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La cattura del tiranno

La notizia
Il trofeo! La barba lunga e arruffata, lo sguardo spento, una valigetta piena di dollari e armi che non ha usato. Saddam Hussein è stato catturato da 600 soldati americani. Era nascosto in una tana scavata vicino a Tikrit, è stato tradito da una soffiata. Tra gli iracheni entusiasmo e attentati, due solo ieri. Esulta Bush con tutti gli alleati: «Un'era oscura è finita». Ora l'ex rais sarà processato. Da chi e dove, non si sa.

Il Manifesto, 15 dicembre 2003

Il commento
In queste ore c’è poco spazio per l’immaginazione: le colonne dei quotidiani e tutte le fonti d’informazione sono popolate, assiepate, saturate dal volto del Rais.

Non ce lo aspettavamo più, forse davamo per scontata una latitanza infinita come quella di Bin Laden o quelle più italiane, cui ci hanno abituato i nostri capi mafia. Quasi equilibrio acquisito, era parte ormai della nostra geografia quotidiana il pensiero che, da qualche parte, in una dacia russa o addirittura nel cuore dell’America, ci fosse lui, la personificazione del male del nostro tempo.

Invece messaggi e immagini rimandano le scene della cattura e un volto inconsueto di dittatore: barba lunga, tratti scavati, ferite, occhi timidi come quelli di un bambino. E poi le immagini del rifugio, spazio angusto e ripugnante per quanto racconta di povertà, paura e solitudine. Scappato con una valigetta di dollari, come il più comune ed oscuro dei malfattori.

Un articolista scrive: “Così l’America – e noi con essa – passerà un tranquillo Natale. Soddisfazione e sollievo, infatti, esprimono i commenti unanimi di tutti i Capi di Stato europei; il presidente degli Stati Uniti, che gioca affettuosamente con il suo cane in un delicato paesaggio innevato, non cela il suo compiacimento.

Eppure le immagini viste non corrispondono ai pensieri che abbiamo coltivato e conservato per molti anni. Sembra impossibile, ma evidentemente i nostri ideali, anche quelli negativi, ci sfuggono sempre di mano. A contatto con la realtà, si trasformano e si degradano inesorabilmente; la realtà svilisce tutto, rende opaco ogni argento, sommesse tutte le luci.

Non è il Rais che volevamo catturare, “non si cattura così un capo dell’Islam”, commentano a Bagdad le persone intervistate e non è certo per stima o gratitudine che gli iracheni vogliono continuare a pensare Saddam libero. L’uomo vinto e ferito esposto agli sguardi del mondo, è inaccettabile anche per noi, distrugge un protettivo sogno di potenza e di invincibilità.

Se c’è solo un uomo dall’altra parte del mondo, il male si fa più diffuso e vicino. Se non c’è più un tiranno sanguinario e violento, la nostra avidità altrettanto violenta diventa più visibile, ora che i messaggi sconcertanti della cattura non la contrastano più a sufficienza.

I preziosi arredi dei palazzi di Saddam sono stati fatti a pezzi, come a Versailles, dalla furia del popolo. I nostri oggetti di valore, invece, i nostri “lustrini”, sono collocati in ordine nelle vetrine, fotografati nella giusta luce di ammirazione, simbolo di un potere assoluto sul tempo e sulla contaminazione. Sono i nostri beni di culto, scaldati al fuoco del nostro desiderio di immortalità e dal petrolio iracheno.

Abbiamo ragioni per essere violenti. E’ una questione di sopravvivenza, continuare ad alimentare un sogno di perfezione nel quale solo possiamo riconoscerci, unico antidoto da opporre all’anonimato di una vita seriale, abbandonata e corruttibile.

Questo potrebbe essere il nostro più autentico terrore e il nostro più profondo bisogno: non sapere nulla, allontanare i segni della caducità che ci condanna ad un tempo senza sbocco, la temporalità dell’inferno. Che ci confina nella perdita di ogni fiducia e ci consegna ad una follia del reale dove niente ha più senso, dove sperimentiamo la nostra stessa morte emotiva.

Anche perché morte e precarietà risuonano come i segni di un tragico fallimento: non siamo per sempre desiderabili agli occhi degli altri, non sappiamo tutto il sapere, non abbiamo neanche il tempo per ottenere il nostro riscatto. Questo certamente è tragico perché, sotto il peso della frustrazione, i fallimenti interni, nascosti e dimenticati in pensieri di seconda fila, possono tornare violentemente alla ribalta per inchiodarci, con furia inaudita, ad una condanna implacabile.

Una condanna che ci consegna ad una intollerabile, disperata e spaventosa identità negativa di noi stessi.

Osserva Meltzer “La tirannia è piuttosto una perversione sociale per difendersi dalle ansie depressive e per attuare un commercio di oggetti interni apparentemente mutilati e senza speranza”. Il tiranno, con un’azione potente perché violenta, annienta i pensieri di rovina, li copre e li vince con maestosi sogni di gloria. Per fortuna da qualche parte c’è chi non si fa prendere dall’incertezza e dalla paura, qualcuno che non è come noi, eternamente insicuri, fragili, incompiuti.

“La persona malvagia cerca qualcuno che sia in stato di necessità e gli si presenta in vesti benevole. Pur essendo esitante nell’accettare il contratto, è comunque convinto di potere trarre beneficio dallo scambio”.

Così ci dice Bollas parlando del modo in cui i serial killer convincono le loro vittime a seguirli. Ora che dall’altra parte del mondo c’è un uomo sconfitto e prostrato, più evidenti ci risultano i segni delle altre tirannie cui diamo il nostro consenso e che governano quotidianamente la nostra vita. Il lusso patinato delle riviste, le mille bibbie del nostro tempo, sembra poter essere difeso solo dall’idea di un occidente lungimirante e benevolo che rafforza i confini del paradiso terrestre per non essere invaso e degradato dalla barbarie del bisogno di chi non ha niente.

Nemmeno del nostro bisogno può tenere conto, anch’esso barbaro e spaventoso nella sua voracità e nella sua rabbia.

Il paradosso per noi, allora, è che tutte le nostre capacità costruttive – la pazienza, l’abnegazione, la possibilità di conservare la speranza – consegnano il frutto del loro lavoro al il mantenimento di un sistema violento prima di tutto conto noi stessi.. I sacrifici e la sopportazione delle reali difficoltà sono quasi passati sotto silenzio, affinché l’unico aspetto visibile sia quello di un successo brillante, semplice da ottenere, imperituro. Ma questo, dicevamo, potrebbe essere il nostro desiderio più profondo, la base del nostro patto con il diavolo.