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Il miracolo della Cina

La notizia
Compare oggi su Repubblica la notizia della pubblicazione delle testimonianze che gli operai cinesi hanno reso all’associazione umanitaria China Labor Watch circa la loro condizione lavorativa. L’associazione, impegnata contro lo sfruttamento dei minori e le violazioni dei diritti dei lavoratori, ha concesso una spazio per la denuncia di una realtà tragica, a tutt’oggi nascosta e camuffata sotto le spoglie del nuovo miracolo cinese, di una economia liberista che, ancora una volta, sembra migliorare le condizioni di popolazioni da troppo tempo costrette ad una non più accettabile primitività di vita.

La Repubblica, 19 maggio 2005

Il commento
I racconti della China Labor Watch sono davvero terribili. Parlano i lavoratori cinesi della regione meridionale del Guangdong, l’attuale cuore della potenza industriale cinese, da cui ebbe inizio, alla fine del secolo scorso, la conversione accelerata del paese al capitalismo. Parlano con il rischio di venire immediatamente licenziati se le loro identità fossero scoperte. E parlano per dire qualcosa che riaccende una memoria destabilizzante nel suo contenuto di assoluto dolore, qualcosa che pensavamo di avere consegnato ad un passato compiuto nella sua distanza e nella sua estraneità.

Sono operai della Kingmaker Footwear che ha 4700 dipendenti, di cui l’80% è costituito da donne. La maggior parte della produzione dell’industria è destinata ad un solo cliente: la Timberland. La fabbrica lavora su licenza, ossia è direttamente autorizzata dalla Timberland a produrre le note calzature americane.

Ma le testimonianza si riferiscono anche agli operai della Pou Yuen, un colosso da 30.000 dipendenti, fornitore della Puma, con casa madre in Germania. La lettera di un dipendente descrive la giornata tipo: la sveglia è alle 6.30. Dieci minuti sono destinati all’igiene personale, i restanti venti alla colazione.
«Corriamo alla mensa perché la colazione è scarsa e chi arriva ultimo ha il cibo peggiore o non ne ha nessuno».
Alle 7 il timbro del cartellino; ogni ritardo, si tramuta in multa sulla busta paga. Sempre alle 7, ogni gruppo di operai marcia in fila dietro al caporeparto, recitando idonee canzoni. Se non si canta ad alta voce o non si sta correttamente nella fila, scattano punizioni. Il clima di intimidazione è costante: un’operaia di 20 anni, picchiata dal suo caporeparto, è stata addirittura ricoverata in ospedale. Nei reparti-confezione, gli operai incollano le suole delle scarpe e, guardando la forma delle mani, si capisce da quanto lavorano. Perché le mani si deformano a causa dei frenetici ritmi di lavoro imposti dall’azienda.
«Lavoriamo dalle 7 alle 23 e la metà di noi soffre la fame. Alla mansa c’è minestra, verdura, brodo …».
Non sono rari i casi di cibi avariati; recentemente, cinquanta lavoratori sono stati intossicati da germogli di bambù deteriorati. Quando le richieste di produzione aumentano, l’orario lavorativo è ancora allungato con straordinari obbligatori. In questo modo, un dipendente può dedicare al lavoro anche cento ore a settimana. La paga mensile media è di 757 yuan, pari a 75 euro, ma il 44% è trattenuto per il vitto e l’alloggio concesso. Le multe possono ulteriormente ridurre i restanti 44 euro. L’alloggio, poi, significa una camerata sprovvista di acqua calda e di riscaldamento, in cui si ammucchiano 16 lavoratori su brandine di metallo.

Un mese di salario viene sempre trattenuto a scopo intimidatorio: se il dipendente scappa, lo perde. Perché gli operai tentano la fuga dal loro posto di lavoro.

In ogni reparto, lavorano ragazzini tra i 14 ed i 16 anni. Un’inchiesta, realizzata in altre fabbriche, ha reso noto che la maggior parte di questi bambini soffre di herpes per l’inquinamento dei coloranti industriali e lamenta mal di testa cronici. Liu Yiulian, di 13 anni, non può addormentarsi se non prende due o tre analgesici ogni sera. Il suo “padrone” dice che gli costa troppo in medicinali.

Se mai un datore di lavoro venisse scoperto in flagranza di sfruttamento del lavoro minorile, incorrerebbe in una multa di 10.000 yuan, circa 1000 euro. In fondo, una risibile percentuale dei profitti generali dell’impresa. Sono dati scarni, lapidari, terribili nella loro univocità di interpretazione. La memoria, come dicevamo, ci riporta, purtroppo, ad altre testimonianza, quelle dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti oppure ai resoconti degli internati nei gulag sovietici durante gli anni della dittatura. Per quei racconti abbiamo imparato a fare riferimento al paradigma della follia: quando una dottrina politica si decompone in ideologia di perversione, quando le peggiori fantasie della mente contaminano il reale, non più contenute dall’opera mediatrice del pensiero, i popoli possono essere invasi e travolti dai loro stessi sogni di terrore.

