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G8: non c'è più tempo per il dialogo

La notizia
Nell'articolo ''Non c'è più tempo per il dialogo'' l'antropologa belga Pat Patfoort concede un'intervista dove esprime il suo rammarico per la mancata applicazione dei metodi non violenti di gestione dei conflitti, cosa che, con tutta probabilità, apre il campo all'esercizio della violenza nella gestione del prossimo vertice dei paesi industrializzati che si terrà a Genova.
Il Secolo XIX, venerdì 29 giugno 2001

Il commento
Tra pochi giorni a Genova ci sarà l'incontro tra i grandi della terra. Man mano che il tempo passa, ciò che sta per accadere si carica di una crescente quanto indesiderata dimensione di preoccupazione e di ansia. Nei mesi scorsi era presente nella mente dei più solo come l'evento di un lontano futuro, così lontano da essere suscettibile di considerazioni astratte che si dubitava avrebbero mai potuto contaminare la realtà. Unico segnale tangibile erano le strade scavate, i palazzi incappucciati, le gru e le betoniere che imponevano un linguaggio di sensi unici e di ingorghi di traffico per cui non esisteva ribellione possibile. Era un circolo vizioso che si giocava tra il disagio e la speranza per un fervere di attività che sembrava concludersi solo in una nuova via alberata, in facciate settecentesche riscoperte nei loro colori, nelle palme del porto che rendevano palpabile la nostalgia dell'Africa.

E' a quel punto che il tono è cambiato, forse con l'arrivo dei caccia americani, o maggiormente attraverso i titoli sempre più sorprendenti dei giornali: stazioni chiuse, autostrade bloccate, zone rosse della città in cui non si potrà circolare, annullamento delle trasmissioni via cellulare, oscuramento delle televisioni, cecchini appostati sui tetti dei palazzi, lo sbarco di cento bare da una portaerei americana. Ma cosa sta per accadere a Genova?

Un articolo del Secolo XIX di venerdì 29 giugno, articolo che contiene l'intervista al "guru" della gestione non violenta dei conflitti, l'antropologa belga Pat Patfoort, ci introduce direttamente nei toni della guerra: "E' tardi, non penso che ci sia più molto da fare per agire un vero dialogo. Resta solo da sperare che la polizia, se deve intervenire, lo faccia nel modo migliore, senza provocare né umiliare e nel modo meno violento possibile".

L'impressione è quella di una strada senza ritorno, di un inarrestabile scivolare verso qualcosa di violento, di doloroso oltre misura.

Il 21 e 22 luglio a Genova si incontreranno gli esponenti dei paesi industrializzati per stipulare accordi economici e politici che riguarderanno il prossimo futuro di tutti noi. Sono molti quelli che hanno scelto quei giorni e quel luogo per manifestare il loro dissenso verso un'organizzazione dove sembra che i ricchi e i potenti si riuniscano per spartirsi le ricchezze del pianeta.

Scomodi pensieri che parlano di sopraffazione, di ingiustizia, di indifferenza, sembrano pretendere l'attenzione da parte delle nostre coscienze. Ad essere evocati sono i diseredati, le popolazioni dei paesi cosiddetti in via di sviluppo, le mille e mille immagini televisive di città di lamiera e di fango, di volti illuminati da occhi troppo grandi. Sono queste raffigurazioni che, per un attimo, si accostano alla lussuosissima nave, già ormeggiata nel porto antico, che tra qualche giorno ospiterà i capi di stato dell'occidente ricco. Le due realtà stridono, il porle accanto provoca una malcelata, sotterranea, rabbia. Ma forse disagio, preoccupazione e rabbia possono anche essere il segnale di un coinvolgimento che rimanda a qualcosa di più personale ed intimo. Ci viene imposta una fatica che si preferiva rimandare, non sentire così immediata, compito da conservare per il domani.

Se, in fondo, la sanità mentale riposa sulla capacità di riconoscere la realtà in modo da poterne trarre gli elementi di forza e di consolazione per continuare a vivere, è altrettanto vero, come dice Bion, che " […] allo stesso modo della Terra, anche l'uomo ha in sé un'atmosfera, seppure mentale, che funge da scudo, sempre mentale, di quei raggi cosmici che attualmente si ritiene siano resi innocui grazie all'atmosfera fisica". (W. R. Bion, Cogitations, Armando, Roma, 1996, pag. 198)

E', dunque, un'atmosfera protettiva rispetto a qualcosa che si teme la mente non sia in grado di recepire senza andare incontro ad un disastro, ad essere sottoposta, in questi giorni, all'urgenza di una rivisitazione, potremmo dire di una rarefazione, volendo mantenere i termine della metafora.

All'interno dell'allargamento operato, possiamo tornare a considerare i dati precedenti e riconoscere, forse, nell'immagine di un mondo fatto di uomini potenti, possibilmente colti, supportati da tutte le conquiste tecnologiche ottenute, costantemente giovani, un ideale che anche noi perseguiamo e vogliamo per noi stessi. L'umanità lacera e diseredata, per contro, con la sua fame e la sua sete, risveglia lo spettro di una mancanza radicale, penosa e terribile, di cui è impossibile farsi carico perché sembra presentarsi come incolmabile e immedicabile. Dal punto di vista della logica immediata della paura, sembra possibile solo difendersi, proteggere ad ogni costo il brillante assetto conquistato, rispetto alla minaccia di un dolore e di un male che, nel loro esplodere, sarebbero solo rovina e distruzione per tutti.

