Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorarne l'esperienza di navigazione e consentire a chi naviga di usufruire dei nostri servizi online. Se prosegui nella navigazione acconsenti all'utilizzo dei cookie.
Per maggiori informazioni leggi la privacy policy e la cookie policy presenti nel sito.

Le vite rubate: radiografia di una dittatura

La notizia
La Germania è divisa: non sa se esentare dal suo compito la Birthler Behorde - autorità guidata dall'ex dissidente Marianne Birthler - che custodisce le schedature effettuate dalla STASI, Ministero per la sicurezza dello Stato, in un periodo di quasi 40 anni. Su tale istituzione pesa un'accusa infamante: dei suoi duemila dipendenti, almeno 54 sono stati smascherati come ex Stasi. Fanno, però, ancora parte della struttura e si dice persino che abbiano ancora i conti aperti in Svizzera. Il passato non passa e l'orrore della dittatura rossa continua a vivere nel presente.

La Repubblica, 8 luglio 2007

Il commento
La Stasi, fondata l'8 febbraio 1950, aveva lo scopo dichiarato di vigilare intorno e contro i possibili tentativi eversivi verso lo Stato. Fino a metà degli anni ottanta, la rete di spie crebbe all'interno della DDR, così come nella Germania Est. Venne stimato che la Stasi disponeva di 91.000 impiegati a tempo pieno e probabilmente di 100.000 informatori. Questo significa che circa un tedesco dell'est ogni cento era una spia, probabilmente la percentuale più alta mai raggiunta in una società.

La Stasi monitorava i comportamenti politicamente scorretti di tutti i cittadini della Germania Est, in maniera simile a quanto faceva la Gestapo nella Germania Nazista, ma, a differenza di quest'ultima, utilizzava molto raramente la tortura e l'omicidio, preferendo metodi di pressione psicologica. Una volta definito il soggetto, l'obiettivo era di costringere la persona ad abbandonare la propria posizione sociale, lavorativa o accademica. A risultato raggiunto, spesso la vittima veniva poi integrata, a sua volta come informatore. Durante la rivoluzione pacifica del 1989, gli uffici della Stasi vennero invasi dai cittadini, non prima che un grande quantitativo di materiale compromettente venisse distrutto dagli ufficiali del servizio segreto. I documenti rimasti sono oggi disponibili per tutte le persone che erano spiate e molti di essi ne hanno fatto richiesta. Intrecciano, ora, la loro sorpresa e il loro sconcerto.

Rainer Schubert, impiegato presso la DPA, l'agenzia di stampa tedesca, aiutava le persone a fuggire a Berlino Ovest finché, nel gennaio del 1975, non fu arrestato. Incarcerato per nove anni e spostato da un carcere lager della Stasi ad un altro, così racconta: "Almeno tre dei miei compagni furono assassinati e io trascorsi quei nove anni in totale isolamento". Isolamento fatto anche di violenza e torture.

Edda Schoehnherz negli anni settanta era una giornalista di successo, progressivamente sempre meno tollerante verso il "clima" del suo paese. "Mi recai in Ungheria, presso le ambasciate occidentali. Che ingenua, non sapevo di essere sorvegliata!". Tornata in Germania, fu incarcerata per tre anni, senza che mai sapesse dove era e senza potere vedere i suoi due figli.

Alex Latotsky è nato in carcere perché sua madre si era rifiutata di diventare delatrice; ha passato nel Gulag i primi due anni di vita e poi è stato destinato ad un orfanotrofio.

Tatiana Sterneberg ha fatto anni di prigione punitiva solo perché voleva sposare un italiano. Queste persone, insieme a molte altre - lo scorso anno sono state 97 mila - hanno fatto richiesta di avere i dossier compilati su di loro dalla Stasi e lo sconcerto è stato enorme: "Sapevano tutto di me: a che ora mi svegliavo, a che ora uscivo di casa, quali bar frequentavo, avevano annotato anche il colore delle mie mutande. […] La mia casa era piena di microfoni, segnavano persino quando portavo il cane a passeggio. Avevano affittato un appartamento di fronte al mio per sorvegliarmi; ogni istante della mia vita era fotografato a distanza e registrato dai loro microfoni".

Una tragica Spoon River di un popolo di sorvegliati speciali che vogliono riprendersi la loro memoria e la loro identità.

