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Morire in nome di Allah

La notizia
Corsa all'arruolamento per morire in nome di Allah, dove vengono tratteggiate le caratteristiche dei kamikaze palestinesi, responsabili degli ultimi attentati terroristici nel cuore di Gerusalemme.
La Repubblica, 4 dicembre 2001

Il commento
Le recenti notizie provenienti da Gerusalemme sembrano appesantire ulteriormente i mesi e i giorni che stiamo vivendo. Ancora morti, ancora rappresaglie, in una spirale di violenza apparentemente inarrestabile, senza fine e senza speranza. Possibile che siano questi i "frutti dei tempi?" Eppure eravamo convinti che tutto quello che sta accadendo - la violenza agita, l'uccisione di massa, la guerra - fosse fenomeno del passato, consegnato definitivamente ad una nostra primitività rozza e poco evoluta. Nei roghi del secondo conflitto mondiale, nell'olocausto, nelle ore pietrificate di Hiroschima, pensavamo si fossero consumate una volta per tutte la follia e la furia cieca dei popoli. Nel nostro universo pacificato, nelle nostre città piene di luci e di alberi verdi, l'unica attesa sembra dedicata ad interni domestici ovattati che si rimbalzano sulle immagini delle rivista di cucina o di arredamento: caminetti accesi, fiori, tavole imbandite per la celebrazione e la conferma rassicurata di una intimità protettiva, spesso fastosa.

Invece, muovendoci veloci tra le vetrine scintillanti, investiti e trasfigurati da colori soffusi che vanno dal rosso all'oro, con inquietudine sottile, non sappiamo decidere se la manica del cappotto si è sporcata perché ha scontrato contro l'albero inghirlandato del grande magazzino, oppure se un poco di polvere sollevata dalla bombe è arrivata sino a noi.

Le immagini che ci trasmette la televisione risultano sorprendenti: paesaggi fatti di pietra e di sabbia, uomini feriti, mutilati, con in mano cannoni e fucili. Una bomba ogni due minuti su Kandahar. L'esodo di un popolo, i campi profughi, una disperazione insensata. Non può essere, quello, anche il nostro mondo; forse siamo una colonia definitivamente staccata dalla madre patria, partita secoli prima per popolare un altro pianeta, oppure siamo esposti ad un messaggio virtuale tra gli altri, una rappresentazione scenica semplicemente più lunga e ripetitiva del solito. Ma l'apparente incredulità cela, forse, il disagio che tutto questo ci riguardi direttamente, uno per uno, casa per casa. E' l'angoscia per un disastro collettivo imminente che ricaccerà il nostro pianeta, come nei consueti film di fantascienza, sino alla miseria delle origini, nella consumazione di tutte le conquiste della nostra civiltà. Oggi forse non siamo diversi, dai romani che, sul finire dell'impero, sentivano altri popoli premere ai confini dello stato.

Il nostro sogno di pacificazione infinita si è incrinato soltanto pochi mesi fa quando kamikaze alla guida di alcuni aerei si sono schiantati su New York, sul pentagono, sull'America. Le tribù ai confini del mondo a noi conosciuto, le tribù parificate tutte nella categoria di "popoli in via di sviluppo" escono dall'indifferenziazione con messaggi di morte.

Kamikaze, parola pesante e terribile. Così recita il Corano:
"Il martire è il prediletto da Dio. Non dovrà attendere il giorno del giudizio per entrare in Paradiso, vi accede nell'attimo stesso in cui abbandona questa vita terrena. Il martire non dovrà rendere conto dei suoi peccati [...] Non considerate coloro che muoiono per la causa di Dio dei morti, coloro che combattono per la causa di Dio ottengono la vita eterna in cambio di quella terrena".

