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La bella principessa dei ghiacci

La notizia
Undici anni fa sull’altopiano di Ukok, nella regione degli Altai, tra Mongolia e Cina, un gruppo di archeologi si è imbattuto in un sarcofago di epoca scizia. All’interno, custodito in una bolla di ghiaccio a quasi tremila metri di altezza, il corpo perfettamente conservato di una donna vissuta duemilacinquecento anni fa. Una principessa, presumibilmente, vista la ricchezza della sepoltura, ed una principessa giovane e bella. Oggi, una rivolta infiamma la remota regione e si organizza una petizione perché il suo corpo sia riportato immediatamente in patria.

La Repubblica, 28 giugno 2004

Il commento
Il ritrovamento di undici anni fa diventò subito leggenda, ma gli sciamani e gli stregoni del luogo cominciarono a diffondere tra il popolo un tremendo vaticinio: la rabbia del cielo e della terra si sarebbe rivelata implacabile a causa della profanazione delle sacre spoglie.

Paradossalmente, da allora la tranquilla regione di montagna sembrò davvero colpita da una maledizione e mali di ogni genere e gravità si abbatterono sulla popolazione: due scosse di terremoto al giorno, frane e cascate d’acqua che sgorgavano all’improvviso, siccità e carestie, un’epidemia di suicidi iniziata con quello di un nonno e un nipote. Centinaia di senzatetto che consumavano il bestiame prima che i capi morissero spontaneamente per mancanza di cibo.

In assenza di un sostegno da parte del governo, ci si ricordò della mummia e della profezia di sventura. Al culmine della disperazione, oggi una petizione con migliaia di firme nella quale si chiede “il ritorno in patria delle sacre reliquie” è appena stata inviata alle autorità competenti e gli sciamani confermano che solo quando la principessa sarà tornata nei ghiacci degli Altai, pace e prosperità guarderanno ancora verso la piccola repubblica della federazione russa.

Da settimane, inoltre, è scattata la caccia agli archeologi che cercano le tombe a solo scopo di saccheggio. Per fare diminuire la tensione, è stato necessario un intervento di Mosca che ha proibito gli scavi, dichiarando l’altopiano zona protetta. Ha, poi, promesso, terminati gli esami scientifici, il ritorno della principessa nella sua terra e la creazione di un grande museo etnografico nel capoluogo della regione.

Sembra che una favola sia diventata evento concreto del nostro mondo: la bella addormentata dei ghiacci, al cui destino è legato quello del suo popolo. Se la sua pace è profanata, anche la vita della piccola repubblica risulta disequilibrata, travolta da dolore e morte. Proprio come nella favola, la vittima dell’incantesimo estende il maleficio a tutto il regno che cade in un sonno buio e senza nome lungo 100 anni. Sonno infinito, imprigionato da altissimi rovi che sembrano soffocare per sempre la vita.

È pericoloso, quindi, turbare la quiete delle regine che, con il loro solo esserci, garantiscono prosperità e pace. Strana alchimia: la garanzia di equilibrio e vita è fatta consistere in una bellissima donna, morta molto presto, proprio al culmine, forse, di perfezione e giovinezza. Se la fine non fosse giunta così in anticipo, certamente ci sarebbe stato ancora un crescere, se pure diverso da quello sperimentato sino a quel momento. Ci sarebbe stata la responsabilità dei ruoli, la difficile realizzazione dei progetti, il peso dei fallimenti, delle scelte e delle rinunce. La trama imprigionante del dolore delle perdite e un lento, inammissibile, invecchiare, scandito dalla paura per un tempo affannato nel suo sfiorire.

Invece, come nelle favole che si fermano sempre sulla soglia della casa dei principi novelli sposi, tutto si è cristallizzato e rarefatto; un respiro impalpabile, appena sufficiente a mantenere la forma estrema del pensiero della vita, ha immortalato un attimo incontaminato e lo ha consegnato all’immortalità.

