essere curata con diversi tipi di antibiotici facilmente reperibili sul mercato...."

Anche a Milano è scoppiata la "psicosi" da polverina.
La paura del carbonchio dilaga . L'Asl sta tenendo segreti i falsi allarmi. L'ultima scoperta della famigerata polverina bianca è stata fatta allo scalo ferroviario Fiorenza, in via Triboniano, il deposito dove si fa manutenzione degli Eurostar.

Quando qualcosa di molto forte, come ad esempio la morte, esce dalle consuetudini, si crea un vuoto emozionale nel quale entrano paura e ansietà, mistero e incertezza.

Dapprima ci siamo trovati ad affrontare la visione della catastrofe delle torri gemelle in diretta, poi giorno dopo giorno, ora dopo ora, le stesse sconvolgenti immagini ci sono state riproposte, costantemente, in modo ossessivo, senza quiete. Quelle sequenze fotografiche, si sono trasformate in una unica immagine alla moviola che, al rallentatore, fa sprofondare, dalle torri di relativa sicurezza, in un mondo di macerie, dove tutto deve essere ripensato per non soccombere, sempre che ci sia concesso.

Allora, il rapporto fra fotografia e morte, il perturbante - l"unheimlich"- di cui ci parla Freud, diventa più chiaro e imperioso e va a sostituirsi a quel vago senso di nostalgico impedimento che tante volte rende difficile, a nostra insaputa, ordinare le fotografie in album.

Sembra così più chiaro il senso di imbarazzo che si può provare davanti a una fotografia perché nel momento stesso in cui è scattata, si partecipa alla mutabilità della persona, il "qui ed ora" del soggetto è già passato e inizia la nostalgia del ricordo, del non più...

Tutto questo è un utile esercizio di micro - separazioni, nostalgici rimpianti di una giovinezza che sta passando, visi di nostri cari che nel blocco delle foto, immobili, ci richiamano ad altri tempi perduti.

Ben altra cosa è vedere e rivedere per mille sequenze drammaticamente sempre uguali, le immagini dello sgretolamento delle due torri, e pensare che in quell'istante ripetuto all'infinito, coperti da un pietoso velo di polvere, migliaia di corpi, di vite, di progetti futuri, di pensieri vitali, si sono schiantati al suolo, in un fragore, questa volta sì, globale.

La reazione di ciascuno di noi a questi fatti è fortemente soggettiva, ma, comunque, essi hanno inciso profondamente sul nostro modo di essere sulla terra.

. Le immagini che si ripetono ossessivamente, si incuneano nelle menti come un "memento" che travalica l'obbiettiva tragica realtà americana.

La fotografia è servita anche a questa funzione simbolica.

Lo sgomento prodotto dai fatti e sostenuto dalle immagini di distruzione e morte, sta ora, con il terrorismo biologico, toccando stadi ancora più primitivi di paure ancestrali.

La contaminazione mortale può provenire da qualunque fonte e ciò è profondamente destabilizzante.

Ora non abbiamo immagini, a cui appellarci, per significare il nostro sgomento.
È una paura più sorda e insidiosa, che non ha volto: non si fotografa il batterio e neppure le persone contaminate; adesso dobbiamo davvero fare i conti, ciascuno con i propri fantasmi, e, con questi, imparare a convivere.
Il veicolo della morte è diffuso e non ha forma.
Sembra che nessuno abbia protezione, tutti sono potenzialmente esposti.
Questo fa sì che ciascuno venga risucchiato indietro verso angosce senza nome in cui, il bambino che è in noi, non ha strumenti di simbolizzazione. Ciascuno, per quanto adulto, deve forzatamente fare i conti con il bambino impaurito che è stato e con il bambino che è ancora.

Difficile compito, allora, quello di genitori perché costretti a tenere a bada i bambini che hanno e i bambini che sono.

Anche i bambini più fortunati, quelli non toccati direttamente dalle morti, sono stati privati della possibilità di esorcizzare le proprie paure con spensieratezza.

