Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorarne l'esperienza di navigazione e consentire a chi naviga di usufruire dei nostri servizi online. Se prosegui nella navigazione acconsenti all'utilizzo dei cookie.
Per maggiori informazioni leggi la privacy policy e la cookie policy presenti nel sito.

Democrazia e tortura

La notizia
In questi giorni, la morte di Antonio Amato si aggiunge alle notizie sempre più terribili che ci giungono dal conflitto iracheno. Questa volta, la vittima non è un soldato, ma un civile spostatosi in Arabia Saudita per ragioni di lavoro. A 35 anni Amato aveva, infatti, deciso di recarsi nel paese arabo per lavorare come cuoco nel residence Oasis Resort; era lui a dare l'impronta italiana al ristorante Casa Mia, appartenente al lussuoso complesso alberghiero.

La Repubblica, 30 maggio 2004

Il commento
Pochi giorni fa, a Genova, si sono celebrate le esequie di Fabrizio Quattrocchi. Nell'omelia funebre, l'Arcivescovo invitava a leggere come segno di speranza e di possibile dialogo, la restituzione del corpo del nostro connazionale. Purtroppo, come sappiamo, quest'invito si è rivelato difficile da mantenere a causa delle notizie, giunte solo poche ore più tardi, relative all'attentato in Arabia Saudita. Un attentato che ha comportato l'uccisione di quanti erano stati catturati e, tra essi, l'italiano Antonio Amato.

«La barbara uccisione del giovane è un crimine efferato che scuote la coscienza degli italiani», ha scritto il presidente della Repubblica nel suo messaggio di cordoglio alla famiglia, sottolineando la necessità che «diritto e legalità internazionale prevalgano sull'odio».

Sempre maggiore è la preoccupazione per l'incalzare di avvenimenti che rimandano ad un non previsto, costantemente più ingovernabile, certamente tragico, scenario di guerra.

Doveva essere, per l'immaginario collettivo, uno scontro rapido e risolutivo, preciso in modo millimetrico, orientato ad estirpare il "male" di una tirannia per restituire un paese alla sua dignità e ad una disponibilità non aggressiva nei confronti dell'Occidente. Qualcosa quasi di asettico, dunque, guerra dal cielo, combattuta da soldati visti come l'incarnazione di un ordine di superiore giustizia che si risolvevano a quel gesto per sollevare l'umanità, e soprattutto gli iracheni, dai residui di una barbarie lacerante. Ancora oggi ritroviamo nella memoria le immagini dei soldati americani che sottraggono alle bombe e proteggono dal fuoco della trincea i soldati dell'opposta fazione, quegli stessi uomini che erano andati a combattere.

Icona perfetta che l'Occidente cercava di dare di sé.

Oggi, a solo un anno di distanza, le cose sono molto diverse; la sensazione più diffusa è quella della discesa agli inferi in una guerra vera, da combattere corpo a corpo.

«Sta diventando sempre più chiaro – scrive Domenico Starnone sul Manifesto – che non basta piegare la resistenza di uno stato, dopo un'esibizione di muscoli. Bisogna dispiegare un vero e proprio esercito, fare fuoco e fiamme tra cielo e terra per imporre a tutti, ai singoli corpi di molti sparsi nemici, quasi uno per uno, la disciplina dell'occidente, i suoi valori, le sue urgenze, le sue necessità».

Torna inevitabilmente alla memoria il capitolo pesante e tragico del Vietnam. Qualche tempo fa su Repubblica è comparsa l'intervista ai due veterani che nel 1968 si opposero alla strage di May Lai. Dichiarava uno di questi, Lerry Colburn:

«Sono felice di essere sopravvissuto perché evidentemente, finchè sono vivo, potrò continuare a dire ciò che penso da quella mattina del 16 marzo. Che non può che finire decisamente male quando pretendi di portare la democrazia in un paese di cui non sai nulla. Di cui non conosci nulla. Di cui non ti importa nulla».