In questo caso, però, le cose dovrebbero essere diverse. Sono proprio quelli che hanno vinto e cancellato quelle deviazioni maligne del sociale, siamo proprio noi che ora alimentiamo questa forma inedita, ma, come le altre, assolutamente spietata, di persecuzione. Interessante, al riguardo, il film documentario The Corporation, realizzato da Mark Achbar sulle multinazionali. Il minuzioso racconto della nascita delle corporazioni ci informa di come il sistema legale abbia appositamente permesso l’esistenza di una particolare unione imprenditoriale che viene considerata non come entità commerciale, bensì alla stregua di una persona, con conseguenti identici diritti e doveri. Sulla base di tale particolarità, il regista decide, provocatoriamente, di sottoporre questo “soggetto” ad un test di personalità ed i risultati sono, purtroppo, decisamente significativi.

Per valutare la qualità della relazione con altri, si indaga sul “modo di agire delle multinazionali. Gli esempi “comportamentali” sono tanti; ad esempio, nel 1989, cominciarono ad essere resi noti gli effetti della somministrazione ai bovini di un ormone artificiale, il Posilac, impiegato per aumentare la produzione di latte. Questo ormone provoca nelle mucche infiammazioni croniche a cuore, polmoni, reni, milza ed è causa di alterazioni sulla riproduzione. Provoca, inoltre, una dolorosa forma di mastite. Quando si munge una mucca affetta da tale patologia, il pus dell’infezione finisce nel latte. Non solo: le mucche, così ammalate, devono essere curate con antibiotici e anche questi finiscono nel latte e vengono assunti da chi lo beve. Questo fatto è in diretta contraddizione con quanto dichiarato dalla multinazionale produttrice che sosteneva di non usare antibiotici e che il Psilac era assolutamente privo di effetti nocivi. Nel test di personalità si barra: NONCURANZA PER LA SICUREZZA ALTRUI e TENDENZA A MENTIRE PER OTTENERE PROFITTI.

Ovviamente, non sono solo questi i soli episodi di impiego di prodotti nocivi. Durante la guerra, l’esercito americano ha disboscato vaste aree del Vietnam con l’Agente Arancio prodotto dalla Monsanto. Questo defoliante ha prodotto più di 50.000 casi di difetti congeniti in nuovi nati e migliaia di casi di cancro tra soldati e civili vietnamiti ed americani. I veterani americani hanno potuto citare in giudizio la Monsanto per avere causato la loro malattia. La Monsanto ha patteggiato prima del processo, pagando danni per 80 milioni di dollari, ma non ha mai ammesso la sua responsabilità. Nel test di personalità, si barra: INCAPACITÀ DI PROVARE SENSO DI COLPA.

Ad ogni modo, il pagare multe sembra una pratica consolidata da parte delle multinazionali. Il regista fornisce un lunghissimo elenco di corporazioni citate in giudizio e condannate a pagare ingentissime somme: HP, IBM, KODAK, ROCHE, ecc. Praticamente, le case che producono tutti o quasi i beni di consumo che noi acquistiamo. E questa “pratica” si verifica più volte nella vita di una stessa multinazionale. Sempre nel test, la voce segnata è: INCAPACITÀ A CONFORMARSI ALLE NORME SOCIALI E RISPETTARE LE REGOLE.

Se i prodotti possono essere nocivi, non certo migliori sono le modalità di produzione. Quello che riporta l’articolo di Repubblica per gli operai cinesi di Timberland e Puma è valido, in base ad altre indagini, per gli operai di tutto il terzo mondo: Sud America, Africa, Asia. Sfruttamento del lavoro minorile, salari infinitesimi rispetto ai guadagni, tempi di lavoro pensati addirittura non in minuti, ma in millesimi di secondo. Nel test di personalità si barra la casella: INDIFFERENZA VERSO I SENTIMENTI ALTRUI.

Senza contare un ulteriore fenomeno. Quando una multinazionale impianta una sua fabbrica in un paese in via di sviluppo, lo fa per il basso costo della manodopera. Questa operazione potrebbe anche essere pensata come un’opportunità di cambiamento delle condizioni di vita di quel territorio. Cosa che, in effetti, accade. Dopo un po’ di tempo, le persone, cominciano a godere dei vantaggi della loro attività: le loro condizioni non sono più così disperate, un minimo di movimento sindacale fa migliorare lavoro e salario. È a questo punto che le multinazionali chiudono la fabbrica e vanno in altra zona, dove trovare gli antichi vantaggi. Nel test, la casella ad essere segnata è: INCAPACITÀ DI MANTENERE RAPPORTI DURATURI.

