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Curare, prendersi cura, accanirsi: un intervento del Papa

La notizia
''Il Papa contro l'accanimento terapeutico'', di R. Monteforte.
L'Unità domenica 24 marzo 2002

Il commento
A commento intorno alle polemiche suscitate in Gran Bretagna dalla decisione assunta a Birmingham a favore dell'eutanasia, il Papa ha espresso un'importante puntualizzazione intorno alla assoluta non opportunità di ogni atteggiamento medico improntato all'accanimento terapeutico. Si è riferito in particolare, alla necessità di ricordare che ogni essere umano "è limitato e mortale". Essendo io medico, cresciuta nella scuola di chi insegna al medico l'obbligo non dei risultati, ma dei mezzi, frase che riassume , con la stessa parola " mezzi", la reificata e deificata ideologia di un'onnipotenza dell'efficienza, sono stata molto colpita che il Papa riportasse questa parola: limitato e mortale.

I sostenitori dell'eutanasia si pongono in un'ottica dell'umiltà: quella dell'accettazione di poter, da parte dell'uomo, chiedere di essere aiutato, non solo a vivere, a imparare, a lavorare, tutti capitoli dell'esistere per i quali è non solo lecito ma anche naturale, ormai, poter pensare ad essere aiutati, ma anche a morire. E chiedono di non dover ricorrere a confondere un'altra logica dell'onnipotenza, quella del suicidio, col diritto di poter scegliere di non vivere più. Col poter scegliere di non essere artificiosamente mantenuti in un vivere che, talvolta, non ha più le caratteristiche stesse della vivibilità.

Ma a questo punto, la mistica del curare, che sappiamo rasenti il furore terapeutico sempre più spesso, dato che i mezzi tecnici sempre più raffinati lo consentono, si sostituisce all'esercizio del buon senso.

Il Papa si è riferito ad un discorso che non tiene conto del solo corpo, ma anche e soprattutto dello spirito. Pur non essendo cristiana, e parendomi spesso la religione una sacra bottega che, a prezzi di fabbrica, ti compra e ti lega, devo riconoscere, in questo caso che il riferirsi ad una vita spirituale possa farci riflettere, come persone e come medici, al significato complessivo del termine "cura". Che, derivato dalla lingua latina, avrebbe il significato ambiguo, sia di operare delle pratiche volte a far star meglio, sia di sollecitudine e preoccupazione per l'Altro.

Una delle primarie cure materne al bambino, che passa necessariamente attraverso le cure corporee, l'attenzione al soddisfacimento dei suoi bisogni primari ecc, e non attraverso la parola, ovviamente, è volta a non farlo morire. La morte, quindi, implicitamente, è presente nell'esperienza di vita fin dai primi momenti. Il fatto, poi, che questo cammino difficile e faticoso, affascinante e tormentoso che è la vita, dovrà, a un certo punto, finire, è una realtà così significativa da farci organizzare attorno le nostre difese psichiche, sia in senso depressivo, che costruttivo. Le fantasie di onnipotenza, che non riguardano solo i pazienti deliranti!, contengono implicitamente dentro di sé anche quelle dell'immortalità.

Non a caso H. Searles ha dedicato parte dei suoi studi sulla schizofrenia a quel fenomeno di diniego, fisiologico per tutti, della consapevolezza della propria morte e dell'ineluttabilità di essa. Un diniego emotivo, parziale, per la maggior parte di noi, per gli schizofrenici in particolare, un diniego totale.

La possibilità di avere una vita bene integrata, un sé intero in grado di partecipare alla vita e di sentirsene parte è un modo di poter elaborare il fatto tragico di essere, comunque, destinati a morire.
La possibilità anche non definitiva, di sentire realizzate delle relazioni di contatto, di vivere pienamente delle esperienze, sentimento che ci avvicina e agli altri e ad un senso di continuità con la vita, ci permette di non provare più l' idea della morte come idea di angoscia pura, ma di sostenere al nostro interno una sensazione di naturalità.

Ma vivere in condizioni oggettive che non permettano, che si oppongano, per la loro dolorosità, o per l'avvilimento totale della propria capacità di autonomia, ci depriva della possibilità di vivere pienamente e di accettare la morte. Ci ripiomba in una situazione di totale rottura del contatto con l'Altro, rottura che è alla base del sentimento insopportabile della perdita.

