Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorarne l'esperienza di navigazione e consentire a chi naviga di usufruire dei nostri servizi online. Se prosegui nella navigazione acconsenti all'utilizzo dei cookie.
Per maggiori informazioni leggi la privacy policy e la cookie policy presenti nel sito.

Quando il pensiero va in vacanza

La notizia
''Il vergognoso pasticcio di Genova ha offerto al mondo la tragicommedia di un grande paese in piena regressione, incartato in un mediocre e pericoloso spettacolo. Il risultato è che l'opinione dell' Economist, ostile e a tratti irridente verso l'Italia berlusconiana, ha fatto scuola. Non bisogna illudersi che l'opinione mondiale coincida con quella nazionale. Gli italiani preferiscono perdere le guerre che ammettere di essere stati fessi. Nel frattempo però a milioni di italiani è permesso il lusso di guardare allo spettacolo con sguardo europeo, disincantato, insensibile alla demagogia, impermeabile all'informazione servile, per quanto possibile ironico. Sono i vantaggi della globalizzazione ed in fondo, rispetto alla storia passata, non è un vantaggio da poco''.
La Repubblica del 17 agosto 2001

Il commento
Le considerazioni di Curzio Maltese -giornalista che stimo e a cui sono particolarmente grata quando si schiera coraggiosamente contro le multinazionali farmaceutiche e la troppo facile propaganda in favore degli psicofarmaci quali attenuatori di coscienza- mi suscitano una sequenza di osservazioni che vorrei tentare di organizzare nel modo meno frammentario possibile.

Maltese parla dunque della possibilità di fruire di una visione "binoculare" -la critica del mondo politico-culturale europeo da un lato e i "fatti" e i "commenti", più o meno culturali o più o meno propagandistici, provenienti dallo Zeitgeist locale- possibilità che la "maggioranza" degli italiani sembra incapace di utilizzare per un'analisi sufficientemente obiettiva di quelle che sono le speranze e le attese emotive da un lato, e le realizzazioni effettive dall'altro.

Poiché tale "incapacità" e ambiguità -se non vogliamo mantenerci nell'ambito superegoico di meri e scorretti giudizi di valore- si connota come un "sintomo", come tale va compresa nella sua genesi. A questo proposito, per un'ovvia deformazione professionale, propongo un approccio psicoanalitico al problema, partendo da un rapido excursus teorico sul tema della genesi del pensiero umano, con qualche riferimento a quello che sotto certi aspetti possiamo considerare il primo modello della mente proposto dalla psicoanalisi, cioè il modello bioniano.

Che cos'è il pensare? E' qualcosa che si apprende o rappresenta lo sviluppo spontaneo di un'attitudine connaturata? Le teorie psicoanalitiche rispondono che è la madre che insegna a pensare al proprio bambino attraverso un modo primitivo di comunicazione definito "identificazione proiettiva". Inizialmente il bambino è immerso in una sorta di sistema protomentale, in cui l'esperienza fisica e quella più propriamente mentale sono in uno stato di indifferenziazione. Un'attività successiva promuoverà la differenziazione e permetterà l'individuazione degli ambiti diversi della mente e del cervello.

L'esperienza emotiva indifferenziata protomentale, per diventare un'esperienza mentale cosciente (o inconscia) e contribuire alla strutturazione della personalità, non deve essere immediatamente eliminata, buttata fuori dalla mente, non deve tradursi in un'azione evacuativa in termini di attività pseudosimbolica (sintomi psicotici) o di interferenza sui processi neuroendocrini di autoregolazione psicofisica, che hanno lo scopo di mantenere l'organismo in uno stato di equilibrio vitale (sintomi psicosomatici), ma deve poter essere trattenuta nella mente per un tempo abbastanza lungo da permettere un'attribuzione di significato. E ciò avviene ricorrendo a metafore, miti e simboli appositamente generati dalla mente, in prima battuta nel linguaggio immaginativo del sogno, cioè come immagini oniriche che possono poi divenire coscienti o rimanere momentaneamente inconsce, per quanto parte integrante dell'esperienza emotiva del soggetto.

