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Una morte dolcissima

La notizia
Eutanasia davanti a parenti e amici. Si uccide la paladina della dolce morte: ''Non voglio farlo da sola''.
La Repubblica, 24 maggio 2002

Gisella Troglia Il commento
Una notizia come questa riaccende nell'opinione pubblica il dibattito su eutanasia e diritto alla morte, argomento a dir poco scottante in questa società, poiché il tema della morte, oggi, è un vero e proprio tabù, l'equivalente, forse, di quel tabù che era nell'ottocento il tema del sesso.

Oggi non se ne vuol parlare, tutta la società, particolarmente quella parte che si definisce "laica", tende ad eludere il discorso in ogni modo; assistiamo tutti i giorni a celebrazioni funebri frettolose, con riti il più possibile abbreviati, è diventato disdicevole, a differenza che nel passato, esibire il lutto, tutti si affannano a dimostrare con le parole e con i fatti che "la vita continua"…

Non è sempre stato così, perché, all'opposto di oggi, fino a tutto l'ottocento la morte era in stretto contatto con il contesto sociale, era un evento che, pur appartenendo alla vita dell'individuo, come tanti altri episodi poteva essere condiviso ed esplicitato in atteggiamenti, manifestazioni, riti sociali.

Nella società contemporanea, invece, riceve grande enfasi soltanto tutto ciò che sposta in avanti il prolungamento indefinito della vita e la vittoria sul tempo, a ribadire l'estraneità e l'indisponibilità ad incontrare l'evento morte: la sofferenza, la malattia, il dolore e la morte vengono relegati in luoghi appositi, tecnicamente adatti a gestirli, e di contro assistiamo alla rincorsa di scoperte scientifiche ed innovazioni tecnologiche che promettono giovinezza, salute, prolungamento della vita, il consumismo si nutre di farmaci salva-vita, di tecniche chirurgiche, di manipolazioni, di accanimenti terapeutici.

Ritengo perciò ancora più "scandalosa" una notizia come questa che proviene dall'Australia, perché racconta di una scelta rivolta nella direzione opposta alla quale sembra tendere la società oggi: atti come questi appaiono provocatori, e lo sono, poiché costringono a prendere coscienza del dolore sopportato dalle persone malate, a riflettere sulla libertà dell'individuo, risvegliano le ideologie laiche e religiose, fanno discutere sui provvedimenti legali da adottare, insomma scagliano l'evento morte nella quotidianità della vita sociale.

In quasi tutto il mondo, infatti, l'eutanasia non è consentita e ci sono conseguenze legali per chi eventualmente la procura, l'obbligo imposto ai medici è sempre quello terapeutico, di cura ad ogni costo: la medicina, si dice, prolunga il più possibile la vita, non procura la morte.

Per questo Nancy Crick aveva chiesto il permesso al tribunale di mettere fine ai suoi giorni, e soprattutto voleva impedire che venissero perseguiti coloro che eventualmente l'avessero aiutata: "Non sono depressa, sono arrivata al termine della mia vita e voglio morire in pace".

Un atto coraggioso, che ci può aiutare a riflettere su un'ulteriore, più vera e più autentica, dimensione della vita e della libertà dell'individuo.

Non è un caso se i mass media danno grande risalto a tali avvenimenti, dato che la provocazione scandalosa insita in essi consiste non tanto nella rivendicazione di alcune persone malate gravi del diritto a morire, e ad una morte dignitosa, senza ulteriori inutili sofferenze, ma soprattutto nel ribadire il diritto a essere fino all'ultimo vivi, compiendo in piena coscienza un atto di scelta libero e personale: quello di morire "da vivi", appunto.

Sappiamo da Freud che nella profondità della sua vita psichica l'uomo si sente immortale, nell'inconscio la morte non esiste, vi è una spinta istintiva a viversi come immortali, a non voler credere di essere finiti: "La propria morte è irrapresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo constatare che in realtà siamo sempre presenti come spettatori. Perciò … ciò equivale a dire che nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità." (S. Freud, "Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte").