La festa di Halloween ne è un esempio simbolico.
"Dolcetti o scherzetti"; fino ad oggi, con questo ritornello giocoso, generazioni di bambini hanno potuto prendere contatto col mondo pauroso e sconosciuto dei morti, complici gli adulti .

Ma ora, come sarà quest'anno?

I bambini devono fare i conti con la soggettività e le fantasie dei genitori e ne subiscono l'influenza.

Ecco allora che, inaspettatamente, attraverso la notizia giornalistica della paura per la festa di Halloween, i bambini tornano in scena. Noi adulti, presi dallo sconvolgimento degli attacchi terroristici, ci siamo forse dimenticati di loro, di quei piccoli americani che possono avere ancora, dentro di sé, il desiderio di partecipare, come ogni anno, il 31 ottobre a questa festa e che mai come adesso hanno bisogno di esorcizzare.

Il bambino nutre dentro di sé il bisogno della normalità per poter crescere. Noi analisti sappiamo che può sviluppare la sua vitale capacità di affidarsi e fidarsi solo se sostenuto, durante il percorso evolutivo, da "una madre sufficientemente buona", come direbbe Winnicott.

Dove ovviamente per" madre" intendiamo tutto l'ambiente generativo.
Ma come è possibile, mi domando, provare, in questo momento, fiducia e serenità da trasmettere ai nostri figli?

Hanno bisogno di giocare, ridere, gioire...oggi questo è molto più difficile, e l'allegria di una mamma americana rischia di essere disarmonica con il resto dei suoi pensieri.

Come si deve affrontare il tema della guerra e della violenza con i piccoli che si affacciano ora alla vita?

Stiamo con i nostri bambini, parliamo loro, in un linguaggio semplice, delle nostre e delle loro paure, ascoltiamoli, non utilizziamo la negazione come semplice meccanismo di difesa! Solo così potranno vivere le loro feste, affrontare le paure, sentirsi sorretti da genitori capaci di ammettere le loro ansie, senza necessità di trasformarsi in super-man.

Perché, possiamo ammetterlo, la tragedia americana ha scaraventato anche noi adulti in un baratro di incertezze che dobbiamo faticosamente e lentamente elaborare, per presentarci ai nostri figli quali loro ci vogliono, e cioè veri.

Il disinganno della guerra

La notizia
Afghanistan sotto attacco.
''La Repubblica'' di luned' 8 ottobre 2001

Il commento
Alle 18 e 15 di domenica 7 ottobre '01 l'inevitabile guerra comincia. A fronte di un conflitto bellico che aveva preso un'impronta di ineluttabilità già poche ore dopo l'attacco terrorista agli USA del 11 settembre scorso credo che poche siano le parole dicibili e molti gli stati d'animo di cordoglio per i morti e per coloro che non sono terroristi ma ignari ed inermi abitanti della nazione afgana.

Così mi viene in mente che, nel 1915 Sigmund Freud scrisse proprio in concomitanza di una guerra "Considerazioni attuali sulla guerra e la morte", un breve saggio che forse per alcuni può sembrare senz'altro superato ma per il sottoscritto rimane pur sempre un capitolo con preziose intuizioni. Qui di seguito vorrei citare i passi, credo, più aderenti a questo momento storico.

"Il disinganno della guerra"
"Afferrati dal gorgo di quest'epoca di guerra, disorientati da informazioni unilaterali, senza poterci distanziare dai grandi mutamenti che gia si sono verificati o si stanno verificando, e privi di ogni sentore circa le caratteristiche dell'avvenire che si sta profilando, non sappiamo più cogliere il giusto significato delle impressioni che urgono su di noi, né l'esatto valore dei giudizi che pure esprimiamo"