Prima di tutto e senza che nulla sia ancora avvenuto.

Viene da chiederci se qualcosa di simile facciamo anche noi con noi stessi. Al fondo del nostro esistere, poniamo il silenzioso ardere di un sogno regale. Siamo figli di dei; all’origine del nostro tempo, una principessa bellissima ha intessuto di splendore la nostra carne. Ora, certo, a volte possiamo sembrare povera cosa, sottoposti all’ingiuria di un destino che non ci risparmia umiliazioni e cadute, ma se ci specchiamo, all’insaputa di tutti, non vediamo uomini vinti, trasfigurati da mille dolori, ma le sembianze di un’indiscussa e imperitura affermazione.

Solo apparentemente, accettiamo lo scorrere del tempo e la sua non ripetibile linearità, ma in segreto coltiviamo la certezza di una identità regale. Anche noi, in realtà, ci siamo forse fermati al culmine della giovinezza, quando né corpo ed anima sembrano poter essere contaminati dalla finitudine.

Per analogia, dai ricordi emerge un’altra immagine: alla fine del suo lungo viaggio, il protagonista di Cuore di tenebra, la celebre opera di Joseph Conrad, trova il luogo dove abita Kurtz, un europeo trasferitosi a lavorare in Africa e trasformatosi, in un lento processo di corruzione morale, nel signore del luogo, venerato come divinità dagli indigeni. L’occupazione assegnata dal governo britannico aveva lasciato il posto al commercio di avorio, all’avido appropriarsi, attraverso furto e rapina, dei beni di quella terra. Quando ormai Kurtz è stanato e vinto, i suoi seguaci si mobilitano per l’estrema difesa e tra di essi emerge l’intensità della bellezza di una donna giovane e selvaggia, perfetta nella forza della sua audacia.

«Camminava con passi misurati, calpestando orgogliosa la terra. Teneva alta la testa; i capelli erano acconciati a guisa d’elmo; aveva gambali d’ottone fino al ginocchio, al collo, innumerevoli fili di perle di vetro; oggetti bizzarri, amuleti, doni di stregoni che appesi al suo corpo luccicavano e tremavano ad ogni passo. Era selvaggia e superba, magnifica, con lo sguardo allucinato; c’era qualcosa di minaccioso e solenne nel suo incedere deliberato. E nel silenzio che era caduto all’improvviso su quella terra addolorata, sull’immensità selvaggia, sembrava che quel corpo colossale della vita misteriosa e feconda la guardasse, pensoso, come se stesse osservando l’immagine della propria anima tenebrosa e appassionata.»

Due principesse, due volti, forse, dello stesso desiderio. A fondamento della regalità immortale, ci può essere l’urgenza di una mancanza e di un rimpianto che non sa sopportare il dolore, la delusione sconfinata, la rabbia dell’attesa. Ogni attesa, non pensabile evento, è vissuta al pari di umiliazione infamante, sciagura che corrode la maestosità di un’identità incorruttibile: agli dei tutto è possibile, nulla è vietato. Sono solo i poveri mortali che devono chiedere ed attendere, che devono prendersi cura di ciò che amano, che devono imparare dedizione, rispetto e rinuncia. Ma nessuno ha voglia di diventare un semplice essere mortale, nessuno ha voglia di entrare in un tempo destinato a finire.

È un’inversione emotiva profonda, lento e faticoso processo dove si depongono, poco a poco, le spoglie di una sognata immortalità per imparare a chiedere e ad amare. Inversione dolorosa, ma essenziale, in realtà, visto che il Kurtz di Conrad vive in un mondo desolato e distrutto dalla sua stessa avidità, “un’oscura regione di orrori sottili, dove la barbarie pura e semplice era un vero sollievo”. Eppure non è facile rinunciare, sino all’ultimo Kurtz lotta per affermare il suo mondo artificiale contro quello della realtà degli affetti; lotta per difendere ciò che agli occhi di chi è appena giunto si presenta come l’orrore dell’inferno.