Potremmo chiederci, a questo punto, se tutto ciò, in realtà, non accada anche dentro ognuno di noi, rispetto all'accoglienza che possiamo riservare agli aspetti di noi "in via di sviluppo", quelli che giudichiamo meno affermati e di successo. Quei modi di essere per cui ci sentiamo fragili, inadeguati, "impresentabili in pubblico". Tutto ciò che chiamiamo difetto e che, bene o male, cerchiamo di nascondere con vergogna, che parla del passare del tempo, dei limiti del nostro sapere, delle imperfezioni del corpo e della mente, del desiderio di affetto e di sostegno. E' il contesto di una fragilità e di un bisogno che spesso ci può aver portato a sentimenti penosi di rabbia invidiosa, di gelosia impotente con cui possiamo avere attaccato, nella realtà o nella fantasia, quanto di buono ci circondava, persone e cose, semplicemente perché nulla era disponibile in modo automatico ed immediato per alleviare la nostra sofferenza. Anche il ricordo di queste immagini di noi, però, può risultare intollerabile e minaccioso, richiedente unicamente la rigidità della difesa al fine di mantenere quell'immagine ideale di potenza e perfezione nella quale soltanto ci sembra di poterci riconoscere.

In mancanza della possibilità emotiva di accogliere il limite e l'imperfetto, di accettare, senza morirne, che si sono perdute per sempre delle possibilità, che si sono commessi degli errori, che quello che è accaduto nel passato non tornerà più, che il futuro non sarà sufficiente a contenere quello che pensavamo saremmo dovuti diventare, può scattare la repressione di noi verso noi stessi. Se non si potrà più "oscurare" - mantenendo un termine di questi giorni - ogni comunicazione tra i paesi ricchi e poveri che sentiamo esistere dentro di noi, si potrà scegliere direttamente la violenza, la segregazione, l'omicidio per attuare, come dice Meltzer "un commercio e una distruzione di oggetti interni apparentemente mutilati e senza speranza", in un crescente senso di angoscia e di precarietà. Ogni negazione, infatti, sembrerà andare ad appesantire ancora di più i nostri paesi poveri, dove avremo l'impressione di avere gettato, senza riguardo alcuno, gli avanzi inservibili di tutte le nostre operazioni di chirurgia estetica. Ci sembrerà di contenere, al nostro interno, qualcosa di sempre più mostruoso, sempre meno accettabile e integrabile, qualcosa da cui, semplicemente, aumentare ancora la distanza. Potrà crescere il timore di una rivolta imminente, da tenere a bada con la forza per non soccombere sotto il peso di una verità vergognosa ed intollerabile.

"V'è una sola prova contro di lui. Il ritratto stesso: ecco la prova".

Questo pensa Dorian Gray di fronte alla tela che trattiene nei suoi colori quello che lui stesso non è stato in grado di accettare per sé, il suo inevitabile invecchiare, l'essere consegnato ad un tempo che lo conduce ad una misteriosa fragilità, ad una incomprensibile fine dell'esistere.

"L'avrebbe distrutto. Perché lo aveva conservato per tanto tempo? Una volta gli faceva piacere osservare il suo mutarsi e invecchiare, ma negli ultimi tempi non provava più alcun diletto. Gli aveva fatto trascorrere notti insonni; quando era lontano rabbrividiva all'idea che altri occhi potessero guardarlo. Era stato per lui come una coscienza, si, era stata la sua coscienza. L'avrebbe distrutto. […] Avrebbe ucciso così anche il passato e quella morte lo avrebbe reso libero. Avrebbe ucciso la mostruosa anima vivente, senza il suo ripugnante rimprovero, si sarebbe sentito in pace. Impugnò il coltello e colpì la tela."

Il G8 a Genova sembra, paradossalmente, rappresentare nella realtà e a livello macroscopico un dramma anche interiore, conosciuto profondamente da ciascuno di noi. Nell'immagine di una società che raggiunge aree sempre più grandi di benessere, che riesce a prolungare la vita, che procede secondo la vittoriosa teoria delle conquiste tecnologiche, ma che conserva una non considerazione ed una diffusa indifferenza verso altri esseri umani che mancano dei mezzi per sopravvivere, una società che investe nell'industria bellica più risorse che in qualsiasi altro settore, finiamo, tristemente, per riconoscere un nostro modo di funzionamento mentale arcaico e paranoicale, chiuso alla prospettiva del dialogo e dell'integrazione.

Probabilmente è per questo che le immagini del G8 si stanno facendo preoccupanti e, se vogliamo, sempre più drammatiche: sembra che l'occidente industrializzato si appresti, per ognuno di noi, a difendere con la violenza quell'immagine di uomo immortale, autarchico, onnisciente ed onnipotente, contro il pericolo del dolore per la consapevolezza di un tempo che passa, che non conosce solo il successo e il progresso, ma che è strutturalmente aperto al peso della dipendenza dagli altri, del limite, della morte.