"Si è più volte detto che le guerre non cesseranno finché i popoli vivranno in condizioni così diverse, finché così divergente risulterà il loro apprezzamento della vita individuale, e finché gli odi che li dividono incarneranno così potenti forze psichiche. Si era dunque preparati al fatto che le guerre tra i popoli civilizzati e quelli primitivi, tra le razze umane contrapposte dal colore della pelle, tenessero per molto tempo ancora occupata l'umanità. Tuttavia, altra era la speranza cui osavano ancora affidarci. Dalle grandi potenze mondiali di razza bianca alle quali è toccata la guida del genere umano, che si sapevano dedite alla cura di interessi di rilevanza mondiale e che hanno partorito i progressi tecnici per il dominio della natura oltre che i valori della cultura artistica e scientifica: almeno da questi popoli era lecito attendersi che sapessero decidere i loro contrasti e i loro conflitti di interesse per altra via"


Freud da una spiegazione secondo la teoria pulsionale di come l'uomo sia costituito di moti pulsionali di natura elementare, simili in tutti e orientati alla soddisfazione di determinati bisogni originari. Tali moti e le loro manifestazioni vengono classificati in rapporto alle esigenze della comunità umana e si connotano così in coppie di opposti. "Bene" e "male" possono convivere nello stesso tempo e forse la guerra ci fa perdere di vista questo aspetto, è così che il "nemico", lo "straniero" viene connotato come il "cattivo". Netta separazione del bene dal male, che pericolosamente viene riproposta da molti, e rischia di andare ad alimentare proprio questo bisogno di scindere.

Freud, prima di parlare della morte, conclude in questo modo:

"Per la verità, noi avevamo sperato che la grande comunità degli interessi, instaurata dagli scambi commerciali e dalla produzione, potesse rappresentare l'inizio di una tale costrizione, ma sembra che i popoli ubbidiscano per ora molto più alle loro passioni che ai loro interessi. Tutt'al più si servono degli interessi per razionalizzare le passioni; prendono a prestito gli interessi per poter legittimare il soddisfacimento delle loro passioni. Perché poi i popoli e le nazioni si disprezzino, si odino, si detestino reciprocamente - e, per la verità, anche in tempo di pace - è davvero un mistero. Io non so veramente che dire. E' come se, allorché una massa o addirittura milioni di uomini si riuniscono, tutte le conquiste morali dei singoli venissero cancellate, sicché rimangono solo gli atteggiamenti psichici più primitivi, più antichi e rozzi. Forse soltanto in più avanzati stadi dell'evoluzione, si potrà cambiare in qualche modo questo deplorevole stato di cose. Tuttavia, un po' di sincerità e franchezza da parte di tutti, nei rapporti degli uomini tra loro e con i governanti, potrebbe aprire la strada anche a questa trasformazione".

Cercando che i morti non siano morti

La notizia
Un mese di funerali fantasma per i dispersi delle Torri'.
''La Repubblica'' di giovedì 11 ottobre 2001

Il commento
Stretti da angosce terribili in questa crisi planetaria, tormentati dall'ansia di tutto quanto può ancora accadere, facciamo fatica sia a distogliere lo sguardo da questi avvenimenti, sia a fermarci un attimo su quanto è già accaduto, su quella realtà fatta di singole storie spezzate, di piccole quotidianità ineluttabilmente segnate dalla morte.

Ma questa notizia richiama con una certa imperiosità la nostra attenzione proprio su quell'universo sofferente e multiforme che è già stato buttato inesorabilmente dentro la Storia.

Ci sono migliaia di persone che non potranno mai più rivedere, non solo in vita, ma neanche in morte, coloro a cui erano legati da una storia comune: mariti, mogli, figli, fratelli, padri, madri, amici… Questo, ci dicono, rende la perdita ancora più ingiusta e assurda, ancora più intollerabile.

Si istituisce inaspettatamente un distinguo, non tanto all'interno del morire come evento fisico, che ovviamente è comune a tutti, quanto sui modi e sulle risultanti della morte.