Eppure non è semplice; forse Kurtz, come noi, non vede quello che lo circonda nel suo vero aspetto: in una terribile perversione, è diventato bene il male, piacere il dolore. Certo, a volte la disperazione può esplodere con forza devastante quando sembra di essersi smarriti per sempre e di non poter più tornare all’autenticità degli affetti, quando ci si sente “astronauti dell’anima che viaggiano alla deriva in un universo senza vita”. Ma, nonostante ciò, può sembrare persino preferibile questo tipo di disperazione rispetto al cambiamento. Un cambiamento immaginato come indesiderata vicinanza al peso intollerabile della debolezza, della fragilità, della solitudine, della dipendenza. Forse, a trattenerci, non è nemmeno il timore di perdere la regalità immortale, quanto quello di venire sommersi, di non farcela a sopportare l’impatto con qualcosa di così angoscioso Winnicott, al riguardo, parla di “paura del crollo”:

«Il termine crollo, nel suo complesso, può essere inteso per indicare il fallimento di un’organizzazione di difesa. Difesa contro l’impensabile stato di cose che sta sotto l’organizzazione difensiva stessa, il crollo dell’unità del sé.»

Quante volte i nostri pazienti ci esprimono questo: «Ma mi piacerò davvero, diverso da come sono?», «A volte mi sembra di sfiorare qualcosa che non è quello che io conosco di me e ho l’impressione che se solo mi soffermassi in questo, sarebbe come morire.»

Spesso, in ragione di ciò, la terapia è sentita come qualcosa che aumenta incertezza e fatica, che espone sconsideratamente al pericolo quando non, a volte, come vero e proprio strumento di morte.

Come per gli abitanti della repubblica degli Altai, il timore è quello di vedere sconvolta e devastata la propria terra.

Quasi nessuno, in effetti, intraprende una psicoterapia per ricercare una verità emotiva intorno a se stesso; più generalmente, il desiderio è quello di trovare un aiuto per fortificare un sistema che sembra non funzionare più bene. I pazienti ci chiedono di portare qualche altro dono alla principessa dei ghiacci, in modo che possa ancora rifulgere della sua luce consolatoria e rassicurante. Essere aiutati a rispecchiarsi in lei, in modo da rinascere per sempre ad immagine di dei immortali che non conoscono sconfitta e dolore. Questo non possiamo fare, ma sappiamo di infliggere una terribile delusione. Spesso, allora, come terapeuti siamo contrastati se non considerati alla stregua di imprevidenti e temerari che credono in capacità che il paziente non si riconosce. Oppure, ancora, veniamo percepiti come gelidi capitani che spingono alla battaglia, gettano in pericoli estremi, senza partecipare personalmente, abbandonando a miserie e difficoltà.

Non che tutto questo non rappresenti anche un rischio: se la distanza emotiva è grande, possiamo finire con l’assumere una posizione “scolastica” di chi si limita a raccontare la teoria del dover essere psicoanalitico, rifiutandoci di sentire quello che, in effetti, tale teoria, di volta in volta, significa sul piano degli affetti, in un reale abbandono emotivo del paziente a se stesso.

Ma è altrettanto forte il rischio di colludere con il progetto di potenza proposto dal paziente. Possiamo, segretamente e insieme, continuare a venerare un’immagine di esotica compostezza, la perfezione di una immortale giovinezza selvaggia e audace, la sola che sembra capace di redimere e cancellare ogni fallimento.

Senza prestare attenzione, senza poter vedere che l’oggetto della nostra venerazione è una giovane donna strappata alla vita troppo presto e che certo non ha mai desiderato per sé una così precoce fine. Senza vedere che giovinezza ed immortalità sono solo un povero tessuto mummificato e privo vita, tristemente ricoperto di gioielli luccicanti.