Il risultato della somministrazione è inequivocabile: l’istituzione dominante del nostro tempo è stata creata ad immagine di uno psicopatico.

I nostri stati si fondano su costituzioni democratiche, l’attenzione ai diritti e al rispetto dell’altro si è sviluppata ed affinata nel corso della storia. Questo è anche il tempo della riflessione intorno all’Europa e alla costituzione europea, una carta dei diritti che possa rappresentare tutti i popoli dell’Unione, recependo il frutto della preziosissima crescita realizzata nel corso di un lunghissimo tempo. Una crescita che ci ha educato alla protezione e alla cura dei confini tra quello che noi siamo e ciò che, invece, non ci appartiene. L’immediatezza dei sentimenti che non tollerano di procrastinare la soddisfazione dei desideri, che mal sopportano di dovere conoscere e rispettare l’altro da sé, in qualche modo è stata modulata, resa più flessibile e versatile, adatta alla dimensione del rapporto e dello scambio reciproco.

Quello che è comunicato nel rapporto della China Labor Watch o è rappresentato nel film di Achbar, dunque, non dovrebbe più esistere. Fa parte del nostro ormai superato passato, quando non noi, ma i nostri progenitori, erano dei bambini feroci. Ma le testimonianze sono inequivocabili e ci inchiodano ad un dato di violenza e di dolore che dipende assolutamente da noi. Perché sono proprio quelle calzature che costano 50 centesimi tutto compreso ad essere, poi, rivendute nelle boutiques a 150 euro.

“L’esercito degli schiavi che fabbrica il nostro lusso”, titola, infatti, l’autore dell’articolo. Lo spazio per dare vita al migliore dei mondi possibili deve essere stato troppo intenso; forse credevamo di avere modificato per sempre la parte più primitiva di noi stessi ed ora ci accorgiamo che l’abbiamo semplicemente esportata all’estero, in modo da non saperne più nulla e da non esserne più imbarazzati.

L’operazione di espatrio, però, finisce drammaticamente per inficiare il fondamento del nostro stesso vivere civile. Sembra rimanere lo spazio per una moralità solo formale, puro esercizio di stile disincarnato che abbandona in regioni desolate qualcosa di apparentemente immodificabile.

In una logica interna, si potrebbe parlare di falso Sé che non integra esperienze, desideri e bisogni sentiti come pericolosi ed inaccettabili. L’immagine ufficiale di se stessi si impone con forza e scaccia dalla coscienza ciò che con essa non si armonizza. Sogni, terrori, dolori strazianti continuano ad essere vissuti, ma non sono sentiti come qualcosa che ci appartiene. Restano parti di Sé pietrificate in uno stato di animazione raggelata che non riescono a tornare in vita perché non possono essere amate. L’esistenza è articolata solo all’esterno, estremo e disperato tentativo rispetto ad una integrazione emozionale interiore che non ha potuto realizzarsi. È un accadere affettivo nebuloso e alienato, abbandonato ad una dimensione senza nome, troppo lontana dal centro dell’anima. Il senso di sollievo dovuto alla dimenticanza di ciò che siamo, è inevitabilmente accompagnato dalla fragilità del vuoto e dell’inconsistenza esistenziale.

Forse, per certi versi, proprio questo accade nella nostra società dove, accanto al rifulgere dei principi morali e civili, convivono pratiche violente in cui nessuno si riconosce e che a nessuno sembrano appartenere. Sono altri i responsabili, i capitani d’industria, i ricchi, i petrolieri americani, i politici di ogni tempo, appoggiati alle potenze economiche, sono gli iracheni, gli integralisti religiosi. Il male accade, continuamente accade, ma è qualcosa di cui abbiamo perso le radici, l’intimo significare. È solo orrore contaminante che non possiamo che consegnare ad altri, confinare nelle lontane province del niente.

È con sorpresa e sconcerto, allora, che ci troviamo ad ascoltare le voci che, inattese, arrivano da quel lontano nulla. Voci che ci costringono a riprendere il dialogo interrotto con coi stessi, a rivisitare un modo di costruire il sociale che invade ancora di dolore il mondo, che attacca particolarmente chi, troppo piccolo e debole, meno è in grado di difendersi.

In una sorta di non dichiarata logica parallela, gli altri sono solo oggetti che devono provvedere alla realizzazione dei nostri desideri; non è necessario preoccuparsi per le conseguenze che le nostre richieste illimitate e perentorie possono procurare, ci sono vite che, tutto sommato, valgono di meno, non hanno particolare significato.

Nello spazio di questo mondo alternativo, apparente espressione dell’evoluzione più progredita del nostro tempo, orgoglio di un fare coronato da prosperità, nascono le condizioni per la violenza e il sopruso. E sono i deboli di sempre, i diseredati e i bambini – tutta la speranza del nostro tempo – a portare il peso e a pagare l’illimitato prezzo della nostra volontà di potenza.