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Il sorriso di mia madre

La notizia
Uscirà tra un mese e poi rappresenterà l'Italia a Cannes L'ora di religione, l'ultima fatica cinematografica di Marco Bellocchio che, in un primo tempo, il regista pensava di intitolare Il sorriso di mia madre.
La Repubblica, sabato 16 marzo 2002

Il commento
La trama del film ci racconterà la singolare storia del processo di beatificazione di una donna. Il protagonista, Ernesto, appena separato dalla moglie, viene inaspettatamente convocato da un cardinale che sta istruendo la causa di beatificazione di sua madre.

Il processo religioso è stato richiesto dagli altri tre fratelli, con i quali Ernesto ha rotto i rapporti da molti anni. Il primo, Erminio, vive e lavora in Africa; il secondo, Ettore, ex estremista, cerca di recuperare e di rimettere insieme la sua vita. L'ultimo, Egidio, quello che, in un'esplosione di violenza, ha ucciso la madre, condannato, per questo e contenuto in un carcere psichiatrico, si è chiuso, da allora, in un definitivo mutismo. L'intera famiglia, coalizzata per ragioni opportunistiche, tenta di trarre vantaggio dalla tragedia.

Un film, apparentemente, dalle tinte intense e saturanti.

Così risponde Bellocchio all'intervistatore che gli chiede ragione dell'indecisione sul titolo: ''L'ora di religione'' è solo un pretesto, ma è diretto. ''Il sorriso di mia madre'' va più in profondità, evocando la capacità di una madre di distruggere un bambino indifeso con il suo sorriso apparentemente benevolo che può nascondere indifferenza e, peggio, anaffettività.

Ci immaginiamo la famiglia, una lenta ed inesorabile freddezza fatta di sguardi mancati, di attenzioni negate, di assenze, attese deluse. Al posto di un'intesa, una corrente pietrificante di odio, al posto di un fiducioso abbandono, il dolore della disperazione.
Sappiamo quanto tutto questo possa essere intollerabile, quasi mancanza fondamentale, origine di ogni vuoto e dolore.

Se, attraverso le sue cure, la madre non placa solo la fame, ma trasforma, quasi per divino potere, sentimenti di rabbia e terrore in sazietà e benessere, il bambino mutua da lei, oltre l'alimento per conservare la sua vita biologica, anche l'esperienza di una riunificazione della mente, minacciata da emozioni troppo intense, dolorose, distruttive. Deriva la sicurezza della sua continuità d'essere e del suo significato.

E' quasi un'opera creatrice profonda e silenziosa: il modo in cui è cullato, nutrito, cambiato, carezzato, diventa la prima grammatica che plasma il suo mondo, lo ordina e lo dota di senso.
E' un'esperienza così importante che condiziona tutto il resto della nostra vita come tensione alla ricerca di avvenimenti e di incontri che ancora sappiano ricomporre le nostre frammentazioni in una fragile e luminosa unità

Di questi momenti fatti di un tempo sospeso, rapito in una antica e non ancora detta meraviglia, spesso ci parlano i poeti.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose si abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto […] più chiaro si ascolta il sussurro dei rami amici nell'aria che quasi non si muove e piove in petto una dolcezza inquieta […] Lo sguardo fruga d'intorno e la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga. (E. Montale, I limoni)

Spazi di un fortuito incontro con qualcosa che ci è noto, ma che pare trasfigurare una sua più profonda essenza che tocca la nostra anima sino alla commozione. Una nuova ed antica pienezza, di cui sembrava smarrita la memoria, è ancora vicina, quasi la si può accarezzare.

Se procedi ti imbatti, forse, nel fantasma che ti salva: si compongono qui le storie, gli atti scancellati per il gioco del futuro […] Va, per te l'ho pregato, - ora la sete mi sarà lieve, meno acre la ruggine … (E. Montale, Godi se il vento ch'entra nel pomario)

L'esistere sembra, di colpo, ridiventato possibile, quasi lieve e consolata presenza; l'affanno e la paura, un'altra volta ancora, forse, vengono pacificate da un ''singolare, seducente e misterioso sorriso'' che è nel vento, nel cielo sfigurato dalla sera, sul volto di una persona amata.

Ma spesso tutto questo non è possibile, il mondo e gli uomini sembrano restare muti in una terribile chiusura di contatto, nel rifiuto di ogni comunicazione. La bellezza diventa incubo e dolore: non c'è spazio per quello che siamo, non c'è tempo per le nostre richieste, non c'è speranza per noi.
Se la cifra della nostra prima comunicazione con gli altri è stata quella prevalente del silenzio e della lontananza, sarà difficilmente attingibile l'esperienza di un significato riunificatore e di un amore che si può dare e ricevere.