Il distinguo, in realtà, riguarda i vivi e non i morti. In un tentativo di ordinare la marea di emozioni, i vivi sembrano stilare tristi graduatorie: si sentono più fortunati o più sfortunati a seconda se hanno potuto riavere "qualcosa" del proprio caro o se invece lo devono per sempre abbandonare nella grande fossa comune delle Twin Towers.

La rinuncia definitiva ai "resti" sembra essere l'inaccettabile. Ognuno cerca con i propri strumenti di affrontarla e allora avviene un fenomeno che colpisce perché si riproduce mille e mille volte: ogni nucleo familiare cerca di far riferimento a quella ritualità dell'accompagnamento del defunto verso l'ultimo viaggio, che la tradizione ci offre come momento sociale di conforto. Si celebrano innumerevoli funerali, ma questa volta la persona non c'è più neanche nel corpo: è questo nulla l'impensabile con cui confrontarsi.

Ma se confidiamo nel fatto che tentare di dare un senso, un significato emotivamente plausibile, a ciò che accade fuori e dentro di noi può renderci più tollerabile il peso dell'umana fatica, forse anche di fronte a queste esperienze, vale la pena di chiederci come mai l'impossibilità di recuperare i resti mortali di una persona a noi cara apra spazi di irrealtà e di dolore più ampi e acuti di quelli già sconfinati propri di coloro che le salme le possono piangere.

La morte, tutte le volte che la incontriamo, ci interroga sulla vita.

La morte è quella degli altri, la vita la nostra. Ma è una pura astrazione di comodo pensare alla nostra esistenza come una realtà a se stante, isolata e non intersecata da una rete fitta di altre storie: se ogni nuova intersezione è un potenziale arricchimento che ci viene offerto, una articolazione in più, ogni taglio è una perdita che ci costringe a rivedere profondamente l'intreccio.

Nei primi momenti il dolore è quasi follia: si vorrebbe cancellare l'incancellabile, chiamare chi non può più rispondere, sentire il contatto che ci è sfuggito per sempre, vedere il guizzo vitale di quegli occhi che non ci sorrideranno… E ci sentiamo in colpa per il nostro vivere, ci sembra di rubare qualcosa che è di proprietà altrui, vorremmo morire con i nostri morti.

In fondo l'amore e il dolore sono a ben guardare le esperienze che più accomunano gli uomini, e come dice Croce: "con l'esprimere il dolore nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio, rendendolo oggettivo. Così cercando che i morti non siano morti, cominciamo effettivamente a farli morire in noi. Né diversamente accade nell'altro modo col quale ci proponiamo di farli vivere ancora, che è continuare l'opera a cui essi lavoravano, e che è rimasta interrotta."

Una prima riflessione, nella ricerca di possibili spiegazioni del fatto, per altro comunemente condiviso, che la mancanza del corpo da piangere renda l'esperienza della perdita ancora più drammatica, risale necessariamente all'indietro, fino agli esordi della vita.

Il neonato intensamente succhia, attività primitiva e riflessa che contemporaneamente gli garantisce la vita e la conoscenza del mondo.

Quest'atto di incorporazione primigenio risulterà, così, fondante il nostro mondo emotivo; un desiderio ardente di possedere qualcosa che sta al di fuori di noi, da cui sembra dipendere la nostra vita, comparirà costantemente al nostro orizzonte e con forza connoterà, per esempio, le esperienze amorose della vita adulta.

Però, questo intenso desiderio di possedere, di incorporare in sé ogni oggetto sentito come necessario alla sopravvivenza, è direttamente legato alla paura della perdita e in una reazione umana universale possiamo cogliere questa profonda connessione: quando siamo di nuovo di fronte ad una persona (o cosa) riottenuta dopo una separazione l' azione riflessa dell'abbracciare, dell'aggrapparsi, dello stringere a noi, mostra chiaramente il nostro desiderio di incorporare quello che è stato-e perciò potrebbe essere di nuovo- perduto.

