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Islam e passione d'amore

La notizia
Alla vigilia della festa di S. Valentino, una giovane donna egiziana di nome Lamya si è rivolta ad un sito religioso chiedendo quale posizione ha l'Islam rispetto a tale particolare ricorrenza. Le veniva data una risposta che faceva riferimento ad una pronunziazione dello sceicco Suad Ibrahim Salih, docente di giurisprudenza islamica all'Università di Al Azhar. La risposta conteneva un link che rimandava ad altra posizione circa un ulteriore quesito: nell'islam è consentito innamorarsi?

La Repubblica, lunedì 14 febbraio 2005

Il commento
Singolare domanda quella di Lamya, domanda rivolta da un sito confessionale che emette fatwa on line. Le fatwa sono editti con valore di regola per il comportamento dei fedeli. Quelle su internet non hanno riconoscimento ufficiale, ma, in realtà, sono la precisa trascrizione di pareri emessi dalle più alte autorità religiose dell'Islam. In risposta alla richiesta di Lamya, infatti, è stata riportata una fatwa dello sceicco Suad Ibrahim Salih che sottolinea come non sia necessario imitare i riti dell'occidente e che «l'amore che si nutre va dimostrato ogni giorno dell'anno, non solo in una data particolare scelta da altri.»

Al termine della risposta, un link rimandava ad altra fondamentale fatwa che risponde al quesito: per l'Islam è lecito innamorarsi? Il responso è riferito ad un parere dello sceicco Ahmad Kutty: amore ed odio non vengono dall'uomo, ma da Dio e l'innamoramento è una sensazione che, come tale, non è né lecita né illecita. Chi prova questo sentimento, tuttavia, è portato ad allontanarsi dalla purezza sino alla tentazione di frequentare da solo una persona dell'altro sesso. Sarebbe meglio evitare la trappola, lasciare che la compagnia della propria vita venga altrimenti determinata, tenendo conto che i «matrimoni migliori sono quelli che nascono con un minimo di affetto che poi cresce e cresce, sino a che marito e moglie varcano insieme le porte del paradiso.»

L'articolista conclude che, secondo tale percorso, ogni ragazza conosce una difficile attesa di quel compagno da «amare ogni giorno di più», compagno indicato da un dio che assomiglia, in modo molto terrestre, al padre di ognuna.

Possiamo stupirci, irritarci, prendere le distanze da costumi che ci sembrano arcaici e restrittivi. Ci ribelliamo all'idea che altri, in special modo i genitori, possano scegliere ed imporre a noi qualcosa nella sfera degli affetti secondo le loro esigenze; l'idea di essere determinati anche a tale livello, ci preoccupa e ci rattrista. Sembra la condanna più definitiva a non potere diventare noi stessi. Rimanere per sempre piccoli, figli gestiti e decisi da altri.

In realtà, però, frequentemente capita che siamo proprio noi a non nutrire molta fiducia nei nostri sentimenti. Spesso li sentiamo confusi e contraddittori; troppo spesso, soprattutto, li sappiamo dolorosi, traboccanti, nel caso peggiore, di tutta la sofferenza che possiamo sopportare e anche di più. Sempre cangianti, a volte dirompenti e indubitabili, ma già il momento dopo disfatti e trascolorati, vestiti di nuove sembianze. Senza il ricordo di quello che è stato, ci costringono a credere vero e certo solo ciò che è presente, lasciandoci sguarniti di fronte alle inattese imboscate di passato e futuro.

