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La nostalgia del grande inquisitore

La notizia
Il professor Giorgio Agamben è venuto a conoscenza, attraverso la lettura dei giornali, di come i cittadini stranieri che si recano negli Stati Uniti con un visto, debbano essere schedati e lasciare le loro impronte digitali all'ingresso nel paese. Per protesta contro tale procedura, ha annullato il ciclo di lezioni che doveva tenere il prossimo marzo presso la New York University. Il professore, docente di estetica all'Università di Verona e di Macerata, insegna filosofia al College International de Fhilosophie di Parigi e da anni collabora con l'Ateneo americano. É, quindi, con un malcelato rammarico che si è visto costretto ad annullare l'impegno preso.

La Repubblica, 8 gennaio 2004

Il commento
L'accorato appello del professor Giogo Agamben sembra un po' fuori campo rispetto alle notizie che i quotidiani ospitano in questi faticosi giorni di inizio anno. Sopraggiunti dall'inesorabile scorrere del tempo ed impegnati in un nuovo bilancio esistenziale, riusciamo a farci colpire più facilmente da notizie che speravamo, forse, di non ritrovare più: si muore sempre di guerra, si muore ancora di immigrazione, miliardi e miliardi – quell'opulenza straripante da cui ci sentiamo sempre più separati – spariscono in posti poco rassicuranti che suonano "isole Caiman".

A noi, alla nostra realtà, restano le proteste per salari che non danno da vivere, ironia, proprio nell'era del consumismo, dove la pubblicità ci ringrazia per gli acquisti che dovremmo fare. Non a caso, forse, la notizia battuta all'unisono da tutti i mezzi d'informazione, con dovizia di dettagli, raccomandazioni, mappe dei negozi aperti anche la domenica, è quella dei saldi invernali. Mai come quest'anno l'evento ha avuto una risonanza così ampia, forse per la prima volta assurta a titolo di testa, ultima consolazione sociale, il nostro residuo angolo caraibico di paradiso terrestre.

Tutto questo poco sembra collegabile con le preoccupazioni di Agamben che ci parla di una lontana America, ora più che mai impegnata a gestire sospetto e timore nei confronti di uno straniero potenzialmente distruttore.

Ma in realtà il professore, nella sua denuncia, parla ancora dello stesso mondo in cui siamo, di qualcosa che, accadendo in sordina, senza parere, finisce per cambiare la natura stessa del contratto sociale. Osserva Agamben:

"Ormai da anni, in modo prima occasionale e subliminale e poi sempre più esplicito e insistente, si cerca di persuadere i cittadini ad accettare come normali dispositivi e pratiche di controllo (la schedatura elettronica delle impronte digitali e della retina, il tatuaggio sottocutaneo, ecc.) che sono stati sempre considerati eccezionali ed inumani. [...] Le ragioni di sicurezza che vengono adottate per giustificarle non devono trarre in inganno. L'esperienza insegna che le pratiche inizialmente riservate agli stranieri, vengono poi estese a tutti".

Con sorpresa, ci troviamo a considerare l'italianissima innovazione burocratica relativa alla produzione dei documenti d'identità. Le nuove "carte", in tutto simili a quelle di credito, più moderne ed accattivanti, prevedono la presenza delle nostre impronte digitali condensate in un grazioso ologramma insieme agli altri dati personali. L'eleganza occulta il segno indelebile del nostro corpo consegnato, con indifferenza, agli schedari informatizzati. Quel segno è anche l'unico elemento che interessa: ad un rinnovo di documento, per esempio, vengono semplicemente acquisite le informazioni precedenti, al di fuori dell'esatto indirizzo di residenza. Tutto il resto sembra intercambiabile, persino il nome pare diventare obsoleto accessorio.

Allo stato, cioè a noi, non importa più sapere chi siamo, la nostra professione, i segni della nostra identità fisica osservabile. Interessano le nostre impronte digitali. Per lo Stato, ossia per noi, ogni cittadino è tristemente pensato solo in quanto può non rispettare le regole che vigono nella società; questa non collaborazione diventa dato di fatto, assunto di base, criterio definitorio, rispetto al quale cautelarsi opportunamente.

Per lo Stato siamo tutti stranieri, tutti terroristi in attesa del prossimo attentato.

Non solo questo processo, come dice Agamben, "non riguarda più la partecipazione libera e attiva alla dimensione pubblica", ma si pone in direzione diametralmente opposta. Non siamo più piccola porzione della società nella misura in cui ne condividiamo gli scopi e collaboriamo alla sua salvaguardia; siamo strutturalmente nemici da trovare ed incriminare, all'occorrenza, nel più breve tempo possibile.

