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Orrore per chi, orrore per cosa

La notizia
Nel mare di un paese che è la porta dell'Occidente, del futuro e della libertà per i disperati di mezzo mondo, scompare una nave carica di clandestini, nella notte del 25 dicembre 1996. C'è il racconto di qualche superstite, la supplica delle famiglie dei naufraghi che li hanno visti partire e poi scomparire senza una traccia, gli appelli delle comunità cingalesi, le richieste di aiuto dei governi indiano e pakistano perché la tragedia venga chiarita. Per quasi cinque anni la risposta è stata la stessa: si tratta di un ''naufragio fantasma'', forse una leggenda senza veri nomi e cognomi, una storia senza esito, un dramma senza colpe e senza testimoni, senza neppure un luogo certo. Un cronista di Repubblica, Giovanni Maria Bellu, svolge una sua inchiesta, trova le testimonianze dei pescatori di Portopalo che un mese dopo il naufragio hanno scoperto cadaveri e documenti cingalesi nelle reti, scova verbali di carabinieri, accerta le coordinate. Il nostro giornale invia un robot a filmare il fondo marino, a 108 metri di profondità, e trova la nave, con i fagotti dei corpi, i sari dei tamil, le scarpe e le valigie, gli scheletri dei naufraghi. Il caso è chiarito cinque anni dopo.
La Repubblica, 16 giugno 2001

Il commento
Questa notizia riportata su tutti i giornali e, con le immagini filmate, sulle reti televisive e su internet, ha destato "orrore, sdegno, dolore, vergogna". Si sono mossi Nobel e ministri ed ora che in qualche modo si è dimostrata la verità, non si può più adottare la politica dello struzzo. Forse ci saranno altri modi per attenuare quello che è accaduto e, dalla prima pagina, relegare il seguito in qualche trafiletto che leggerà solo chi avrà mantenuto il ricordo, perché più vicino o più coinvolto.

Quello che si perde è che le testimonianze, le denunce dei superstiti, sono state prese per fantasie, altrimenti sarebbe emersa la speranza tradita di chi ha risparmiato anni per trovare posto in quella nave. Si perde l'azione criminale di chi, fucili spianati, ha costretto i clandestini a trasbordare, in una notte di tempesta, su una nave più piccola e malandata, che subito imbarca acqua, e che, nel tentativo di tornare indietro, viene speronata dalla nave grande e in pochi minuti affonda. Che i superstiti, evidentemente non appoggiati dall'equipaggio della nave, unico testimone certo della tragedia, sono stati continuamente smentiti: dopotutto chi parla è un clandestino, di un altro continente e nessuno sembra aver visto nulla.

Negare, nascondere, occultare, fare come se nulla fosse successo, tutti meccanismi difensivi adottati in massa; possiamo chiederci per quale scopo, anche se lo sappiamo. Per mantenere quella quiete che ci fa dire: "E' terribile", "Non deve più succedere", "Non avrei mai immaginato", "Era una famiglia così tranquilla" ogni volta che accade qualcosa di cruento vicino a noi.

Mi domando perché proviamo orrore per incidenti con vittime così numerose, per i massacri in massa delle guerre, tutte ormai a noi vicine; perché ci sentiamo coinvolti e restiamo tuttavia spettatori impotenti e colpevoli.

Le grandi migrazioni, in alcuni loro effetti, sono paragonabili un po' alle guerre, perché sconvolgono l'assetto del paese in cui giungono gli stranieri, aumentano l'intolleranza e rinforzano le modalità difensive, la presenza dei clandestini ci ricorda la povertà da cui ci siamo sollevati, ci fa sentire colpevoli del nostro benessere.

Quante volte abbiamo sentito, senza volerlo sentire, "Affondassero tutti con i loro barconi!!", negando una tolleranza che poi nei fatti c'è.

"Il nostro inconscio si accontenta di pensare alla morte senza realizzarla. Ma sarebbe un errore sottovalutare questa realtà psichica rispetto alla realtà di fatto. Nei nostri desideri inconsci noi sopprimiamo ogni giorno, e ad ogni ora del giorno, tutti quelli che si trovano sul nostro cammino, e che ci hanno offesi o danneggiati. "Che il diavolo ti porti!", diciamo correntemente e con un tono scherzoso che dovrebbe dissimulare il nostro cattivo umore. Ma ciò che vogliamo veramente dire, senza avere il coraggio di farlo, è: "Che la morte ti porti!"; ed il nostro inconscio prende questo augurio di morte molto più sul serio di quanto noi stessi pensiamo, e gli dà un tono che la nostra coscienza è subito pronta a sconfessare. Il nostro inconscio uccide anche per dei particolari; come l'antica legislazione ateniese di Dracone, esso non conosce per i crimini altra punizione che la morte, giacché ogni torto inflitto al nostro Io autocratico e onnipotente è, in fondo, un crimen laesae majestatis.". (S.Freud, Opere, pag.145)

Nel tentativo di non riconoscere questa nostra realtà interna, siamo presi da civile orrore di fronte ai filmati di povere vite anonime spezzate una notte di Natale. E se non ci fossero, altamente apprezzati anche se come genere un po' a parte, i film dell'orrore, quest'ultimo potrebbe sembrare semplicemente un sentimento che l'uomo prova di fronte a qualcosa che sente contrario ad ogni umanità. Ma se così fosse perché tanti ricercano attraverso film in cui si sprecano cadaveri, scheletri, membra a pezzi e in dissoluzione (per fortuna finti) quel brivido perturbante legato a qualcosa di temuto che torna dal mondo in cui era sotterrato, dimenticato, rimosso si direbbe in psicoanalisi?

