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Il peso della povertà in tempo di opulenza

La notizia
L’articolo di Michele Smargiassi tenta di fotografare quello che sta accadendo nelle famiglie italiane alle prese con il difficile compito di metabolizzare l’aumento del costo della vita che, con marcia inarrestabile, è iniziato a salire con l’avvento dell’euro e non si è più fermato, da allora ad oggi. Quali conseguenze comporta questo evento sul piano della percezione di se stessi e della realtà sociale in cui si vive?

La Repubblica, 9 marzo 2004

Il commento
È un dato molto recente – pochi anni – quello dell’aumento vertiginoso del costo della vita, inatteso elemento di cui tenere, con fatica, conto e memoria. Talmente inatteso che sembra non essere nemmeno del tutto reale: una difficoltà destinata a risolversi e dissolversi in breve: questo può essere lo stato d’animo immediato, sostenuto dai dati ISTAT che parlano di immutate condizioni economiche, di allarmismi esagerati ed ingiustificati dei comitati consumatori, al servizio di forze politiche tese solo a creare, distruttivamente, malcontento e inquietudine. Ma il passare del tempo sta sedimentando e testimoniando una realtà diversa con la quale sembra difficile entrare in contatto, difficile persino da dire e da descrivere.

Michele Smargiassi ha scelto di fare parlare direttamente i protagonisti, arrivando al dettaglio crudo e concreto del nome e cognome, ha scelto la voce delle persone – tante – delle più diverse parti d’Italia, voci che ci arrivano anche dai luoghi tradizionalmente associati con la diffusione del benessere. Una scelta aggressiva, per certi versi, forse l’unica ritenuta adeguata a svolgere un ruolo di contrapposizione rispetto alle frequenti comunicazioni ufficiali che insistono sul “nulla è cambiato”, a volte persino recitano di insperato insieme di esclusivi vantaggi.

Non è vero che accade ciò che accade: è l’immdiatezza dell’esperienza ad essere annullata in una vertigine destabilizzante. Vertigine che si muta in ombra morale: allora dipende da me, ho le mani bucate, non so regolarmi e limitarmi, sono malato di un’emorragia non visibile, silente, del tutto mortale.

Smargiassi, sull’altro piatto della bilancia, sceglie di mettere i nomi e cognomi, il peso delle storie e delle esistenze. Paola Gambino, dipendente di un’azienda tessile di Vercelli, percepisce 900 euro al mese e il suo compagno, tecnico qualificato, 1500. Non male, un tempo, ma ora la gestione è difficile: un mutuo, un bambino piccolo … “A gennaio ho deciso di rimandare di un mese il bollo auto, meglio pagare il 3% di mora che non il 6% di scoperto sul conto in banca.”

Loredana Risso, impiegata parastatale, cerca un secondo lavoro per arrotondare il 1250 euro suoi e quelli quasi uguali del marito, mamma a carico e mutuo “firmato quando credevamo di potercelo permettere.” I soldi non bastano mai.

“Nel corso del mese si arriva dove si arriva – dice Marco Minghetti – poi, per sbarcare sulla terraferma dello stipendio, si fa il salto in lungo.”

Sonia Agostani è la responsabile amministrativa di una fabbrica di ventilatori industriali di Nova Milanese e fa le busta paga per 110 dipendenti. “Solo qualche mese fa, erano poche le persone che chiedevano anticipi. Ora sono più di venti e temo che aumenteranno. Si vede che è una cosa inconsueta per loro, sono imbarazzati, ritengono di dovermi dare delle spiegazioni.”

Tagliare il superfluo è la parola d’ordine, ma la sensazione è quella di vivere solo per lavorare e per pagare le bollette. Nei newsgroup di internet fioriscono i consigli per risparmiare, mentre sistematica si è fatta la caccia a saldi ed offerte e prezioso si rivela avere degli amici cui chiedere qualche prestito nelle ultime settimane del mese.

Un sottobosco di rimedi ed espedienti si è teso come improvvisata rete di sostegno, ma tutto è ancora confinato nel non detto, nel non ufficiale, nel non esistente. Troppo pesante, forse, è sentirsi, di colpo, assimilati, per modi e costumi, all’aerea della marginalità sociale, dove nulla, per scelta o per interna fragilità, può essere sicuro e continuativo.

Il sociologo De Masi così commenta i dati di Smargiassi: “Già Marx osservava che il proletariato non è chi non ha il necessario oggi, ma chi teme di non averlo domani. Attualmente, questo cambia l’autopercezione che le famiglie hanno di se stesse.”