Paura e desiderio sono infatti indissolubilmente legati, appartengono alla stessa esperienza, sono due aspetti della stessa emozione. Il timore della frustrazione, della totale deprivazione dell'appagamento ci espone ad angosce di annichilimento, e nelle situazioni di lutto siamo chiamati ad evitare la perdita più irreparabile e decisiva: quella di noi stessi.

Possiamo allora ipotizzare che riabbracciare, rivedere, toccare, anche se davvero per l'ultima volta,

il corpo della persona che ci ha lasciato, un poco ci aiuti a intraprendere la dolorosa fatica della separazione.

Il rischio di non oltrepassare l'esperienza, di restare fissati e polarizzati in essa, prigionieri di immaginazioni parassitarie, rende improrogabile il lavoro del lutto, cioè quel dinamismo di affetti e di pensieri che ci permette di far spazio dentro di noi, nel nostro mondo interno, al valore di quel legame a cui abbiamo dovuto rinunciare in senso interpersonale. Solo così il distacco e la perdita possono diventare anche un'opzione per la vita.

"Coloro che conoscono i fantasmi ci dicono che anelano a essere liberati dalla loro vita di fantasmi e condotti a riposare come antenati. Come antenati continueranno a vivere nella generazione presente, mentre come fantasmi sono costretti ad ossessionarla con la loro vita di ombre".(Hans Loewald)

Ma come possiamo essere aiutati a concedere il riposo ai nostri fantasmi? Evidentemente dobbiamo essere capaci di separazione, dobbiamo poter passare da un'esperienza di dipendenza affettiva ad una di autonomia. E forse anche da questa angolatura può risultare significativa la presenza tangibile del corpo.

Se abbiamo potuto imparare a riconoscerci negli altri senza il terrore di rimanerne confusi e imprigionati, se abbiamo potuto accedere alla nostra creatività, se abbiamo potuto giocare con le idee tanto da partecipare con godimento ad una comune esperienza culturale, di tutto ciò dobbiamo riconoscenza a quelle innumerevoli, semplici esperienze di contatto, di intense sintonie emotive in cui mamma e figlio, insieme, sperimentavano giocosamente il paradosso: stiamo bene separati - è impossibile separarci. Queste esperienze di confine in cui non bisognava forzatamente sciogliere l'enigma del punto esatto dove finisce il Me e inizia il Non-Me sono state fondamentali per i nostri equilibri psichici, e allora perché non immaginare che ancora possano venirci in soccorso quando siamo chiamati ad esperienze così squassanti?

Se ancora per un poco possiamo vivere in uno spazio potenziale dove non è urgente aderire all' inesorabile Principio di Realtà, che senza pudore e reticenze ci dichiara l'irrimediabilità dell'accaduto, se possiamo concederci una gradualità che sia più rispettosa della delicatezza delle emozioni coinvolte, se possiamo vivere un'illusione di presenza senza sentirci folli, ci proteggiamo da un eccesso di realtà accecante: per un po' ancora, però, abbiamo bisogno di un corpo, di una prova tangibile che qualcosa è rimasto e che ci concede di essere "sacralizzato".

Abbiamo bisogno di tempo, non per negare, ma per elaborare, per separarci a poco a poco da qualcosa, anzi qualcuno, che ci è appartenuto, a cui siamo appartenuti profondamente. Dobbiamo poter avere il modo di riappropriarci di ciò che di nostro gli avevamo affidato.

Vi è forse ancora almeno un aspetto che possiamo prendere in considerazione: nessun vivo sa davvero qualcosa dell'esperienza della morte. La si fa una volta sola e non c'è quindi possibilità di confrontarsi.

Ognuno, per quanto ci abbia pensato, la affronta comunque impreparato.