Attraverso l'identificazione proiettiva, la madre partecipa a questo processo di attribuzione di significato e di apprendimento di sé del bambino; nel suo inconscio ne riordina la parte perturbata, il caos di pensieri e sentimenti che egli le comunica empaticamente, e glieli restituisce meno confusi e più tollerabili. Ma tale processo che potremmo definire di simbolizzazione, è comunque faticoso ed emotivamente anche molto frustrante in quanto costringe ad un esame di realtà e quindi al confronto con un ambiente che per il bambino non è solo fonte di gratificazione ma anche di sentimenti di totale impotenza e di esclusione edipica dal rapporto con i genitori. Questa esperienza può essere frustrante al punto tale da far subire all'intero processo di significazione battute di arresto o inversioni di marcia ineluttabili, volte a sopprimerne l'evoluzione verso la coscienza.

Quando possiamo dire che la frustrazione diventa intollerabile e compromette la capacità di pensare? Innanzitutto quando si viene costantemente dispensati dal faticoso lavoro di simbolizzazione, cioè si viene sistematicamente dispensati dal pensare! Vorrei rifarmi ad alcune citazioni non psicoanalitiche.

Scrive Arnold Gehlen: "...c'è un essere vivente, che tra le sue caratteristiche più rilevanti ha quella di dover prendere posizione circa se stesso, … circa le proprie pulsioni e qualità percepite, ma anche circa i propri simili, gli altri uomini..." E, aggiungo, è un compito ineludibile ma non certo facile.

Dice Eugene O'Neill: "L'uomo è nato a pezzi. Vive per mezzo di una ricostruzione continua. La grazia di Dio è un collante".

La sopravvivenza psicofisica dell'uomo è data dalla possibilità che egli ha di assolvere questo impegno di elaborazione e di metabolizzazione: operazione complessa, faticosa, che va imparata ed esercitata. Così come è faticoso e complesso giungere ad una propria visione del mondo partendo dai frammenti di coscienza e dalla molteplicità delle esperienze che vanno continuamente confrontate e risignificate.

Appare evidente quindi che anche in termini sociali bisogna che il gruppo non distolga continuamente l'individuo da questo impegno, catturandolo in vorticosi circuiti economici che rendono subito obsoleta ed inadeguata qualsiasi acquisizione, sia nel senso degli oggetti posseduti che delle competenze. Bisogna che ci sia una madre (cultura) in grado di metabolizzare e restituire, compresi e bonificati, gli aspetti ed i vissuti più perturbati e perturbanti, perché è solo la risposta di questa madre che può condurre alla percezione di sé come unità fisica e mentale, risposta che deve essere costituita innanzitutto da accettazione e da approvazione empatica. Se questo non è avvenuto ai primordi, ci troveremo di fronte ad una generazione di "adolescenti" difficili, ribelli, aggressivi, che rifiutano l'universo dei valori genitoriali, che non ascoltano, che si allontanano spesso alla ricerca di soluzioni troppo facili, anaffettivi, che si drogano, che a volte uccidono o si uccidono. A quel punto diventa veramente difficile amarli, e l'unico modo per riconquistarli alla vita e ai valori non è la critica ma l'autocritica. E' l'impegno umile, sofferto e quotidiano alla ricerca degli errori commessi e degli emendamenti necessari. Perché ciò che giunge agli altri è essenzialmente la nostra verità emotiva e non le nostre professioni di autenticità.

Che cosa offre dunque oggi la grande madre, lo spirito del nostro tempo? Da un lato una cultura sofisticata e complessa, anacronistica, che arranca per stare al passo con un progresso tecnico che la confonde, che la trascina verso il compromesso, alla ricerca di scoop, di sensazioni, di successo economico. Supporti alla comunicazione di ogni tipo, affascinanti e miracolistici. Ma senza le istruzioni per l'uso, nel senso che non c'è più tempo per l'impegno nella costruzione dei rapporti e quindi per la comunicazione. Spesso i rapporti sono una semplice condivisione e messa in comune di questi mezzi tecnici; non c'è tempo per farsi domande, l'indifferenza accompagna le nostre corse, nessuna notizia è più sensazionale, detta al telegiornale a velocità sempre maggiore, per adeguarsi all'incapacità di attenzione propria dell'egoriferimento in cui si è immersi. E quando ad un qualche livello diamo forfait il medico ha un rimedio per ogni nostro male, purtroppo anche per i mali emotivi! E dall'altro lato la deresponsabilizzazione, il disimpegno circa la consegna umana di dover prendere posizione rispetto a se stessi e agli altri, di dover ricomporre ogni giorno l'unità del proprio Sé attraverso un'operazione di continuo confronto con tutte le sfaccettature e le implicazioni del reale, al fine di diventare capaci di pensiero e di giudizio.