Voler, da parte dei medici, come strumenti ultimi, dei legislatori o di altre figure, far prevalere la sopravvivenza corporea al vivere, in certe condizioni, mi pare un condannare l'essere umano ad una situazione che non ha più niente di fisiologico, che si apparenta a quella serie di sollecitazioni folli di cui è impregnata l'esistenza psicotica: illusioni e concretizzazioni, intensa intimità - con la macchina che ti tiene in vita, ad esempio, - e totale separazione psicologica dall'altro, che , se solo si mettesse empaticamente nei panni di chi sta " curando ", non potrebbe che comportarsi altrimenti .La classe medica negli ultimi anni, è sempre più allettata dalla classe dei tecnici, ad illudersi di poter non riconoscere l'ineluttabilità della morte. Questa illusione, che fa parte più genericamente di questa nostra cultura che ci permette tante cose impensabili solo trenta anni fa, permea non solo l'atteggiamento verso i malati detti terminali, ma anche quello assolutamente generico ad esempio, verso la prevenzione. Mi fa sempre riflettere il leggere quelle statistiche dove si dice che, ad esempio, su 100 persone, 21 moriranno di tumore, altre di malattie cardiovascolari ecc. Quasi sembra rimosso che tutte moriranno di qualcosa, e che, senza niente togliere ad un corretto cercare di migliorare la situazione di vivibilità, non bisognerebbe nemmeno escludere dalla nostra consapevolezza che il morire fa parte di un processo naturale, ineliminabile.

La cultura medica, che, come motivazione iniziale, basilare, alla scelta professionale, dovrebbe avere quella di confrontarsi con la sofferenza, la malattia e la morte, sembra sempre più, invece, avere come modello quello di attribuire a questa o quella causa la colpa della morte. Questo fattore, se portato, come sottolinea il Papa, ad un livello che faccia dimenticare il rispetto per le dimensioni spirituali del vivere, rischia di diventare un allontanarsi dal prendersi cura di.

Del resto, lo stesso spazio che la nostra cultura dà al linguaggio verbale allontana in un modo talvolta rarefatto ed astratto di vivere quello che dovrebbe essere un fluire continuo del ritmo emotivo e psicofisico della nostra esistenza. L'efficienza tecnica, le macchine, i farmaci, le protesi artificiali ci allontanano in modo ancora più astratto e frammentato da una visione di insieme dell'esistenza,come esperienza che ci dovrebbe tenere in contatto continuamente con la relazione di ogni vivente con la morte.

Così come, infatti, riconosciamo che nessuna esperienza piacevole o sufficientemente gratificante, potrebbe restare tale se fosse infinita, anche per la vita nella sua globalità dobbiamo riconoscere la stessa cosa. Heidegger, ad esempio, parla spesso di " esistenza per la morte", la morte essendo un modo di essere in cui l'esistenza si pone non appena ha inizio.

Freud, in " Considerazioni attuali sulla guerra e la morte" (1915) dice "Effettivamente la propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo constatare che in realtà continuiamo ad essere presenti ancora come spettatori…..D'altra parte noi accettiamo la morte per gli estranei e i nemici e la decretiamo nei loro confronti con la stessa prontezza e mancanza di scrupoli dell'uomo primigenio."

Non per paragonare i medici che si accaniscono a curare i loro pazienti con coloro che torturano e decretano condanne a morte, ma.. un po' di somiglianza con chi condanna, a vivere male, per la stessa logica del rifiuto del limite umano fondamentale, quella si può intravederla!

Mi pare che il Papa, per vie diverse da quelle della psicoanalisi, ci riporti al rispetto e al dovere di rispettare quelle che sono le caratteristiche intrinseche, non culturali della natura biologica dell'uomo: il limite.

Questo dovrebbe farci riflettere sulla minaccia continua che le tendenze psicotiche all'onnipotenza, onniscienza, controllo e manipolazione esercitano sulla vita quotidiana, anche quando siano travestite dalle migliori intenzioni, delle quali, peraltro, come sottolinea il proverbio, è lastricata la strada dell'Inferno.

Le condizioni talvolta insopportabili di un vivere artificialmente protratto ci dovrebbero far riflettere sul significato stesso del cosiddetto progresso scientifico. Nelle culture primitive, l'anziano ormai incapace di sopravvivere, si allontanava - non si suicidava - semplicemente dal gruppo sociale di appartenenza e si lasciava, in questo modo, morire, mancandogli le forze per difendersi e per procacciarsi il cibo da solo. Era il suo modo di staccare la macchina.

Il medico deve curare, certamente, questo fa parte del dovere del suo lavoro. Ma non può e non deve sostituirsi a Dio o al Destino. Specialmente in presenza di una richiesta assolutamente contraria. Dovrebbe far parte del dovere di curare anche il saper tollerare col proprio paziente l'ineluttabilità della condizione umana e la morte che ne è corollario fondamentale.