Il bene della società, per contro, è conosciuto, incarnato e difeso solo da coloro che esercitano il controllo, protettori di giustizia e verità contro la barbarie, quella barbarie che noi rappresentiamo. Per lo Stato siamo solo dei bugiardi, persone che formalmente si dicono cittadini, ma disposti, di fatto, solo alla contravvenzione della legge, alla cura del proprio immediato interesse, all'estorsione, all'omicidio.

A nessuno viene in mente – ridicolo tentativo per la salvezza delle apparenze – di chiedere una collaborazione ed una libera scelta dal momento che queste sarebbero solo menzogna. Per non perdere tempo, per proteggersi da delusioni, per fare prima, si chiedono le impronte digitali. Con il nostro pensiero e con i nostri desideri non si vuole più avere niente a che fare. Osserva ancora Agamben:

"Il paradigma politico dell'occidente non è più la città, ma il campo di concentramento, non Atene, ma Aushwitz. [...] È probabile che il tatuaggio ad Aushwitz apparisse come il metodo più normale ed economico di regolare l'iscrizione dei deportati nel campo. Il tatuaggio biopolitico che oggi ci impongono per entrare negli stati Uniti è la staffetta di quello che domani potrebbero farci accettare come l'iscrizione normale dell'identità del buon cittadino nei meccanismi e negli ingranaggi dello Stato."

In effetti, per i tedeschi di Aushwitz, gli ebrei e tutti i deportati avevano cessato di essere delle persone, non potevano venire considerati come interlocutori e nessun interesse rivestivano le loro attività, pensieri, doti, meno che mai legami affettivi. Erano creature inferiori, da sempre invidiosamente e avidamente contro il bene comune; erano volti di una sola menzogna e il tatuaggio diventava la loro unica forma di identità possibile. Si classificavano le infinite forme di un unico essere. Perché perdere tempo con l'inesistenza?

I deportati di tutta Europa, gli ebrei di allora come noi oggi, erano un'unica bugia dell'umano.

Secondo Bion, colui che mente è qualcuno che conosce la verità, ma la occulta intenzionalmente e ad essa oppone una proposizione falsa per difendersi dalla verità che appare inaffrontabile, troppo cruda e dirompente, tale da distruggere l'equilibrio mentale.

Potremmo pensare che lo Stato partecipa a questa difesa, ci protegge, come fragili bambini, dall'impatto con le cose vere e si incarica, per noi, di gestire questo peso. Si aumentano solo le misure di sicurezza per lasciarci ai nostri giochi.

Ma se lo Stato siamo noi, varrebbe la pena di chiedersi coma mai ci riteniamo così fragili da attuare, nei nostri confronti, procedure da campo di concentramento. Come mai la disistima e la sfiducia per noi stessi sono cosi massicce ed inappellabili.

Forse quelle immagini di miseria e di spavento del cosiddetto sud del mondo, bambini senza casa, macerie, occhi troppo grandi per la fame e la paura, perseguitano segretamente, martellanti, le nostre coscienze, al punto da indurci a volere scontare una pena liberatoria in patria, lasciando che la nostra casa si trasformi in cella di rigore, nella nuda essenzialità dell'orrore del lager.

Forse ci condanniamo persino per lo scorrere del tempo, cui non sappiamo opporre nessuna certezza emotiva. É il vuoto interiore di un comprare e consumare, unico elemento in cui si sostanzia la nostra attuale identità seriale di cittadini. Un vuoto che ci travolge, che diventa il timore di essere niente e di non poter mai essere niente e siamo pronti a svendere ogni speranza ed ogni amore.

Alla fine, ne possiamo anche essere lieti. Ci condanniamo a rimanere vivi il meno possibile per non portare il peso della nostra umanità e ci consegniamo, come criminali, ad un sistema che deve controllare, per noi, l'irrompere della verità.

Meglio criminali che uomini, meglio malfattori che liberi cittadini cui non resta che partecipare, costruire il sogno di un bene comune, soffrire e morire. Anche i criminali muoiono, ma forse non lo sanno di preciso, visto che il loro pensiero è catalizzato dal desiderio di inganno e di rapina. Quasi un risarcimento in anticipo su ogni delusione e su ogni finire.

Il tragico di tutto questo è che tali drammi interni a volte, come nel nostro caso, non si limitano a rappresentare un momento del nostro stato emotivo da bonificare nella sua distruttività, ma vengono direttamente rappresentati, incarnati nel reale, come se lo spazio della coscienza non fosse stato sufficientemente grande da contenerli.

Con il problema, poi, che la realtà, per noi e per gli altri, diventa effettivamente nientificante e procede ad un ulteriore impoverimento delle nostre vite.