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Tra legge di vita e legge di morte

La notizia
Pesaro, un ex poliziotto spara al figlio che si drogava e si ammazza. Un dramma familiare legato alla tossicodipendenza di un figlio di 17 anni, vissuta come una doppia sconfitta dal padre che, per gran parte della sua vita, la droga l'aveva combattuta come agente di polizia. Sarebbe questo lo scenario in cui è maturato l'omicidio-suicidio di Pietro Canopoli, 47 anni, poliziotto in pensione della questura di Pesaro, che lunedì sera ha ucciso con un colpo di beretta calibro 7,65 il figlio Maurizio, che voleva abbandonare la comunità di recupero dove stava seguendo un programma di disintossicazione dall'eroina. Padre e figlio avrebbero avuto un litigio in casa, a Cattabrighe nel Pesarese. Improvvisamente la discussione è degenerata fino a spingere l'ex agente a impugnare l'arma e sparare un colpo alla tempia del giovane, per poi togliersi la vita subito dopo, con un colpo alla tempia destra, esploso in rapida successione, stando in ginocchio davanti al cadavere del ragazzo. La ricostruzione è avvalorata dai primi risultati dell'autopsia svolta ad Ancona.
La Repubblica, mercoledì 1 agosto 2001

Il commento
E' un drammatico episodio del mondo della droga: un ex poliziotto di Pesaro spara al figlio che si drogava e poi si ammazza. La notizia è riportata in fondo ad una pagina di cronaca. Un ennesimo dramma familiare legato alla tossicodipendenza che quasi non fa neanche più notizia, tanto siamo abituati a leggerli sui quotidiani. Eppure, anche se troppe volte abbiamo sentito parlare di fatti del genere, non si può non restare colpiti dal particolare che il padre di quell'adolescente tossicodipendente, come agente di polizia, la droga l'aveva sempre combattuta. Dramma nel dramma, la sconfitta per quest'uomo è doppia dunque, e opportunamente questo viene rilevato. Come padre, anzitutto, che nel figlio drogato vede tutto il fallimento della sua funzione paterna. Come tutore dell'ordine e della legge, infine, che lo vede sconfitto, persino in casa propria. Di fronte a situazioni drammatiche come queste, qualche riflessione ritengo possa essere utile, se non altro per evitare di "girare subito la pagina del giornale"; o di esprimere giudizi, magari anche compassionevoli; o di scagliarsi contro i tempi che corrono e la gioventù di oggi…

La storia dell'essere umano, ci ricorda Freud, ha sempre inizio con la dipendenza, quella dipendenza radicale da un altro che si prende cura di noi quando siamo ancora fragili ed incompleti, tanto sul piano fisico quanto su quello psichico. Ora, la realtà che stiamo attualmente vivendo con la sua enfatizzazione di ideali di autosufficienza dell'individuo, pensato come libero ed indipendente, "che non deve chiedere mai"; come forte e competitivo, "sempre vincente", credo che possa aiutarci a capire un po' il sottofondo emotivo di questa tragedia. E' proprio in questo contesto socio-culturale di enfatizzazione di tali "valori" che il pericolo si annida subdolamente e sempre più in profondità, anche se perlopiù neanche ce ne accorgiamo. La fragilità implicita in ciascun essere umano, la bisognosità , il senso di inadeguatezza che ci caratterizza non possono essere eliminati né dalle potentissime "pastiglie del sabato sera", né dall'alcool, dagli psicofarmaci o dal sesso sfrenato. Anzi, proprio l'incremento di tali modalità evidenziano maggiormente, oggi forse più di ieri, quelle "malattie della dipendenza" - come qualcuno le ha chiamate - che la società con un meccanismo di diniego (direbbero gli psicoanalisti) evita di vedere. Nei decenni passati, infatti, l'uso delle sostanze stupefacenti era vissuto quale strumento di contestazione nei confronti di un mondo adulto sentito come limitante, rigido, ingiusto, con il quale c'era pur sempre una relazione, anche se di contrapposizione. Oggi, invece nelle attuali malattie della dipendenza non c'è più un soggetto di fronte ad un altro soggetto (come un giovane di fronte al padre, alla famiglia, alla società) c'è una persona tragicamente sola , che si lascia spadroneggiare da una sostanza fino a giungere ad una ferrea e non più risolvibile schiavitù. Tale sostanza diventa il "nuovo padrone" che allontana inesorabilmente dagli altri esseri umani. Chi se ne serve, lo pone a distanza, lo confina in un godimento autarchico, autogestito, solitario, dove ogni condivisione è abolita.

E, come può mai essere stata vissuta una realtà così drammatica da uno che tali sostanze, come agente di polizia, aveva sempre combattuto?