Proprio per i sentimenti andiamo soggetti ad errore e temiamo di rendere visibile un'immagine di noi incerta ed inadeguata. Del resto, sembra che mai l'uomo si sia fidato del suo sentire. Già l'antica Grecia, una tra le nostre più antiche memorie storiche, ci parla di questo timore:
«Amore, che trasformi la ricchezza in desolazione, che vegli sulla morbida guancia di una fanciulla; tu vaghi sul mare e tra le dimore più selvagge. Nessuno tra gli umani ti può sfuggire, quand'anche vivesse un solo giorno; e colui al quale infine giungi, rendi folle.»
Sofocle, Antigone
Sul friabile terreno di un impalpabile incedere, ci sembra di decrescere piuttosto che crescere. Abbiamo bisogno di certezze. Ad una società che ci chiede azioni logicamente concatenate, sicurezza del nostro essere, non possiamo offrire il lacerante dubbio dell'incertezza, l'ansia di una telefonata mancata, la gioia travolgente per una carezza a lungo attesa, l'umidità vischiosa di una inconsolabile malinconia. Alla nostra società che ci vuole ogni giorno vincenti, non sappiamo nemmeno come presentare quella tenerezza frastagliata che ci rabbrivida il cuore tutte le volte che un odore, un preciso timbro di voce – inezie della materia – ci attraversa il corpo.

Sembra folle immaginare di impegnare, per quello e su quello, tutta la nostra vita. Nel nostro mondo delle dichiarazioni di guerra, delle guerre per il nostro bene, può sembrare risibile il nostro segreto struggimento, forma impura ed imprecisa dell'essere, labile e lieve come orme sulla sabbia.
«O dea, le nubi del cielo su di te vanno e vengono; per te la terra produce i dolci fiori, per te le grandi distese del mare ridono […] Ognuno ti segue bramoso, fatto schiavo del tuo fascino […] Tu sola, infatti, puoi allietare i mortali con la tua pace tranquilla perché anche il potente Marte che regola battagliero le leggi feroci della guerra, spesso si lascia cadere sul tuo seno, completamente conquistato dall'eterna ferita dell'amore.»
Così si esprime Lucrezio nel De rerum natura quando invoca Venere, rappresentata come la forza cosmica e creatrice dell'amore.

«Ognuno ti segue … fatto schiavo del tuo fascino». Anche questo può spaventare: sapersi prigionieri di un imperativo sentire che ci incatena ad un altro da noi e ci toglie la libertà di scelta, rendendoci determinati e dipendenti sino alla passione più ardente come alla tenerezza più disperata.

Un terribile decentramento del nostro essere che sembra farci perdere la memoria di ciò che siamo per costringerci a rinascere in nuova forma, confusi e legati al volto oscuro e luminoso di un altro che non possiamo più non pensare.
«Ricordo i suoi occhi mai del tutto chiusi, anche nel sonno più profondo. Quando non sapevo darmi pace, scrutavo quel minuscolo spiraglio tra le ciglia nella speranza di intravedere il mondo misterioso dove lei si allontanava a mia insaputa. Al mattino, le chiedevo il resoconto della notte, e lei mi raccontava di un giardino di sera e di un angelo con le mani sugli occhi, e per tranquillizzarmi mi diceva che io ero con loro, anche se non lo ricordavo.»
P. Runfola, Lezioni di tenebre.
Al fondo dell'innamoramento, riconosciamo uno struggimento potente. Sono ancora i greci che ce ne parlano, dicono di qualcosa che, allora come ora, sembra appartenere alla natura più intima di questa esperienza emotiva.
«Supponi che Efesto, con tutti i suoi arnesi, piombi su due innamorati stretti in un abbraccio e dica loro: “Desiderate forse essere un'unica unità e restare giorno e notte l'uno in compagnia dell'altra? Perché se questo è ciò che desiderate, sono pronto a fondervi insieme e a trasformarvi in uno, e a lasciarvi crescere insieme”. Non troverete nessuno che, sentendo una proposta simile, potrebbe negare che l'idea di questa unione e di questa fusione, di questo essere uno anziché due, è la reale espressione di un bisogno antico.»
Platone, Simposio
È il desiderio di una intimità illimitata, senza confini e senza termine. Potere non smettere più di sperimentare una compagnia che quasi si è fatta compenetrazione. Essere per sempre esentati dalla sofferenza della nostra incompiutezza, lo spettro buio della solitudine e dell'insignificanza.