In effetti, per sedare il timore che sia una terribile esperienza, può solo contare su un ben misero bagaglio di supposizioni costruite "spiando", addolorato e spaventato, l'ultimo attimo degli altri. Risulta così essere di conforto potersi dire: "guarda che espressione serena, sembra che dorma…". Ma con quale livello di falsificazione possiamo tentare un pensiero del genere per le vittime della ferocia e dell'insensatezza umana? E' improponibile. Allora ecco che quei corpi profanati, smembrati, mischiati al ferro e al cemento, non più riconoscibili come umani, urlano un'altra dolorosa verità: non sappiamo nulla della morte, è un segreto che i morti custodiscono, dobbiamo affrontare davvero l'ignoto. Tutto è così ancora più tragico.

Sotto un identico cielo

La notizia
''La rabbia e l'orgoglio'': lettera da New York.
''Il Corriere della Sera'' del 29 settembre 2001

Il commento
"Esistono dei motivi per i quali la disperazione non è chiaramente riconosciuta o non se ne parla abbastanza, mentre si enfatizza eccessivamente la collera." ("Cosa accade nei gruppi", Robert D.Hinshelwood, Cortina Editore, 1989 ).

Sabato scorso, una lettera ha riempito con il suo corsivo le pagine di un quotidiano italiano: dalla città delle torri spezzate e delle morti infinite, Oriana Fallaci ha interrotto un silenzio decennale con parole feroci per l'Islam. Parole che hanno preoccupato e indignato alcuni, confortato e consolidato l'astio di molti.

Molti, sabato scorso, si sono sentiti meno soli, partecipi di una collera smisurata che chiede, che urla vendetta. Quando qualcuno urla così forte, si può affiancare alla sua la propria voce, e insieme alzare un coro così potente da far dimenticare la paura e la disperazione, e da coprire il fragore dei grattaceli che si sgretolano.

Tra la Rabbia e l'Orgoglio, la Paura e il Dolore vengono opportunamente compressi e soffocati, e con loro la fatica e la sofferenza del pensare, del permanere nel dubbio, dell'interrogarsi sul senso di quanto è avvenuto. Perché la difficoltà sta proprio nel reperire un senso: un terrorismo che si disfa indiscriminatamente e senza indugio delle proprie vittime, lascia sul terreno brandelli irriconoscibili, infangando il concetto stesso di vita e di morte, trasformando l'umano in non umano.

Non c'è un pensiero rivolto alla vittima, non c'è la scelta di una particolare vita da colpire, ma solo strage devastante e cieca, che impasta esseri umani in un immane, indistinto magma di acciaio e sangue, cemento e carne, in cui la vita e il senso di ognuno si perdono per sempre.

Scriveva qualche anno fa Christopher Bollas, a proposito della struttura del male nel nostro tempo: "Si tratta dell'uccisione, non soltanto della morte, del Sé: infatti la morte, per quanto tragica, suggerisce una fine che mantiene un suo significato…Al posto del Sé che viveva un tempo, emerge un nuovo essere, che si identifica con l'uccisione di quanto è buono, con la distruzione della fiducia, dell'amore e della riparazione." ("Cracking up", C.Bollas, Cortina Editore, 1996 ).

Ad una violenza così priva di pensiero, vuota e terribile, può corrispondere allora una reazione piena di furia belligerante, altrettanto pronta a non fare e a non riconoscere distinzioni: ad un atto terroristico senza pietà risponde un mondo ferito divenuto impietoso, che pensa e agisce, specularmente, in modo indiscriminato e magmatico.

Si parte per una guerra altrettanto santa e violenta, si allargano a dismisura i confini del territorio nemico, per essere certi di cogliere senza fallo il bersaglio. Così, il terrorismo da arginare e sconfiggere non sembra più scaturire da una frangia circoscritta del mondo islamico, ma va risolto una volta per tutte in uno scontro apocalittico tra civiltà, in cui la mors tua sarà finalmente e per sempre la vita mea.

Del resto, ancora scrive Bollas : "In questo secolo il mondo è stato testimone di due guerre che hanno polverizzato qualsiasi supposizione si potesse fare sul genere umano, lasciando in retaggio all'uomo fin de siècle una sorta di Sé seriale, che erra in una vita sempre più anonima e che è la risultante dei propri pensieri, della propria disperazione e, all'estremo, della propria ossessione omicida." ( ibidem ).

