Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorarne l'esperienza di navigazione e consentire a chi naviga di usufruire dei nostri servizi online. Se prosegui nella navigazione acconsenti all'utilizzo dei cookie.
Per maggiori informazioni leggi la privacy policy e la cookie policy presenti nel sito.

La violenza dei vent'anni

La notizia
Rieccoli, come attraverso tutto il 900! Sono parole preoccupate, a tratti accorate, quelle con cui Arbasino commenta gli episodi di violenza che hanno caratterizzato le manifestazioni del G8 di Genova. Violenza apparentemente inutile e fine a se stessa, visto che i potenti della terra non hanno nemmeno bisogno di cariche politiche e di vertici da vetrina per stipulare i loro accordi che condizionano, di fatto, la vita di milioni di persone. Allora perché ci si continua a fare uccidere e ad uccidere e perché questo lo fanno soprattutto i giovani.
''La Repubblica'' del 9 settembre 2001

Il commento
"Esterina, i vent'anni ti minacciano grigiorosea nube che a poco a poco su te si chiude" ... con queste parole di Montale, Arbasino inizia le sue considerazioni su quella che chiama, a titolo dell'articolo, la violenza dei vent'anni.

E' ancora fresca la memoria delle interviste ai manifestanti fermati per gli scontri del G8: "adoro menare le mani", "avevo l'adrenalina a mille", "quando c'è da picchiare non mi tiro certo indietro" ed è proprio a queste dichiarazioni che Arbasino fa riferimento. Sembra che ancora una volta - tragico copione - i giovani compaiano sulla scena della storia secondo coordinate ineluttabilmente preordinate: "gli sfegatati interventisti, gli arditi da sbarco, gli ardimentosi legionari, gli intrepidi marò, i marines". E tutto questo con il suo inevitabile contorno, triste ed irrinunciabile carrozzone: "gli infiammati demagoghi, le cause e i miti ... Il branco, i rituali, il plotone, il corteo e l'assalto ... I capi sempre carismatici, le vittime osannate come feticci di religioni integraliste ... Tute, toghe, tonache sempre più arrabbiate, bellicose, vendicative." (dal citato articolo di Repubblica).

Come mai, sembra chiedersi l'articolista, i giovani sembrano fare sentire la loro voce, diventare visibili, solo attraverso la violenza, lo spargimento di sangue, la morte?

Come se l'impulso a crescere non potesse che approdare al tragico appuntamento della rabbia e della distruzione.

Certo non è semplice per un adolescente diventare adulto.

Il terrore di tornare indietro ad una condizione dove non è necessario pensare ed essere in proprio, protetto dall'illusione di un sapere compiuto che altri possiedono, può fare immaginare che l'unica via di salvezza sia quella di andare avanti ad ogni costo, evitando la tentazione di attendere ancora qualcosa da altri e coltivando l'intima convinzione di bastare a se stessi.

Fragilità, tenerezza, senso di impotenza e di ammirazione per la bellezza, timore e preoccupazione per il benessere del prossimo, sembrano, di colpo, sentimenti molto pericolosi, subdole trappole che rischiano di confinare per sempre in una vita come emanazione del desiderio di altri.

Il cinismo e anche l'uso della violenza vengono avvertiti, a tratti, come il modo, se pur estremo, di eliminare qualcosa di minacciosamente cattivo, da cui ci si deve liberare per sempre, in una vera e propria lotta per la sopravvivenza.

Ma esiste davvero, per l'adolescente che si appresta a diventare uomo, un pericolo così profondo e radicale, ne va realmente della sua vita?

In effetti, gli adulti possono mal tollerare la perdita di uno sguardo adorante, di una mano fiduciosa che crede di stringere un'altra mano molto più sapiente e capace della sua. La mancanza di quello sguardo e di quella stretta, può rendere di nuovo incerti circa se stessi; senza quell'accettazione e quell'approvazione incondizionata, dubbi che si credevano ormai sopiti, spesso tornano ancora più violentemente che nel passato: forse era possibile fare una scelta anziché un'altra, forse alcune cose si sono perse per sempre e non torneranno più, forse certe rinunce non erano necessarie, ma dettate da timori antichi, mai pensati ed affrontati, forse si è stati ingiusti senza motivo verso gli altri e verso se stessi.