Potere non avere più paura visto che, ormai, qualcuno è sempre accanto a noi e c'è perché per lui siamo irrinunciabili. Non siamo più cosa di poco conto, raggelato oggetto tra gli altri nel buio senza memoria dell'universo perché siamo, per qualcuno, il sole dell'esistenza. Ogni nostra più piccola fibra, tratto del volto, abbozzo di pensiero, prende vita e bellezza, è fontana di gioia, visto che qualcuno è assetato ed incantato, teneramente grato per ciò che, adesso in noi, è ruscello e cascata.

È intollerabile, a questo punto, venire riconsegnati al limite angusto ed estraniante, alla fredda povertà di ciò che siamo, anche solo per una sera o qualche minuto. Persino un solo minuto diventa il volto di una intollerabile perdita, la musica ripetitiva e martellante di un rifiuto. Siamo soli.

Avevamo creduto di essere principi della terra e invece siamo inarticolata particella di materia travolta dal tempo e da infiniti mondi che nulla sanno di noi. La struttura degli affetti che ci aveva fatto credere in un mondo a nostra misura, familiare e sovrabbondante di significato, ci porta ora ad un deserto senza speranza.
«Così Sylvia brucia dalie gialle mentre il sole si fa debole sino all'impotenza e il mondo affonda nell'inverno. Le piante si arrendono alle onnipotenti brine bianche che crudeli chiudono i colori in esagonali cuori di ghiaccio. Così vaghiamo ed aspettiamo nell'aria di novembre grigia come una pelliccia di topo irrigidita di lacrime gelate. Resistere, resistere e le sillabe si induriscono come stoiche lenzuola bianche colpite da rigor mortis sul filo da stendere dell'inverno.»
S. Plath, Diari
Non possiamo permetterci il lusso dell'amore. Per quanto siano grandi le nostre arti e le nostre conoscenze, non sappiamo se l'altro vorrà accettarci; del resto, già riusciamo così poco a tollerare quella che ci sembra, di noi, fragilità ed imperfezione infamante. E certo siamo sicuri di non avere potere sulla vita e sulla morte; chi amiamo, potrà sparire per sempre, spogliandoci di tutte le nostre certezze e di tutta la nostra allegria senza chiederci il consenso, un giorno del tutto uguale agli altri, condannandoci al più straziante degli abbandoni.

Non possiamo innamorarci; in sorprendente accordo con lo sceicco Ahmad Kutty, ci sembra più protettivo e sicuro scegliere un compagno in base a qualcosa di altro da noi, un progetto, un bene da condividere, foss'anche un patrimonio economico.

Non vogliamo uscire da noi stessi, non vogliamo che qualcuno tocchi il nostro cuore e ci faccia sorridere di speranza, ridere sino alle lacrime della creazione. Vogliamo dominare i nostri legami e, per non correre il rischio di essere travolti dalla sofferenza, decidiamo di non metterci mai in rapporto con nessuno. Decidiamo di tenere per noi il patrimonio dei nostri affetti, consumandoli nel segreto della nostra anima che ne confeziona ogni giorno qual tanto che ci permette di rimanere in vita, rinunciando ai sapori travolgenti dell'incontro e della condivisione.

Non è nemmeno necessario un padre autoritario che ci impedisca di seguire il nostro sentire; siamo già noi a svolgere questo ruolo quando ci incarceriamo e chiudiamo la nostra vita alla possibilità di amare.

Il prezzo, ovviamente, è molto alto, è il lieve essere nel tempo senza toccarlo e conoscerlo, è il peso schiacciante e immedicabile della nostra mancata nascita.

Per il timore di incontrare nuovamente il volto di quella nostra infanzia così turbolenta, sofferente e fragile, corriamo il rischio di consegnarci, ancora bambini, ad un finire spoglio e scarnificato che non conosce i nomi e i gusti della terra.