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A morte la pena di morte

La notizia
Sembra quasi che la pena di morte sia una cosa così cattiva, ed espressione di una così efferata crudeltà che dovrebbe essere comminata a coloro che la infliggono. Sfortunatamente si tratterebbe di un'operazione senza fine.
La Repubblica, sabato 7 luglio 2001

Il commento
Pagina interessante quella di Repubblica di sabato scorso: tre nazioni fra le più diverse e lontane fra loro sono accomunate perché si trovano di fronte lo stesso tema, la pena di morte.

In Turchia, benché questa norma di legge sia in pieno vigore, non si applica più dal 1984, e si riflette sull'opportunità di abolirla, anche "per adeguarsi ai criteri Europei" in vista di una futura integrazione politica ed economica nell'Europa, appunto.

Il pezzo sulla Cina fa inorridire se si guardano i numeri: nel momento in cui il governo lancia la campagna "Colpire duro", iniziata nell'aprile di quest'anno, il numero delle esecuzioni diventa impressionante. Il record che apparteneva all'anno 1996, con 4637 'giustiziati', rischia di essere frantumato dalle condanne emesse nel 2001. Negli ultimi 10 anni sono state eseguite in Cina oltre 18.000 condanne capitali. Si osserva che "nonostante questo la criminalità aumenta in maniera vertiginosa ..."

Negli Stati Uniti, invece, "si grida al successo" del sistema giudiziario che ha consentito di scagionare, attraverso la prova del DNA, un condannato a morte accusato dell'omicidio di un'anziana donna.

I tre articoli ci offrono tre diversi 'momenti' del problema Pena di Morte e potrebbero consentirci riflessioni di diverso carattere: politico, sociologico, psicologico, etico, religioso, anche economico... Cosa ci fa più male o ci fa gridare allo scandalo? Le migliaia di ammazzati in Cina dopo un processo sommario, o il sistema penitenziario turco a noi geograficamente più vicino, ma che sembra essere caratterizzato da una barbarie senza fine.

Oppure ci fa arrabbiare la civile America nella quale ci si può salvare dalla pena capitale solo se si hanno sufficienti possibilità economiche o se, come nel caso narrato nell'articolo, si riesce "al di là di ogni ragionevole dubbio" a dimostrare la completa innocenza dell'accusato?

Sembra che si riesca a parlare della pena di morte, o della morte, soltanto se si discute di qualche suo aspetto particolare: la pena di morte è sbagliata perché non si può tornare indietro; è sbagliata perché arriva dopo un processo sommario; è sbagliata perché colpisce i più deboli o le classi meno abbienti; perché non è un valido deterrente...

Sembra proprio che non si possa ragionare se non in termini di punizione, di etica, di civiltà, di moralità, di opportunità.

Anche l'argomento più forte di tutti, quello che chiede a gran voce: 'Può un uomo decidere semplicemente della vita e della morte di un suo simile?' sfugge all'interrogativo più importante e diventa esclusivamente argomento accademico di dibattito sociologico e giuridico e non sembra cogliere il centro del problema.

Il fatto è che ci indigniamo moltissimo anche quando qualcuno compie i delitti per i quali è prevista la pena di morte. Capita anche che ci arrabbiamo quando qualcuno lede il nostro diritto alla vita. E allora? Quale è l'emozione che vale di più?

Sembra in realtà che la pena di morte possa risolvere un conflitto, un conflitto molto umano, è un espediente che serve a rendere la vita più semplice, più lineare, serve a dividere le cose, gli uomini i fatti: ci sono gli uomini cattivi che vanno puniti, se vengono eliminati siamo più tranquilli, a posto.

I crimini che pochi fra noi commettono sono gli stessi che molti di noi a volte fantasticano nella profondità del nostro essere. La punizione, la pena di morte, stende un velo, tira una linea, concede l'assoluzione "per non aver commesso il fatto" ai nostri pensieri e lascia che tutto accada nel mondo concreto e reale di Paesi stranieri, arretrati, o al di là dell'oceano.

È un tema angosciante: pare che la scomparsa fisica del male nella società (o di chi lo ha commesso) sia l'unica soluzione. A questo punto non è quindi più necessario pensare e accorgersi che il male (pensieri o fantasie aggressivi, violenti, vendicativi) è parte del nostro essere; abbiamo così creato un soggetto bene identificato adatto a portare la morte: il BOIA. In fondo nel titolo relativo alla Turchia si auspica la scomparsa del BOIA, non della pena.

Freud affema, nello scritto del 1915: "Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte", che la guerra è possibile soltanto perchè sono gli Stati a farla, gli uomini non la farebbero mai, un uomo non giungerebbe mai a così estreme mostruosità.

Credo che per quello che riguarda la pena di morte si possa fare un discorso analogo: è necessaria un'autorità esterna e superiore - uno stato possibilmente disprezzabile - che si prenda la responsabilità di effettuare concretamente quegli atti che simbolicamente corrispondono ai sentimenti più scomodi che sono dentro ognuno di noi.