La situazione attuale, purtroppo, non sembra molto diversa da quella di allora. Siamo andati in Iraq sulla base dell'esistenza di minacce che non è stato possibile verificare e confermare, sostanzialmente sotto l'egida di un falso posto come copertura di altro progetto, mirante a salvaguardare interessi politici ed economici. Salvaguardia, tra l'altro, che si è immaginato di poter compiere in un limitatissimo spazio di tempo.

Il sogno della guerra lampo ha continuato a sedurre le menti. Pensare che in un breve periodo, senza quasi perdite interne, ci si possa impadronire di terre ed uomini, sostituendosi dall'esterno ai vertici del potere per governare secondo la propria volontà, acquisendo ricchezze e risorse, liberi dal peso di conoscere un popolo, vissuto solo come massa di anonimi sottoposti … Sogno mai sopito che, ci verrebbe da pensare, se gli esseri umani fossero fatti in serie come in molta letteratura fantascientifica, sarebbe persino possibile realizzare.

Forse, però, un sogno di questo tipo affonda la sua possibilità di venire sognato anche nella bugia che precede l'ultimo nostro intervento bellico.

Se davvero il nostro scopo fosse stato quello di riportare la democrazia, rimuovere un tiranno sostenitore ormai di uno stato di terrore non più solo nazionale, non ci saremmo potuti esimere dall'entrare in contatto e dal dialogare con coloro che erano più direttamente coinvolti in quell'orrore, gli uomini e le donne dell'Iraq, da tempo sottoposti alla pesantezza del regime. Ma il nostro scopo non era – e non è - propriamente questo, aveva le sue radici in altri bisogni ed eventi, certamente anche in quell'11 settembre di tre anni fa che brucia indelebile nella memoria. Ricordo di una catastrofe che, ora come allora, blocca il pensiero, lasciandolo libero di procedere a rapide e terribili semplificazioni.

Le semplificazioni note ad ogni propaganda e ad ogni guerra che sembrano togliere, di colpo, il peso della fatica di comprendere. Tutto, infatti, pare farsi improvvisamente chiaro e il pensiero apparentemente procede sotto il sigillo di un'indubitabile verità; ci sono dei "nemici" del tutto inaccessibili nella loro malvagità, ci sono dei "buoni" che si devono difendere da quella assoluta forza distruttiva. Il fatto tragico, l'orrore non pensabile, rende possibile una diversa distribuzione della negatività che subisce un brusco accorpamento: non più diffusa ed ubiquitaria, peso per ciascuno, ma quantità raggrumata in un preciso luogo geografico, in una singola persona, in un gruppo, in una razza.

Forse è in questo punto preciso che nasce l'uomo seriale: la realtà delle persone si fa infinitamente lontana, per essere sostituita da categorie astratte: il malvagio, il menzognero, il distruttore. Ancora una volta, tutto è chiaro; non c'è più nessuno da conoscere, ma solo qualcuno da eliminare.

Ma ad essere annientato, in realtà, è il legame emotivo con l'altro.

E se l'altro non è più, come dice Pavese, "qualcuno che ci somiglia", è possibile, semplificando, depositare in lui ogni male, sospendere e sostituire il pensiero con l'azione. Un'azione che cancelli l'ingiustizia.

L'attacco al WTC ha permesso, all'America e all'Occidente, di procedere alla semplificazione e alla distribuzione del male di cui stiamo dicendo; ha concesso di pensare che esisteva una guerra diversa dalle convenzionali, da condursi con nuove armi e che i terroristi erano "combattenti illegali", privi, per questo, del diritto di venire difesi dalle leggi internazionali.

Forse è questo il punto che ci ha inchiodati ad una guerra che mostra di noi, nonostante la propaganda, un inaccettabile volto brutale e violento. Forse è questo il punto della discesa agli inferi nell'orrore della tortura.

La completa depositazione dell'immoralità in qualcuno di esterno, muta questi in "non uomo", in oggetto di totale appartenenza di chi, catturandolo, non può che limitarsi a distruggerlo.

Tali coordinate rigide e schematiche fanno si che le condizioni particolari della cattura si rivelino terreno friabile per chi lo percorre, sottile linea di confine nel contenimento della violenza.

