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Come le emoticon cambiano il nostro modo di comunicare

030144957-ba9267fe-fafc-47d1-918a-25317c63f24cLe emoji, o emoticon: una moda passeggera o un'evoluzione della comunicazione? Un articolo del noto linguista Stefano Bartezzaghi su Repubblica.it analizza come l'utilizzo delle "faccine" stia modificando sia il modo che la frequenza dell'utilizzo della comunicazione scritta:

<<Ragazzo favoloso fin che si vuole, ma certo anche austero, Giacomo Leopardi non vedeva di buon occhio le emoticon. Non è un nostro anacronismo, è un suo presagio: "Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere e significare con i segni, come fanno i cinesi...".

Così annotava nello "Zibaldone", nel giorno di Pasqua del 1821, e giudicate voi se non ce l'aveva con le emoticon. A pescare la pagina giusta è stato il linguista Giuseppe Antonelli (nel suo "Comunque anche Leopardi diceva le parolacce", Mondadori 2014): ci si può divertire a riferirla, si può riflettere sulla severa lezione leopardiana, che vede in fenomeni del genere un ritorno all'infanzia, ma si lascia al poeta il giudizio. Linguisti e semiologi osservano i sempre sorprendenti sviluppi della questione delle emoticon per capirle meglio, se possono: non certo per decidere se è "bene" o "male" che succeda quel che succede. E quel che succede è che la tastiera dell'iPhone contiene attualmente un'opzione per scrivere con le emoticon (o più precisamente, emoji), che predispone 722 simboli, codificati da Unicode. Presto raggiungeranno il migliaio e sarà possibile, per quelli che rappresentano un volto umano, scegliere il colore della loro pelle, superando il discutibile e discriminatorio monopolio dei visi pallidi, vigente sinora.

L'uso di tali figurette è dilagante, non solo per risparmiare caratteri negli sms o nei tweet, ma soprattutto per esprimere stati d'animo che accompagnano, in parallelo, la comunicazione verbale: è insomma il modo per scrivere sorridendo (o, al contrario, imbronciati) e farlo sapere. Al proposito anche il linguista Tyler Schnoebelen evoca l'infanzia, ma per ragioni molto diverse da quelle di Giacomo Leopardi: sostiene che di fronte alla comunicazione personale scritta siamo tutti dei bambini, nel senso che dobbiamo ancora imparare a usare bene questo mezzo. Abbiamo sempre conversato anche per iscritto, si chiamavano epistolari e Leopardi era un maestro anche in quel genere. Ora però la velocità degli scambi scritti sta raggiungendo quella degli scambi orali e le nostre brevi battute diventano facilmente equivoche.

Le vecchie emoticon, fatte solo di segni già presenti su una macchina da scrivere (parentesi, due punti, uguale, trattino...), sono nate agli albori della comunicazione personale telematica per l'esigenza di segnalare, per esempio, l'ironia. Che prima o poi sarebbe successo l'aveva già previsto Jean-Jacques Rousseau. Se scrivo "Sei un bastardo" la frase fa un certo effetto anche se l'amico che la riceve sa benissimo che non parlo seriamente. Se scrivo "Sei un bastardo:-)" non può prendersela in nessun caso. Le emoji (nome di derivazione giapponese, più o meno: "parole figurate") traducono i segni grafici in segni più propriamente iconici: sono emoticon che non devono più nulla alla scrittura alfabetica e ricordano casomai quella lettera che Lewis Carroll scrisse a una giovane amica, disegnando un occhio per dire "Io" ("eye" = "I"), e simili. (E ancora una volta salta fuori l'infanzia).

Le emoji non sono ventisei, come le lettere dell'alfabeto, né cinquanta o sessanta, come l'alfabeto più i principali segni convenzionali e di punteggiatura. Le emoji di limiti non ne hanno proprio, la loro babele è costitutiva. A volte sono mutuate da altre culture (come quella giapponese), a volte sono di origine misteriosa, come accade con un magrittiano "uomo d'affari in levitazione". Di fatto consentono spesso interpretazioni del tutto personali. Delle figure hanno la variabilità non convenzionale; della scrittura hanno la dimensione minima, che invita a metterle in sequenza. Se prevale l'aspetto convenzionale, possono comporre rebus; se prevale quello iconico, interpretarle diventa come ricostruire una storia partendo da una sequenza di immagini, come accade con i tarocchi nel "Castello dei destini incrociati" di Italo Calvino.

Arriveremo presto al punto in cui ognuno potrà disegnare le proprie emoji, ovvero scegliere la forma esteriore della propria emozione per accompagnare quando non addirittura sostituire le parole. La fatica di potenziare queste ultime (e far loro esprimere quello che nessun vocabolario può garantire esprimano) sarà lasciata agli scrittori, che in Leopardi trovano il miglior esempio di quanto il linguaggio possa essere preciso a proposito di ciò che è "vago", come le stelle dell'Orsa. Le argute rappresentazioni grafiche di tutti gli altri cercheranno di ovviare al fatto che ogni sorriso, come ogni broncio, è sostanzialmente ineffabile. Vuol dire qualcosa ma, oltre a questo qualcosa, rimane qualcos'altro che ogni sorriso o ogni broncio vuole non dire. Delle mie emozioni posso darti solo il nome, o una pallida idea, non di più. Ecco, guarda: ti ho fatto un disegnino." >>

(Stefano Bartezzaghi - Repubblica.it - 14-12-14)