In realtà niente di ciò che nei film ci sembra così distante da noi lo è veramente: lo è solo da quella minuscola porzione di noi che è consapevole. Infatti non conosciamo che molto poco il funzionamento della nostra (molto vasta) realtà inconscia. Infatti nominare l'inconscio non è più di moda da un po' di tempo. Forse perché disturba molto l'idea di essere determinati, spesso, da impulsi da noi non coscientemente controllati. Impulsi che seguono una logica tutta loro. Per cui sappiamo che persistono in noi tutte le fasi di sviluppo (compresa la naturale e inconsapevole ferocia del bambino piccolo) a cui, in qualsiasi momento difficile, possiamo regredire. Inconscio in cui il tempo non passa mai ed è circolare, non consentendoci un passato e togliendoci la speranza di un futuro, in un'inerzia dura da contrastare. Inconscio che in una logica binaria conosce solo l'amico o il nemico, l'amore o l'odio, la vita o la morte.

Freud nel ripercorrere l'evoluzione dell'uomo alla ricerca di un senso all'orrore per delitti così spesso perpetrati, ci dice come aspetti civili e morali siano acquisizioni recenti e precarie, a cui si abdica fin troppo facilmente, specie quando l'intelligenza e la logica siano spazzate via dai forti sentimenti che si generano nei grandi gruppi, da un lato dando il senso dell'appartenenza, dall'altro rendendo l'individuo ottuso ed incapace di pensiero libero rispetto all'odio che prova, anche in tempo di pace, per individui di altri nazioni, razze, ideologie, religioni, ecc. Ci dice dell'ipocrisia venata di paura per cui: "Il rispetto per i morti, di cui poi i morti non hanno più bisogno, ci appare più importante della verità, ed a molti di noi, persino superiore al rispetto per i vivi". (S.Freud, Opere. Pag.138)

Ci fa orrore anche sapere che alcuni pescatori hanno ributtato a mare i cadaveri per difendere il proprio lavoro e per non farsi coinvolgere, ma che avremmo fatto noi ce lo chiediamo? E non è più realistica la posizione del comandante del "Tuono" che dice: " ... mi hanno detto che è stato trovato quel relitto con gli scheletri ... ma io resto della mia idea: se a mare vedo un uomo vivo gliela do io la mia vita, ma se lo vedo morto ... pace all'anima sua."

Il dubbio che ci sia qualcosa di più dell'indignazione per l'assoluto non rispetto della vita umana, ormai mercificata senza speranza, specie nelle popolazioni povere asservite alla logica del profitto o del potere, mi porta a rileggere le "Considerazioni sulla guerra e sulla morte" di Freud che, con lo stupore del positivista fiducioso nella perfettibilità umana, assiste sgomento alla prima guerra mondiale, che dà inizio con i suoi orrori, alla fine dell'illusione dell'intellettuale che la pace possa diventare patrimonio comune e stabile del genere umano. Anzi ci perdiamo nel confronto con le popolazioni cosiddette primitive.

"Il selvaggio ... non è affatto un assassino impenitente; quando egli torna vincitore dalla guerra non ha il diritto di entrare nel villaggio e di toccare la propria donna, finchè non abbia espiato, con penitenze spesso fastidiose e dolorose, gli omicidi commessi in guerra. E' inutile dire che questa interdizione deriva da una superstizione, in quanto il selvaggio teme la vendetta degli spiriti di coloro che ha ucciso. M a questi spiriti non sono che l'espressione della sua cattiva coscienza, del suo rimorso per i crimini commessi. Nel fondo di questa superstizione c'è una certa finezza d'animo di natura morale che in noi uomini civili è andata perduta." (S.Freud, Opere, pag.143)

La patina di civiltà che ricopre i nostri impulsi primitivi ci aiuta ogni giorno a dimenticare, tranne quando, in realtà ormai troppo spesso, accade qualcosa che ci riporta un senso di orrore perché accade sempre, ciclicamente che l'uomo si riveli indegno della sua collocazione in cima all'evoluzione. Non stupiamoci più sentendoci estranei, questa patina è così recente, che basta poco perché lo si dimentichi. E non facciamo come se non riconoscessimo in quell'orrore la tentazione a cui tutti i giorni ci sottraiamo: quello che ci turba è che bastava poco e poteva capitare a noi sia di essere vittime ma soprattutto di essere carnefici, e soprattutto che la crudeltà è stata nostra compagna normale intorno ai due, tre anni, quando in realtà non si possono fare grandi danni e l'averla superata non significa che è a noi estranea..

"Non c'è bisogno di proibire ciò che nessuno desidera. Proprio nel modo in cui è formulata la proibizione non uccidere può darci la certezza che noi discendiamo da una serie infinitamente lunga di generazioni di assassini che, come forse anche noi oggi, avevano nel sangue la voglia di uccidere". (S.Freud, Opere, pag.144)

Parafrasando, dice Freud anziché si vis pacem para bellum, si vis vitam para mortem. Ovvero, se vuoi vivere la vita non negare né dimenticare anzi sii consapevole della facilità e dell'ubiquità della morte.