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L'alto prezzo dell'emotività negata

La notizia
E il medico diventa cinico. Ti rende cinico, quasi ''staccato'' dalla realtà emotiva che ti circonda. E ti fa diventare così ''cattivo'' da scaricare sugli altri, siano essi collaboratori, amici o ''utenti'' di quanto stai facendo, le tue frustrazioni. Convegno a Genova per studiare il fenomeno del Burn Out, il prezzo dell'aiuto agli altri.
''Il Secolo XIX, venerdì 9 novembre 2001

Il commento
E' la sindrome del Burn Out: può accadere a persone che si occupano degli altri a livello psicologico e sociale come medici, infermieri, insegnanti, magistrati, sacerdoti, psichiatri e psicologi. Chi decide di intraprendere queste professioni spesso ha motivazioni profonde che possono rimanere sconosciute al soggetto in questione. Tali motivazioni nascono e si sviluppano lungo l'arco della vita e in conseguenza delle proprie esperienze personali, in particolare all'interno della famiglia d'origine. Il desiderio di occuparsi di altri esseri umani può dunque derivare da un'abitudine acquisita fin da bambino a porsi come soggetto che ascolta e soccorre il genitore, per tale ragione rinforza in quest'ultimo lo statuto di individuo diventando una sorta di specchio nel quale egli può riconoscersi. Il sentirsi così importante nel farsi carico di questa funzione, pur nell'enorme presa di responsabilità, porta il bambino a sostenere l'adulto piuttosto che essere da lui sostenuto e riconosciuto, nel tentativo disperato di essere da amato.

Quando si diventa a propria volta adulti si può tendere a perpetrare questo modello, a farsi contenitore delle richieste e delle angosce altrui, oltreché dei bisogni fisici e psicologici. Nell'altro però può essere proiettato il nostro stesso bisogno, in noi non riconosciuto, negato e quindi scisso. L'illusione può renderci persone che "al di qua della barricata" si occupano di chi ha bisogno "al di là" dove chi è debole, fragile, malato o bisognoso di aiuto e di cure ci chiede qualcosa e dove noi ci sentiamo forti e in grado di dargliela.

Il non riconoscere però che anche noi possiamo essere individui estremamente bisognosi perché ciò può portarci a percepire anche la nostra fragilità e dipendenza arriva a farci sentire molto soli, nel tentativo di "curare" negli altri quello che non riconosciamo in noi stessi.

A questo punto però la richiesta di aiuto, il grido angosciante di chi non ammette deroghe ci risulta estraneo, pressante, persecutorio; sembra che una violenza invadente si appropri di noi non lasciando nemmeno lo spazio per pensare, per vivere i propri affetti, per elaborare i propri stati d'animo.

Il tentativo di attuare una difesa, di affermare che tutto questo dolore riguarda l'altro, malato o bisognoso di cure e d'attenzione ma non noi, può stare nel trasformarsi in esseri estranei a quanto stiamo vivendo, staccati dalla realtà emotiva vissuta come pericolosa. Il lavoro, allora, può essere svolto in modo automatico, a volte anche in maniera efficiente, purché la realtà emotiva non sia percepita, purché l'anestesia che ci procuriamo ci preservi da quegli stati d'animo che temiamo.

Questa posizione risulta essere, specialmente su tempi lunghi, estremamente limitante per l'individuo che la vive: essa porta a negare la percezione emotiva di buona parte delle esperienze che ci circondano, quindi a sentirci estranei, al di fuori del contatto con la realtà che si sta vivendo, quasi alienati.

Sembra una vita in cui sia difficile o impossibile apprendere dall'esperienza che pure stiamo vivendo: anche la nostra stessa facoltà di percepire stimoli emotivi diventa impoverita; la possibilità di imparare dagli altri sembra spegnersi ogni giorno di più, è "un morbo invisibile che può assumere le sembianze di una depressione invincibile ed è comunque difficile da curare".

Allora la risposta può trasformarsi in efficienza sul lavoro, in fatica estrema ed estrema solitudine: l'onnipotenza di chi si occupava degli altri malati e bisognosi diventa impotenza, disperata rinuncia a cambiare qualcosa, senso di sconfitta.

Gli "utenti" con le loro richieste diventano portatori di istanze che sembrano annientarci; sconosciute e pericolose esse ci rimandano il limite, la finitezza che è propria di ogni essere umano ma anche la frustrazione di sentirci quasi paralizzati di fronte a certi eventi che sembrano ripetersi sempre uguali.

Nel tentativo di difenderci da tanta angoscia della quale possiamo non capire l'origine ma che ci viene chiesta di contenere possiamo, allora, scaricare sugli altri le amarezze e il malumore: e se il problema non viene curato, nel momento in cui l'individuo diventa "capo" riproduce sui sottoposti la sua tensione creando un ambiente di lavoro invivibile.

Diventa visibile in questi stati come l'individuo chieda agli altri di farsi carico al suo posto dell'ansia che prova: qualcuno che sia in grado di contenere la delusione e la rabbia vissuta e in questo modo limitare e dare un senso, pur illusorio, a ciò che così pesantemente si vive.

Ma quale può essere la risposta, quale il lavoro da fare per impedire di essere colpiti dal "morbo invisibile" del Burn Out? La risposta può forse trovarsi in una maggiore conoscenza di sé, dei propri bisogni ed emozioni al fine di comprendere che esse possono accomunare tutto il genere umano pur se a livelli quantitativi diversi.

Conoscendo ciò che ci contraddistingue nel profondo non saremo tentati di negarlo e di vederlo solo negli altri come qualcosa che può attaccare e distruggere la nostra individualità.