L'età dei kamikaze è compresa tra i 18 - 23 (64%) e i 24 - 30 anni (34%); la maggioranza di essi è in possesso di un diploma di laurea o di scuola media superiore. Non sono una sparuta minoranza di emarginati, ma il loro numero risulta sempre in aumento, al punto che gli organizzatori delle operazioni belliche hanno difficoltà a farli attendere per l'occasione opportuna. "Abbiamo martiri per i prossimi vent'anni" afferma Khaled Meshaal, dirigente dell'ufficio politico di Hamas. E' difficile accettare il pensiero che un giovane di diciotto anni si prepari a morire il più presto possibile come suo unico e significativo progetto di esistenza, si appresti a trasformare se stesso in arma mortale per altri.

Il ricordo immediato è quello del nostro Medioevo, dell'integralismo religioso e dei suoi eccessi, dei roghi della santa inquisizione. Anche in questo caso, tutto sembrava superato e sepolto in un passato, certo terribile, ma definitivamente compiuto. Ci si ripropone, invece, con forza di assolutismo, il credo di una vita vera, quella dopo la morte, rispetto a cui l'esistenza terrena, la sola di cui ora facciamo esperienza, è mero accidente, superficie, assenza di autonomo valore. Tutto è materia contingente, pallido epifenomeno del vero essere e la morte è; l'atteso superamento della distanza che ci separa dall'autentico bene. Una prospettiva che può trasformarsi nel tentativo di eludere il peso della nostra finitudine e il mai risolto dubbio che l'ultima parola, per quanto ci riguarda, spetti, alla distruzione, alla negatività, alla dissoluzione di tutti i nostri significati affettivi.

Così dice Fernando Pessoa ne "Il libro dell'inquietudine":
"Penso in continuazione, sento in continuazione; ma il mio pensiero è privo di raziocinio, la mia emozione è priva di emozione! Da una botola situata lassù, sto precipitando per lo spazio infinito, in una caduta senza direzione, infinitupla e vuota. La mia anima è un mäelstrom nero, una vasta vertigine intorno al vuoto, un movimento di un oceano senza confini intorno ad un buco nel nulla, e nelle acque, che più che acque sono turbini, galleggiano le immagini di ciò che ho visto e sentito nel mondo: vorticano case, volti, libri, casse, echi di musiche e spezzoni di voci in un turbine sinistro e senza fondo.
E io, proprio io, sono il centro che esiste soltanto per una geometria dell'abisso; sono il nulla attorno a cui questo movimento gira, come fine a se stesso, con quel centro che esiste solo perché ogni cerchio deve possedere un centro. Io, proprio io, sono il pozzo senza pareti, ma con la resistenza delle pareti, il centro del tutto con il nulla intorno.
E in me è come se l'inferno ridesse, senza neppure l'umanità di diavoli che ridono, la follia starnazzante dell'universo morto, il cadavere girante dello spazio fisico, la fine di tutti i mondi che fluttua oscuramente al vento, disforme, fuori del tempo, senza un Dio che l'abbia creata, senza neppure se stessa che gira intorno nelle tenebre delle tenebre."


Certamente, può essere forte la tentazione di credere di stare semplicemente scivolando sulle vita, guardata con malcelato disprezzo proprio per le sue mancanze e la sua incompiutezza. Sentire solamente trascorrere sulle ore, luminosi e sicuri, indifferenti alle parole degli uomini, circonfusi da una verità divina, la sola che ci riguarda personalmente e per la quale non dobbiamo ringraziare nessuno. Scoprire che il nostro significato, ciò per cui vale la pena di vivere, non è affidato alle relazioni con gli altri, ma alla parola rivelata di un Dio e al modo in cui sapremo rispondere ad essa, alla disponibilità di cui saremo capaci. La nostra realtà fatta di limiti e di incertezze, la nostra storia di miseria e dolore, può essere rifondata dalla forza di un credere perfetto che accoglie in sé l'estremo sacrificio, può venire trasfigurata come nessun rapporto umano, nemmeno il più intimo e profondo, potrà mai fare per noi.