La relazione con gli altri poco sarà vissuta come un ''accrescersi e un darsi forma a vicenda'', ma quasi temuta e sfuggita perché possibile luogo di una bruciante delusione e di una fondamentale assenza.

Voi, gli uomini, mi avete respinto con il vostro tacito disprezzo. Ai miei impulsi appassionati avete risposto con un'offesa mortale. Ora io, dunque, ho il diritto di chiudermi in una torre d'avorio. (F. Dostoevsky, La mite)

Una clausura apparentemente obbligata, del tutto quotidiana, costante, come unica ed estrema difesa dal dolore. A volte una scienza perfetta, organizzata, di matematica precisione, impegnata nella costruzione di un silenzio emotivo assoluto e preordinato, solo a volte turbato da qualcosa di imprevisto ed inaspettato. Come la sicurezza di chi ancora chiede quasi certo di una risposta, di chi ancora attende con fiducia il calore di una parola, la comunicazione tenera sino alle lacrime di una carezza.

Questa richiesta e questa fiducia, in alcuni casi, possono essere per noi addirittura intollerabili, odiata memoria della nostra mai rimarginata ferita. La furia del dolore per la solitudine di ogni contatto può chiedere giustizia verso chi ancora non sa e osa ricordarci la disperazione e il vuoto senza centro della nostra mente.

La freddezza ricevuta un tempo può mutarsi in freddezza restituita ad altri, anche se questi altri non erano presenti al compiersi della nostra tragedia.
Solo un mondo alternativo al vero, in tutto costruito da noi stessi, scelto pietra su pietra, pensiero su pensiero, un mondo di ''esotica compostezza'' sembra il luogo dove potere ancora sopravvivere.

Nessuna idea può rimuovere la dura scorza del mio spirito. Non mi ferisci, la tua mano non può indurmi a ricordare e ad essere triste. Io ti prendo con me, dolce pena, e ti rendo più aspra con il mio gelo. (D. Thomas, Nessuna idea)

La nostra unica casa diventa un mondo capovolto, stretto dall'urgenza della costruzione e dell'autocelebrazione per non lasciare spazi al dubbio, per allontanare lo spettro di venire smascherati nella fondamentale ed originaria, mai rimarginata, mancanza d'amore. E questo rischio ci può riguardare non solo all'interno delle nostre singole e private esistenze, ma ci può coinvolgere anche al livello più allargato del contesto sociale in cui viviamo.

E' forse in questo senso che il film di Bellocchio ci ricorda la nostra possibile partecipazione ad una mistificazione collettiva che tenta di allontanare la sofferenza con operazioni di risignificazione al contrario, dove un processo di beatificazione cerca di cambiare definitivamente il male in bene.
Si parla molto oggi di crisi della famiglia e certo è dei nostri tempi il cambiamento profondo del luogo dove, per ognuno di noi, è cominciata la vita biologica e quella del pensiero. E non sono certo solo i numeri sempre crescenti delle separazioni a dare la misura della fragilità del momento. Più precisamente, questa dimensione è comunicata, forse, da una domanda: dove ancora chi nasce potrà imparare la speranza e la gratitudine e chi avrà la responsabilità di essere presente, di accogliere, di accettare e di fare crescere i bambini sino ad una sufficiente autonomia emotiva?

Nelle separazioni e nei divorzi, a volte anche troppo precisi per quello che riguarda la definizione del tempo che i figli devono passare con il papà e con la mamma, spesso sembra nascondersi la difficilmente confessabile angoscia per la rottura di una continuità di cui nessuno sembra più potersi fare carico, quella continuità d'essere così indispensabile al bambino per crescere.
E, di fronte all'angoscia, può essere forte la tentazione di una rapida ed impaziente composizione. Può essere quasi ipnotico, sull'onda della paura, il desiderio di mettere tutto a tacere prima che il dolore possa di nuovo farsi riconoscere e disegnare trame di disperazione.

Ma i processi collettivi di beatificazione, dei quali a volte ci scopriamo artefici attivi, possono condannare alla miseria ben più severa della menzogna dalla quale non si riesce a trarre sufficiente alimento per vivere. Possono condannare alla messa al bando della speranza e della bellezza, percepite, al fondo, come le minacce più temibili al mondo di compostezza artificialmente creato.
Se ci pensiamo, proprio l'inverso di quello che dovrebbe accadere. Osserva D. Meltzer ne ''La comprensione della bellezza'':

Il processo evolutivo nell'intero arco della vita lotta per reintegrare ciò che il fragile Io del bambino non può sopportare e da cui è lacerato, così che la bellezza dell'oggetto possa essere contemplata direttamente senza recare danno all'anima come temeva Socrate.