Leggendo i giornali in questo periodo, soprattutto quelli per cui simpatizzo, mi sembra che siano pieni di articoli brillanti, accorati, di rimprovero nei confronti di una "maggioranza" bananiera e credulona che ha tradito, che, affascinata dalle soluzioni miracolistiche, ha tradito quell' "intellighenzia" che ha dalla sua parte impegno, ragione, cultura, verità. Ho la sensazione, nel leggere, di trovarmi di fronte a quei genitori di adolescenti difficili che, professionalmente mi capita a volte di incontrare. Genitori spesso colti, "che si sono sacrificati per conquistarsi una posizione", lavoratori, davvero accorati di fronte all'impossibilità di far mettere la testa a partito ai loro figli inspiegabilmente alla ricerca di soluzioni troppo facili. Genitori che forse non sono sufficientemente coscienti della quota di compiacimento e di solipsismo che la cultura comporta. Che forse non sono coscienti di quanto si possa lasciar soli i propri figli perché non all'altezza di considerazioni complesse. Genitori non coscienti di quanta paura si può mostrare quando qualche scambio imprevisto distoglie dai binari quotidiani e quanta credibilità si può perdere in questi frangenti. Non coscienti delle rinunce all'integrità e dei compromessi di fronte alle "imposizioni" sociali.

Forse questi genitori, che non possono non suscitare la nostra simpatia, la nostra comprensione e anche la nostra parziale identificazione, non sanno abbastanza che la conoscenza delle cose (knowing about) e le capacità critiche sono competenze diverse rispetto alla coscienza di sé e delle proprie motivazioni e che implicano sforzi diversi. Hanno idea questi "genitori" quanta destabilizzazione comporti entrare in contatto con se stessi? Quanta parte delle proprie costruzioni teoriche vada distrutta ? Sono coscienti questi genitori di quanta loro creatività finisca imbrigliata nelle convenzioni e negli immobilismi burocratici?

In fondo chi va alla ricerca di un padre potente che lo seduca senza dare nulla in cambio, è già stato a suo tempo sedotto ed è già stato deluso. E la seduzione si muove sempre nell'ambito di una dimensione narcisistica e di violenza. La grande madre -la cultura, la scienza- deve giungere a svincolarsi dagli asservimenti al già noto per comprendere la critica dei figli adolescenti che prestano attenzione a ciò che, in termini di valori personali, si veicola loro insieme alla cultura.

Forse dobbiamo diventare tutti sufficientemente coscienti del fatto che la nuova sindrome delle società avanzate non è, come per il passato, il delirio, la negazione, la rimozione del trauma ma, come dice Leo Rangell, il "compromesso di integrità" . Attualmente la patologia mentale non poggia più sul conflitto tra l'Io e le forze ancestrali dell'Es, ma sul conflitto tra Io e Super-Io.

"Se le nevrosi classiche -dice Simona Argentieri in Micromega- poggiavano su un conflitto tra l'Io e le forze istintuali dell'Es, la 'zona grigia' del compromesso d'integrità deriva invece da un ' conflitto di interessi ' tra Io e Super-Io. Per tollerare senza soffrire situazioni di realtà esterna traumatiche o corrotte, per non doversi confrontare con il compito immane di contrapporsi e differenziarsi, si organizza così una manovra di collusione e di superficiale consenso. Il vantaggio segreto è -ancora una volta- quello di evitare il conflitto, la colpa, la fatica del pensare".

In conclusione, pur condividendo tristemente la posizione che Curzio Maltese esprime nella sua rubrica, penso che sia indispensabile che chi si assume la responsabilità di "fare cultura" sia anche in grado di proporre una solida costellazione di valori positivi e negativi. Penso quindi che la cultura debba procedere non solo nel senso dell'ampliamento dell'informazione ma soprattutto nel senso dell'approfondimento psicologico, che tanto viene trascurato come marginale e pleonastico.

La cultura dovrebbe non tanto insegnare, quanto stimolare la capacità di apprendere dall'esperienza. In altre parole se non si crea una distanza riflessiva, un tempo di attesa necessario perché il senso affiori alla coscienza rendendo l'esperienza leggibile, interpretabile, gli eventi esterni, i fatti concreti, che dovrebbero poter evocare e rappresentare l'esperienza psichica relativa, vengono invece saturati immediatamente ed usati essi stessi come simboli dall'onniscenza primitiva, onnipotente, delirante, inadeguata. E la scarica della tensione non può che essere immediata e irriflessiva in termini decisamente sintomatici.