Fatti noti, questi, potremmo pensare; fatti che appartengono ad ogni dittatura. La raccolta di informazioni, la catalogazione burocratica, relativa ad eventuali dissidenti da controllare e prevenire nei loro possibili gesti di eversione rispetto alle linee del regime.

Una grande parte delle energie dello Stato destinate a questa complessa operazione che, nel caso della Germania Est, ma più in generale, in occasione di ogni totalitarismo, ha finito per portare a considerare ogni cittadino quale potenziale nemico. Di ogni persona, allora, bisogna cercare di conoscere tutto, fotografare ogni singolo momento della vita, senza lasciare alcuno spazio di autonomia. Proprio questa, infatti, è individuata come la minaccia più cospicua, il luogo dove l'altro sicuramente utilizzerà le sue risorse e le sue energie non per collaborare, ma per una lotta contrappositiva. Quella libertà, da cui potrebbe scaturire un'accettazione, è sentita come troppo aleatoria e, piuttosto che attendere un non necessariamente preordinato consenso, si decide di esigerlo e di costruirlo con la forza.

Sappiamo, su altro piano, quanto la necessità del controllo sia centrale in ogni tipo di rapporto che istituiamo. Insuperabile è l'angoscia e il dolore nel rendersi conto di come le persone da cui dipendiamo affettivamente, siano separate da noi e possano smettere di essere disponibili in qualsiasi momento del tempo. Possono addirittura avere la ventura di non esserci mai più per noi, scomparire per sempre. Ciò è intollerabile nella misura in cui solo con l'altro riusciamo a vivere la sensazione di una profonda accettazione di noi stessi. C'è qualcuno che non mi rifiuta, che ogni momento mi porta testimonianza, con il suo cercarmi, del fatto che anche io sono "cosa buona".

Con l'altro, insomma, recuperiamo il filo di coerenza interna, di continuità di identità di cui, sul piano emotivo, facciamo esperienza come sensazione di potenza, infallibilità e bellezza.

La relazione, a tale livello, sembra quasi cancellare tutti quegli aspetti del sé vissuti con dolore e con rifiuto, impossibili da integrare e troppo spesso proiettati all'esterno. E visto che la mente, in assenza di una concreta vicinanza, può non riuscire a mantenere nella sua memoria l'immagine di una compagnia benevola, diventa necessario un incessante controllo, in modo da avere la quasi percezione fisica dell'esserci dell'altro per noi. Controllo dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, persino della vita segreta del suo corpo, dove può annidarsi, nascosta agli occhi di tutti, il seme di una separazione straziante, vissuta esclusivamente sul registro del rifiuto e dell'abbandono. Finestra aperta su di un me che si dissolve, che non sa più trovare un suo centro e un suo consistere, consegnato ad un non essere che sa di nulla e di male.

Per questo, allora, in ogni momento devo sapere quello che fai, seguire, istante per istante, la tua vita, così da evitare la destabilizzante sorpresa dell'incontro con uno sguardo che io non conosco, che non è nato da ciò che condividiamo. Quello sguardo, modo di non essere con me, viene da un humus contaminante di percezioni che mi escludono, lontananza che distrugge la continuità del mio essere e lascia sulla pelle la traccia bruciante del tradimento. Voglio diventare l'artefice dei tuoi pensieri, scoprire in anticipo ogni loro possibile evoluzione, desiderio, embrione di progetto, affinché nessuna separatezza mai ci raggiunga. Anelito di compiutezza, di immobile splendore non turbato da cambiamento, da sempre insoppribilmente presente nel cuore dell'uomo. Dice Parmenide nel Frammento VIII
"[…] L'essere è ingenerato e anche imperituro: infatti è un tutto, immobile e senza fine; né una volta era né sarà, perché è tutto insieme ora, uno continuo. […] E identico nell'identico, restando, in sé medesimo, giace. […] E non è divisibile, giacché esso è tutto eguale: non c'è da qualche parte un più di essere che possa impedirgli di essere continuo: infatti l'essere si stringe con l'essere"
È in questo senso che ogni dittatura, come quella della Germania Est, sembra realizzare, quasi rappresentare sulla vasta scena della dimensione sociale, tale lacerante esigenza dell'anima. Dopo l'eliminazione di ogni differenza e di ogni distanza, resta un solo pensiero e una sola azione che da quel pensiero discende. La strategia del controllo, espressa sul piano collettivo come su quello interpersonale, contiene in sé un desiderio assoluto: ridurre l'altro a "macchina organica", senza emozioni e senza pensieri, in modo che sia più semplice determinarlo. Gli scenari della storia, gigantesche lenti d'ingrandimento, così simili, a volte, a quelli dei film di fantascienza, ci presentano, in modo drammatico, questo "sogno" della mente. I roghi di Farenheit 451, come quelli del nazismo a noi ancora così vicino, sono un tentativo di ardere ed incenerire per sempre il patrimonio di consapevolezza di sé che l'uomo trasmette attraverso lo scorrere dei secoli. Sopprimere, in altre parole, ogni mezzo che possa consentire un'esperienza della propria separatezza e della propria irripetibilità, impedendo un'individuazione rispetto alla collettività sociale nella quale si è immersi.