È l’immagine di sé che subisce il contraccolpo doloroso di un’inaccettabile ferita. Non bastare alla propria vita diventa, inevitabilmente, motivo di inesorabile processo e di conclusiva, inappellabile, sentenza di fallimento. La conferma inattesa di tutti i dubbi, così faticosamente combattuti e contrastati, circa il proprio valore e la fiducia nelle personali capacità. La conferma di una identità negativa che condanna ad una esistenza dimezzata, deprivata e derubata. Solo una sciocca speranza ha permesso di immaginare la possibilità di realizzazione affettiva ed umana, ed è stato stolto abbandonarsi, come bambini, senza remore ed incondizionatamente, ad un sogno disperato nella sua follia. Non dovevamo dimenticare la nostra invincibile, geneticamente strutturale, inadeguatezza alla vita. Abbiamo anche sprecato la speranza di generazioni, di padri e madri che hanno visto crescere con noi, l’amarezza della definitiva disillusione.

È un effetto a catena sulla china dell’insicurezza e dell’autosvalutazione.

Anche perché, nello stesso quotidiano, sono ampiamente riportate le notizie delle sfilate di moda di Parigi e di Roma e descritte in dettaglio le scelte sofferte di Valentino, come quelle di Ford che abbandona per sempre la casa di Saint Laurent. Le borse di Prada offrono le loro ultime creazioni, metà pagina ospita la notizia del salone degli antiquari a Stpinigi, una fotocamera digitale rimanda il suo luccicare su una carta di credito che permetterebbe rapidi acquisti.

La sensazione di inadeguatezza è ancora più pesante: non siamo quello che dovremmo essere. I soldi che non bastano diventano il segno infamante di diversità e di minorità.

Osserva ancora De Masi: “Gli italiani non stanno programmando la propria discesa realistica nella scala sociale, stanno solo cercando di resistere e non vedono l’ora di risalire.”

I conti che non tornano sono solo qualcosa da nascondere perché segno di una mancata normalità, sinonimo di debolezza e di ammorbante bisogno. Salvare le apparenze, nonostante tutto, può essere l’unica soluzione possibile.

L’immagine di quell’uomo bianco, europeo, occidentale che tutti dovremmo essere continua ad imporsi con violenza perentoria. Un uomo che ha istruzione universitaria, viaggia su macchine scintillanti che sanno dire dove ci si trova e che tempo farà, vive in ville ovattate da parchi e giardini e non conosce la fatica abbruttente del contatto con la materia: un puro, seducente, ricchissimo spirito.

È difficile reggere un tale sfolgorante ideale. Al di là dell’apparenza che si tenta di salvare, ci sono risorse che non bastano più per vivere, c’è il dissennato utilizzo dei beni della terra, la povertà spaventosa, ferita e disperata di chi sta nell’altra parte del mondo.

Al di là dell’apparenza, confusione ed angoscia possono espandersi a dismisura. Il prezzo, a volte, è tragico: piuttosto che rendere manifesta una povertà sentita come disonorante, si preferisce rinunciare alla vita stessa. Anche di questo parlano i quotidiani.

È esigente sino alla consumazione estrema, il nostro luccicante ideale.

Esigente sino ad indurci a continuare a tributare ammirazione e consenso nei confronti di chi sembra riuscire ad ottenere tutto quello che vuole, appagare ogni desiderio senza sottostare a limitazione alcuna, scivolando lieve sulle ore dei giorni, incontaminato da fatica e dolore. Essere quello che vorremmo essere e non siamo.

Sogno ammaliante per il quale finiamo con il non difendere nemmeno più i nostri diritti, segno di un vergognoso ed inammissibile limite.

Infatti, in questi giorni, a Genova, ha fatto rumore l’omelia pronunciata dell’arcivescovo Tarcisio Bertone, in occasione della festività di S. Giuseppe. L’omelia riguardava proprio il mondo del lavoro, presentato nei suoi aspetti di criticità.

“Molti di quelli che riescono a lavorare a Genova, svolgono occupazioni a tempo determinato: questa condizione rende difficile l’assunzione di responsabilità sociali stabili. […] La disoccupazione e le forme di precarietà colpiscono innumerevoli cittadini mentre, secondo i principi di giustizia, bisogna che tutti partecipino ai benefici come alle difficoltà.”

“Per questo, continua l’arcivescovo, con molta chiarezza desideriamo affermare che è inaccettabile il permanere di stipendi ingiusti ed inadeguati; che vengano imposti orari di lavoro inconciliabili con il bisogno di riposo; che si abusi della precarietà del rapporto lavorativo o si sfrutti il lavoro nero od irregolare.”

Non sono parole particolarmente sorprendenti nel loro significato: è l’amara denuncia di una situazione cittadina nella quale, facilmente, si può riconoscere non solo il nostro paese, ma l’intero mondo industrializzato. Il pensiero corre a quei non pochi giovani americani che sempre più frequentemente ricorrono alle mense della Caritas internazionale e ai dormitori pubblici per poterne riemergere, durante il giorno, in giacca, cravatta e valigetta ventiquattrore.

Non sono le parole dell’omelia, piuttosto è lo stupore che le ha accolte che ci sorprende. Si è parlato di rigore, di coraggio, proprio quel coraggio, forse, che sentiamo di non avere di fronte ad un’immagine di noi che ci coglie con sgomento, quasi anacronistica memoria di una primitività imperfetta e dolorosa che credevamo di avere per sempre eliminato.