L'assoluta bellezza e compiutezza del sacrificio estremo, cancella e purifica anche ogni gesto della vita. Non è più necessario lasciare spazio al pensiero che ricorda le nostre azioni e che, in alcuni casi, le può scoprire sbagliate, ingiuste, addirittura crudeli. Possiamo liberarci una volta per tutte del pungolo dolorosissimo che ci spinge a cercare una possibile riparazione, nel crollo dell'immagine di una personale ed autonoma perfezione, né sopportare il peso soffocante di un irrevocabile "troppo tardi", il peso a volte straziante di non potere fare più nulla. Un unico gesto sublime cancella la sofferenza della coscienza, un atto senza rapporto con nessuno ripristina un'innocenza assoluta.

Ma, in fondo, non è proprio questo il sogno che cerca di costruire anche la nostra civiltà?

Il modello occidentale con cui ogni giorno ci confrontiamo è quello di un essere imprescindibilmente giovane, eternamente single, lontano e non legato a rapporti considerati fragili e deludenti, brillante ed affermato in una professione totalizzante, mai perdente e che non muore mai.

Chi muore, generalmente è confinato e nascosto, allontanato dalla vita quotidiana, nel timore di una terribile e corrosiva contaminazione. Di morte non si parla mai e l'obbligo, per tutti, è quello di nascondere i segni di un declino fisico vissuto come vergognosa mancanza di adeguatezza sociale, foriero di emarginazione. Cure estetiche sempre più raffinate, interventi chirurgici, soggiorni in cliniche specializzate, il ricorso massiccio alle tecniche della fecondazione artificiale sono al servizio, per certi versi, della negazione del limite e della caducità delle cose terrene, compresi noi stessi.

Al pari dei kamikaze, desidereremmo liberarci per sempre del peso di dovere costruire passo per passo i nostri progetti, accompagnati dall'amarezza delle frustrazioni e dei fallimenti. Soprattutto desidereremmo essere sollevati dalla fatica di amare, all'interno di rapporti che ci rendono spesso insoddisfatti per la mancata perfezione dell'altro, che ci aprono alla sofferenza per la possibile perdita di un bene e di un affetto che non sono sotto il nostro esclusivo controllo.

Attraverso il supporto delle scoperte scientifiche e tecnologiche, non cerchiamo semplicemente di prolungare la vita, ma un particolare periodo di essa, quello in cui si può ancora profondamente credere che si esisterà per sempre, in una perennità di affermazione autarchica di se stessi.

Proprio il periodo di vita nel quale i kamikaze decidono di uccidersi uccidendo. La forza della giovinezza dall'una e dall'altra parte, al servizio di un tristemente simile sogno di potenza.

Un sogno che inizia anche dalla nostra incapacità di dialogo con la diversità e con ciò che, in quanto diverso, è avvertito come fragile e dolorante. L'impulso che ci spinge a nascondere con vergogna la vecchiaia, la malattia, la solitudine e la morte è lo stesso, forse, che ci impedisce di conoscere e di comprendere le tribù in via di sviluppo che ci circondano.

Nel passato erano il buon selvaggio a cui portare il messaggio della salvezza e della verità; missioni e chiese di cemento in universi di terra e di fango, accoglievano e vestivano con divise d'ordinanza una moltitudine di bambini senza identità, da plasmare, a cui annunciare la buona novella. La violenza non è cambiata nel corso del tempo, quando alle missioni si sono semplicemente aggiunte le multinazionali o i villaggi turistici per i nostri sogni esotici. Un imperialismo arrogante si è cercato "riserve umane" indifferenziate, da utilizzare per l'industria, per il collaudo delle proprie armi, per il personale piacere. Tanto tutto accade in luoghi troppo lontani e forte è il senso collettivo di impotenza.

Ma l'inquietudine ci lascia sempre meno, è terribile pensare di costruire il proprio sogno di immortalità sulla miseria e sulla morte di interi popoli. Come terribile è sospettare che forse, per la nostra parte di responsabilità, a quei popoli non abbiamo lasciato altro spazio se non quello dei kamikaze, altro messaggio possibile da mandare.