In effetti, chi viene fatto prigioniero, si trova in uno stato di assoluta disparità di forze e di dipendenza totale rispetto a coloro che lo tengono sequestrato; in qualche modo, diventa proprietà di chi lo custodisce, potenzialmente determinabile in modo completo. Non c'è più nulla che possa fare in modo autonomo e, se questo succede, è solo per concessione. Si crea lo spazio di una possibilità totale nei confronti dell'altro, non più segnata dai limiti di realtà diverse che si incontrano.

Una condizione come questa è molto simile a quella che ogni essere umano vive quando viene al mondo, dipendente completamente com'è per la sua sopravvivenza dagli adulti che lo circondano.

A fatica, riusciamo ad immaginare l'intensità che i sentimenti possono raggiungere in una così totale dimensione di impotenza. Un ritardo per il pasto, una solitudine che si prolunga eccessivamente, tutto può diventare qualcosa di intollerabile, volto e segno di un abbandono senza rimedio, anticipo di una precoce morte, esposizione ad un orrore per cui non esiste nemmeno il nome.

Nell'assenza di risorse proprie, il piccolo essere umano non può che fidarsi ed affidarsi ad una realtà pensata come benevola e portatrice di salvezza. Tutte le volte che questa fiducia viene disattesa, a livello emotivo il trauma è devastante. Il mondo non è più spazio arricchente, ma incubo senza uscita che inchioda ad una lenta agonia.

L'incarcerato, il prigioniero, inevitabilmente rende nuovamente quasi tangibile per tutti la lontana, ma mai dimenticata fragilità delle origini.

In tal senso, allora, ferire, denudare, umiliare e tutte le altre varie forme di tortura sembrano ricreare all'infinito l'orrore di un mondo malevolo che non custodisce, ma distrugge ciò che a lui è stato affidato. Sembra ricreare il dolore senza limiti dell'attesa di una carezza riempita dall'inspiegabile bruciare di una percossa. E sembra volere deridere all'infinito quella sciocca ed ingiustificata fiducia nella bontà e nell'accoglienza del reale.

Forse un desiderio profondo di liberazione è proprio questo: far vivere e rivivere ad altri l'onta indicibile di una intollerabile dipendenza impotente, l'attesa infamante, sciocca e cieca di un affetto mai arrivato al cuore, nonostante la fede assoluta che, al tempo, abitava nei nostri cuori per quelli che allora erano i nostri dei, re e regine incondizionatamente amati.

Introdurre a forza qualcun altro in quel tempo malefico, quando la sofferenza mentale distrugge il significato prezioso dello scorrere dei minuti come progresso, sostituendolo con un precipitare incarcerante e disumanizzante, senza sbocco, senso o speranza.

Mettere tutto questo in altri e trionfare nella liberazione, ripristinando un'immagine di sé priva dell'abbandono, della minorità e della disillusione.

Già Pietro Verri nel 1776 nel suo saggio Osservazioni sulla tortura, lodava Maria Teresa d'Austria per aver avuto la grazia di abolire questa pratica, sottolineando come solo i popoli arretrati la usino. Nel corso del tempo, la legislazione e le convenzioni internazionali hanno cercato di porsi a difesa dell'integrità morale di chi combatte. A più di due secoli di distanza, quello che è accaduto in Iraq testimonia quanto sia profonda la tentazione cui l'uomo si espone nel momento in cui si trova ad agire in uno scenario di guerra.

Dovevamo essere i salvatori, portare la buona novella della democrazia, sconfiggere il tiranno che aveva come suoi strumenti abituali di governo la brutalità, la coercizione e l'omicidio ed invece siamo inchiodati da immagini che ci ritraggono mentre oltraggiamo uomini inermi.

Immagini forse persino spudorate, di chi si sente tassello di un potere ineguagliabile, la democrazia più opulenta ed orgogliosamente esibita della storia.

Il dolore, la vergogna e la fragilità che abbiamo cercato di ricacciare lontano da noi, in altri esseri umani, ci rimbalza addosso, centuplicata nella sua mostruosità.

Ai nostri "nemici" abbiamo finito per opporci con lo stesso volto primitivo e indegno.