Appare perciò quasi ovvio che in ogni tempo gli individui abbiano rifiutato il concetto di morte, soprattutto della propria, ma in nessuna epoca storica si è avuto un rifiuto sociale così profondo e manifesto su tutti i temi legati a sofferenza, malattia, morte: questo spiega l'allontanamento dei malati e dei morenti, la solitudine affettiva nella quale vengono lasciati, la delega costante della loro sofferenza alla medicina, tutti esempi di una profonda negazione.

Al contrario, rivendicare la possibilità di scelta di porre fine ai propri giorni se malattia e dolore diventano insopportabili, se per queste sofferenze si sente di non poter più essere esseri vivi e vitali, diventa, paradossalmente, un atto di rivendicazione di vita, di esistenza, sempre, nel qui ed ora.

In senso psicologico l'individuo non sarebbe tale se rifiutasse l'idea della morte, poiché essa, come atto della vita, come confine che permette di costituirla e di definirla, è elemento fondante della vita stessa. Vita e morte costituiscono un unico processo di crescita, dove l'una è indispensabile all'altra per avere dignità di esistenza: anche se sembra che oggettivamente siano in opposizione radicale, perché dove c'è vita non c'è morte e viceversa, in realtà, per essere, la vita ha bisogno della morte.

Una pietra infatti non muore, ma perché non è viva: il paradosso dell'uomo è aver bisogno di morire per vivere in autentica pienezza la propria esistenza.

Un valido esempio di questa vitalità intrinseca nel concetto di morte è dato dall'innamoramento e dalla relazione d'amore, le persone innamorate dichiarano e sentono di poter amare fino al punto di morirne, la letteratura e l'arte di tutti i tempi sono permeate dal binomio amore - morte.

Allora se la vita può essere vista solo sullo sfondo della morte, essa diviene non qualcosa di definitivamente dato da far trascorrere, ma sempre la possibilità di un percorso da compiere, costellato di scelte, di progettualità, di cambiamenti; inoltre, guardare le cose da questo punto di vista, può significare anche spogliare gli avvenimenti che ci capitano e le relazioni che viviamo di tutti gli orpelli inutili che vi mettiamo sopra, per ricondurli invece all'essenziale, senza false certezze ma costretti, a quel punto, a cercare la verità, esaltando l'importanza degli individui in quanto assolutamente legati alla loro precarietà, e perciò tanto più preziosi nell'esistenza e nei gesti.

L'etimologia della parola eutanasia indica "buona morte"; credo si possa accettare questo significato, se con esso intendiamo la possibilità di porre fine a sofferenze e ad accanimenti terapeutici inutili, con la consapevolezza e la libera scelta di aver terminato il proprio percorso, come la signora australiana ci ha indicato.

Nella nostra società l'eutanasia non è ancora un diritto acquisito, nonostante numerosi movimenti di opinione tentino di diffondere questo orientamento, così in controtendenza rispetto alla negazione dell'idea stessa della precarietà e determinatezza dell'esistenza umana.

Assistiamo a battaglie durissime per affermare il diritto di una persona di terminare la sua esistenza in modo umano, dignitoso e senza inutili sofferenze, un'affermazione di autonoma scelta che rientra nelle libertà personali di ogni individuo, ma non è ancora un diritto riconosciuto legalmente in quasi nessun stato del mondo.

Questa volta la notizia proviene dall'Australia, ma non è la prima e non sarà l'ultima, e credo che episodi come questo meritino tutto il nostro rispetto, perché deve essere davvero estremamente difficile, oggi, in questa società, diventare vecchi, essere malati, sentire avvicinarsi la morte; arrivare poi addirittura a decidere di sceglierla volontariamente e non di farla capitare soltanto, è sicuramente un momento e un atto che tutti vorremmo evitare, al quale aderiamo con fatica, con dolore e con rabbia, così come ci ha descritto Simone de Beauvoir in "Una morte dolcissima": "Non esiste una morte naturale; di ciò che avviene all'uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo. Tutti gli uomini sono mortali: ma per ogni uomo la propria morte è un caso fortuito, ed anche se la conosce e vi acconsente, una indebita violenza" .