Il Terrorista, ma anche il Giustiziere, diventano così gli esecutori perfetti che operano in nome di una società che pensa in modo sempre più seriale e privo di significato.

Nella risposta urlata, che non conosce dubbio di sorta, gli uomini del terrore trovano finalmente l'Occidente che cercavano, e che sa parlare la loro lingua.

La terra e la morte
Sempre vieni dal mare
E ne hai la voce roca,
sempre hai occhi segreti
d'acqua viva tra i rovi,
e fronte bassa, come
cielo basso di nubi.
Ogni volta rivivi
come una cosa antica
e selvaggia, che il cuore
già sapeva e si serra.


Ogni volta è uno strappo,
ogni volta è la morte.
Noi sempre combattemmo.
Chi si risolve all'urto
ha gustato la morte
e la porta nel sangue.
Come buoni nemici
che non si odiano più
noi abbiamo una stessa
voce, una stessa pena
e viviamo affrontati
sotto povero cielo.
Tra noi non insidie,
non inutili cose -
combatteremo sempre.

Combatteremo ancora,
combatteremo sempre,
perché cerchiamo il sonno
della morte affiancati,
e abbiamo voce roca
fronte bassa e selvaggia
e un identico cielo.

Fummo fatti per questo.
Se tu od io cede all'urto,
segue una notte lunga
che non è pace o tregua
e non è morte vera.
Tu non sei più. Le braccia
si dibattono invano.

Fin che ci trema il cuore.
Hanno detto un tuo nome.
Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.

Cesare Pavese (1945)

Nella volontà di dare un volto riconoscibile e univoco al Male, si perde di vista l'atroce gesto terrorista e ci si rivolge con smisurata violenza contro il Diverso, sentito, in quanto tale, capace di ogni colpa.

Non sembra necessario fermarsi e cercare di comprendere le ragioni dell'odio, se si può semplicemente scatenare la propria rabbia e la propria paura su chi non si riconosce come identico a sé. Il musulmano diventa l'Altro, e dunque è il Nemico: è colui che ci mette in pericolo con la sua stessa esistenza, e per questo, va annullato.

In risposta alle migliaia di vite annientate nelle Torri, ma soprattutto per arginare il terrore della perdita di una propria identità precisa, compatta e idealizzata, si fa strada la tentazione di cancellare risolutamente qualcosa come un miliardo di abitanti del pianeta.

Il progetto della crociata sa essere di vero conforto, per la mente che non tollera la contaminazione. Così l'uomo - cristiano, giudeo, musulmano - finisce per andare in giro, come scriveva Money-Kyrle, con le tasche piene di dinamite.

Lo sforzo volto a compiere un'integrazione rappresenta davvero un'impresa immane, si sa: sia se ci riferiamo al mondo interno dell'individuo, sia se parliamo in termini di identità nazionale. La tolleranza è sicuramente più difficile da esercitare dell'intolleranza e del rifiuto.

Ma fuori dalla logica degli olocausti, dei roghi dell'Inquisizione, della frammentazione del Sé, è la sola strada che vogliamo pensare si possa ancora percorrere.

Su Micene lo stesso cielo di Troia, ma vuoto. Luccicante di smalto, inaccessibile, terso. C'è qualcosa di me che corrisponde al vuoto del cielo sul paese nemico. Finora tutto ciò che mi è accaduto ha trovato la sua corrispondenza dentro di me. Questo è il segreto che mi attanaglia e mi sorregge, e non sono mai riuscita a parlarne con nessuno. Solo qui, sul limite estremo della vita, posso nominarlo: poiché c'è qualcosa di ognuno dentro di me, non sono mai stata completamente di nessuno, e sono arrivata a comprendere persino l'odio che provavano per me.