Sul piano interpersonale, ciò si cerca di ottenere con tutti i tentativi di infantilizzare l'altro, in modo da mantenerne una dipendenza da noi strutturale ed insuperabile. Avvolgere l'altro in una sorta di maternage mortifero che gli sottragga ogni spazio per esperienze in cui sentirsi solo ed incontrare se stesso. Rubo la vita a coloro che mi sono vicino, a chi io amo, perché in questo modo anche io potrò evitare di sentirmi individua essenza, separato da ogni altro, calato nella solitudine della mia esistenza soggettiva fatta di mancanze, di limiti, di dolorose fragilità, il vero nemico contro cui l'uomo si trova a lottare sia sul piano dei legami affettivi che su quello delle strutturazioni sociali.

Dedicare tutte le proprie energie al mantenimento dell'illusione di un legame di fusione, è "progetto" che nasce proprio dalla paura di essere soli e di dovere provvedere in proprio al fondamento della personale realtà, accettando la provvisorietà dei rapporti, la non continuità della presenza degli altri. Pensando di poter correre il rischio di custodire quelle assenze senza che si mutino nella sensazione disintegrante di non esistenza.

Abbandonare questa illusione coincide con la rinuncia ad un'immagine onnipotente di sé, un sé alieno dal limite, dalla perdita, dall'imperfezione e dalla morte. Possiamo, certo anche con angoscia, decidere di non pietrificare più l'istante in un sogno di perfezione per entrare nel tempo - l'unica vita che abbiamo - fatto di momenti che si susseguono senza soluzione di continuità, cercando di trovare il nostro equilibrio in questo incessante scorrere, nella consapevolezza che tale equilibrio è ottenuto attraverso un concatenamento di posizioni instabili. Dice Martin Heidegger in un passo di Essere e Tempo:
"L' "essenza" di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. [..] L'Esserci è sempre la sua possibilità ed esso non l' "ha" semplicemente a titolo di proprietà. Appunto perché l'Esserci è la sua possibilità, questo ente può, nel suo essere, o "scegliersi", conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto. Soltanto se, nell'essere di un ente, morte, coscienza, libertà e finitudine confluiscono cooriginariamente, questo ente può esistere nel modo del destino. Solo un ente che, nel suo essere, sia essenzialmente AD-VENIENTE, cosicché, libero per la propria morte, possa, infrangendosi in essa, lasciarsi rigettare nella propria effettiva incarnazione; cioè, solo un ente che, in quanto ad-veniente, sia cooriginariamente ESSENTE-STATO, può, tramandando a se stesso la possibilità ereditata, assumere il proprio esser-gettato nel mondo ed essere, NELL'ATTIMO, per "il suo tempo". Solo una temporalità autentica, che è nel contempo finita, rende possibile qualcosa come un destino."
Certamente tutto questo richiede coraggio e anche pazienza per la nostra paura. Non è semplice contenere senza rimanerne feriti i "vuoti d'essere", le mille assenze di un significato presente solo nella forma del non ancora oppure di un suo esserci e tramontare nello stesso tempo. Tutto ciò, emotivamente, risuona come "non essere di nessuno", il volto più deturpante e terrifico della morte. Proprio per questo, l'orizzonte della temporalità obbliga allo sviluppo della capacità di custodire dentro di noi il senso del nostro essere per poterne fare dono a noi stessi e agli altri, nel rispetto della libertà individuale, quella libertà da cui può venire il silenzio efferato dell'assenza di contatto come anche l'affetto appassionato ed ardente del legame.