Questo tipo di "libertà" apparentemente assoluta, questa illusione di un farsi da sé senza l'altro del tossicodipendente (illusione che traspare nel suo "mi faccio") fa emergere sempre più prepotentemente una strategia inconscia che tende a far essere incessantemente presente proprio quell'altro di cui, apparentemente, si dice di non aver alcun bisogno, alcun desiderio. Sotto le spoglie di un "oggetto-sostanza", infatti, l'altro soggetto può finalmente essere posseduto direttamente quando si vuole, quanto si vuole e come si vuole. Ma, in realtà, all'interno di tale autonoma solitudine, né la sostanza di volta in volta usata, né l'espediente psichico affannosamente perseguito, riescono ad arginare quell'angoscia e quel vuoto nel quale il soggetto stesso si sente imprigionato. L'altro, infatti, con la sua esistenza separata, con il suo essere per natura distinto e diverso, testimonia e ricorda come le cose e le persone non possono essere mai possedute definitivamente, in ogni momento e per sempre. La sostanza che sembra magicamente cambiare l'assenza emotiva dell'altro (un tempo di un padre, ad esempio) in un vuoto che si può facilmente riempire, di fatto continua a riprodurre una mancanza nella misura in cui viene costantemente consumata.

Ma dove possiamo rintracciare le origini di questa tragica realtà ossessivamente ripetuta … talvolta fino alla morte?

E' qui che vorrei soffermare l'attenzione su quell'altro polo relazionale da cui il bambino dipende fin dalla nascita, quello paterno, per l'appunto. Tradizionalmente, il padre rappresenta l'autorità e la legge cui il figlio deve assoggettarsi, il codice mentale e comportamentale che verrà da lui progressivamente introiettato nel corso della vita a partire dalla primissima infanzia. Questa figura (insieme ad altre, ovviamente) diventa, agli occhi del bambino, modello e punto di riferimento per costruire il personale mondo relazionale e l'altrettanto personale modalità di interpretazione del reale. Può accadere, però, che il modello disponibile sia legato ad elementi negativi che finiscono per portare ad una situazione di ribellione e di rifiuto. Pensiamo, ad esempio, al rapporto del padre con il figlio/a, inevitabilmente caratterizzato da una grossa disparità. Il padre, invariabilmente, appare grande e potente, ma in alcuni casi tale forza sembra tanto più grande quanto più lontana dal mondo degli affetti: una potenza, in qualche modo, assoluta che esclude da sé ogni difetto ed ogni imperfezione. In tal caso, questo punto di riferimento disponibile sarà vissuto come inavvicinabile ed irraggiungibile; per un verso si desidererà diventare come il papà, altrettanto sicuri ed autorevoli; per un altro, la strada apparirà preclusa dalla propria, anche troppo evidente, fragilità e limitatezza. Tale situazione può condurre, con l'andar del tempo, ad un rifiuto del modello proposto e alla scelta di una "via negativa" di realizzazione. In questa difficile dimensione, la figura paterna di riferimento facilmente sarà continuamente attaccata, al fine di costruire quello che sembra l'unico modo possibile per affermare se stessi: "se non posso diventare uguale a te, papà, allora esisterò come qualcuno di completamente diverso da te". Il rifiuto del modello genitoriale, nel processo di differenziazione dalla potente immagine paterna potrà accompagnarsi, allora, ad un grande senso di colpa. Questo potrà tradursi in sentimenti penosi quali la disistima, la sensazione di non essere niente, di fallire continuamente, di doversi punire sempre più severamente, rinunciando progressivamente ad una propria vita affettiva, creativa, sociale. La tappa successiva potrà, infine, essere quella della totale abdicazione alla realizzazione della propria identità, fino alla morte direttamente provocata o indirettamente suscitata.

Solo all'interno di una dimensione triadica, ci ricorda infatti la psicoanalisi, dove padre e madre, entrambi, siano emotivamente presenti è possibile mediare a quella distruttività implicita nelle situazioni a due.

Può, allora, essere accaduto proprio qualcosa del genere a Maurizio e ai tanti ragazzi di cui troppo spesso leggiamo nella cronaca dei quotidiani? E può essere tutto questo che il padre di altrettanti Maurizio forse non è stato in grado di capire, in grado di tollerare, in grado di gestire? Non lo, ma so per certo che assistere quotidianamente agli effetti dei propri inevitabili errori, alle proprie possibili sconfitte, può suscitare il desiderio di far scomparire tutto quanto in un colpo; magari un colpo … di pistola, anzi due, se ad affrontare tutto ciò ci si sente soli, impotenti e abbandonati. Lasciati dal proprio ambiente esterno familiare e sociale, e, soprattutto non più sostenuti dalle proprie istanze interiori paterne. Quelle istanze di autorevolezza, di ordine, di legge possono allora diventare rigide, sempre più rigide, sempre più impositive, ed inversamente sempre meno affettive. Da elementi di comunicazione, di crescita, di vita trasformarsi, dunque, in elementi di morte … per figlio e padre , nonostante il disperato bisogno di raggiungere - almeno simbolicamente - con la stessa identica morte, quell'identità e quell'unità forse sempre cercata ma mai trovata.