Neanche per l'adulto, come per l'adolescente, c'è più una realtà garantita ed indiscutibile, il crollo travolge entrambi.

Una tentazione può essere quella di bloccare tutto, di esercitare la coercizione e di non lasciare partire nessuno, di continuare a chiedere agli adolescenti di essere solo il prolungamento dei propri desideri e il baluardo di fronte alla propria sofferenza. Usare la giovinezza di altri per celare le crepe dell'esistenza e per nascondere il fatto, più tragico, che l'esistenza va verso la sua fine.

Così conclude Montale la sua poesia:

"Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t'abbatti fra le braccia
del tuo divino amico che t'afferra.

Ti guardiamo noi, della razza
di chi resta a terra"

(E. Montale, Falsetto, da: Ossi di seppia)

I figli appaiono ricchi di futuro, di una pienezza di vita che ancora li attende; può essere difficile lasciarli andare, vederli portare tutta questa ricchezza con sé e rimanere semplicemente alla propria realtà.

Il dramma della crescita coinvolge tutti gli attori, sia gli adulti che gli adolescenti si sentono ricacciati in un mondo senza dei in una posizione di incertezza e di fragilità, dove ancora una volta si ripropone la fatica di tollerare la confusione, di sopportare il limite.

Proprio questo può sembrare incredibile ed inaccettabile, falsa via contro cui reagire con decisione: i figli sbagliano, dovranno obbedire comunque; gli adulti sbagliano, per crescere basta prendersi le cose senza chiedere il permesso a nessuno.

Una violenza tragica, a volte, può sembrare l'unica difesa di fronte ad una realtà meno splendente di quanto si sperava, rispetto ad una crescita che porta alla realizzazione di sé anche attraverso il dolore e la solitudine. Sono i casi nei quali questo antico dramma, non più contenuto all'interno della famiglia, popola le pagine dei giornali, i palcoscenici televisivi, le strade e le piazze delle città. Ma la realtà sociale allargata diventa teatro di questa crisi anche perché non è solo rispetto ai genitori che i figli chiedono di trovare la loro strada: la richiesta è rivolta soprattutto alla comunità degli adulti e alle loro organizzazioni. La crisi di cui parliamo, coinvolge permanentemente la società nel suo complesso, le sue leggi, la sua strutturazione.

Le immagini delle manifestazioni del G8 di Genova, ossessivamente ed incessantemente rimandate ogni giorno di questa ultima estate, sembrano avere parlato anche di questo, di uno scontro generazionale attraversato da reciproche prevaricazioni, richieste inascoltate, soprattutto dallo spettro di un dialogo tragicamente impossibile che tramonta di fronte all'irrevocabilità della morte.

Uno sgomento e una amarezza profonda che si sperava non dovere più conoscere dopo gli anni di piombo, ha nuovamente gravato la coscienza civile del nostro paese.

Infiniti ed accesi, poi, i conflitti, le polemiche, il palleggio delle responsabilità: chi deve pagare, dare ragione, placare, il sangue per chi non avrà mai più vent'anni?

E' davvero ineluttabile l'appuntamento con la violenza e con la morte, nessuna forza può togliere dal copione la rappresentazione del sacrificio della vita?

Anche a Genova per il G8 sono state nominate espressioni ormai non più del tutto nuove: manifestazione pacifista, impiego di tecniche nonviolente, rifiuto dello scontro armato e queste espressioni, per la prima volta, paradossalmente in modo davvero globale, hanno occupato gli schermi di tutti i paesi del mondo.

In effetti, già da tempo le domande precedenti sembrano essere oggetto del pensiero collettivo e lo impegnano nella ricerca di un diverso uso della violenza all'interno dei contrasti sociali, un uso che non lasci più al caso, assolutamente non pensato, il destino dell'esistenza di quanti sono coinvolti nel contrasto stesso, al sostegno di opposte ragioni ed interessi.

Ma sembrano proprio gli attori degli scontri a giudicare non affidabili o a condannare decisamente le tecniche e i gruppi di ispirazione nonviolenta. Per le forze dell'ordine, sono strutture mimetiche, una sorta di cavallo di Troia che cerca di contrabbandare la distruzione organizzata e la destabilizzazione dello Stato. Per molti manifestanti, spesso solo tecniche inefficaci che devono venire abbandonate velocemente di fronte agli attacchi più pesanti della polizia.

In verità, tali convinzioni sono, per certi versi, sorprendenti quando si commisurano alla storia: se l'azione nonviolenta non sempre porta ad una vittoria completa, questo è certo vero anche per le guerre. Se si pensa che la tecnica nonviolenta abbisogni di tempi lunghi per approdare a qualche risultato, nessuna azione che preveda lo scontro armato è in grado di assicurare le vittoria lampo.

"Quando la violenza fallisce - dice Gene Sharp - o ottiene risultati limitati o richiede tempo, si tende ad attribuire la responsabilità a specifici fattori ed inadeguatezze e non al metodo in se stesso, contrariamente a quanto avviene di solito quando si ricorre all'azione nonviolenta. Raramente i due metodi vengono comparati accuratamente ed imparzialmente in termini di tempo, successi ed insuccessi, adeguatezza della preparazione, perdite umane. Si tende a dimenticare i casi in cui l'azione nonviolenta ha ottenuto successi parziali o totali, minimizzandoli o trascurandoli come irrilevanti" (Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta. Gene Sharp è il direttore del Program of Nonviolent Sanctions del Center for International Affairs della Harward University)

Ma forse la difficoltà ad accettare questa forma di contrapposizione può non essere estranea a quanto più sopra si osservava.

Probabilmente è più difficile sostenere una lotta dove non si ritiene più che l'avversario, sia esso poliziotto o tuta bianca, adolescente o adulto, contenga, al suo interno, elementi esclusivamente negativi che possono solo essere eliminati per il bene di tutti. Un avversario a questo punto estraneo, alieno, inassimilabile alla propria esistenza, rispetto al quale anche l'uso della violenza è lecito.

Forse non è semplice perdere tutto questo, ultima divinità negativa, immaginare che il potere come il consenso di un gruppo, per quanto estesi, siano sempre fragili e revocabili, dipendenti dalle condizioni, dalle opportunità, dalla storia. Immaginare che anche l'avversario rappresenta ragioni e valori condivisibili e che una possibile vittoria su di esso non sarebbe la soluzione al personale dolore di esistere. La sconfitta dell'altro, non eliminerebbe l'incertezza e la solitudine, l'insoddisfazione per le scelte fatte, la sofferenza per le sconfitte.

Certo tutto questo non è semplice né lieve: come l'adolescente insieme all'adulto a poco a poco possono scegliere di apprezzare di più la bellezza delle cose, piuttosto che la loro potenza o il loro successo, per farsene ispirare nell'azione, senza più obbligarsi a sacrificare parti di esperienze emotive sull'altare dell'onnipotenza, anche nella società sembra maturare l'esigenza di una diversa gestione della violenza che non comporti più la distruzione e l'olocausto della vita come unica forma efficace di contrapposizione.

Da questo punto di vista, anche se per una giusta causa, ogni morte è un impoverimento, terribile rito sacrificale attraverso cui il mondo degli adulti potrebbe credere di garantirsi un freddo ed imperituro rispecchiamento dell'identico, mentre il gruppo degli adolescenti l'ascesa ad un potere vertiginoso ed assoluto, bellissimo e puro nella sua totale assenza di memoria e di radici.

"Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare che l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe nessuna differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione."
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti - La casa in collina.