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Bagdad Hollywood party

La notizia
Martedì notte Jessica Lynch, soldato semplice, ferita e presa prigioniera nel corso di un’imboscata, è stata portata via dall’ospedale di Nassirya, nell’Iraq centrale, durante una missione straordinaria delle forze speciali americane. Le immagini del suo volto sorridente hanno fatto il giro del mondo, trasformando la ragazza diciannovenne nell’icona americana della tenace determinazione a superare tutti gli ostacoli.
La Repubblica del 7 aprile 2003

Nicoletta Massone Il commento
Da giorni abbiamo sviluppato una nuova e non attesa abitudine, quella di seguire i bollettini dell’ultima guerra in medio oriente. L’avanzata vittoriosa degli americani, i bombardamenti, i morti. Da giorni abbiamo nuovamente fatto esperienza della nostra impotenza: le manifestazioni che hanno riempito le strade di tutto il mondo, il parere dei popoli, sembra non avere peso nemmeno per le questioni che riguardano la vita e la morte.

Ancora una volta siamo imprigionati di fronte al video che ci trasmette, fedele, l’inesorabile sviluppo delle “operazioni”. Di fatto, però, nulla è cambiato nelle nostre vite, tutto è inaspettatamente come prima: alberi, strade, piazze, impegni, preoccupazioni.

La guerra risuona lontana con il suo clamore, impalpabile e intangibile. Anche il sangue in televisione non sembra nemmeno vero, ma più simile a quello di una rappresentazione, di uno spettacolo qualsiasi, un film dell’orrore che viene trasmesso proprio nello stesso orario su altro canale. Basta schiacciare un tasto, un programma equivale all’altro e finisce per assumerne identico spessore emotivo.

Qualche immagine, a volte, riesce a raggiungerci, qualche notizia ci sorprende e ci rattrista, ma tutto presto si spegne nella trama complicata delle nostre giornate. Quasi ci vergogniamo, vorremmo provare un dolore più crudo ed intenso, vorremmo, in qualche modo, fare esperienza di quello che significa la parola guerra e ci sembra incredibile che, per la nostra mente, sia solo, per la maggior parte, l’icona in alto sullo schermo che incorona l’ennesimo dibattito o mute immagini di polvere e di macerie.

Abbiamo delegato ad altri un orrore di cui non conosciamo la misura e ci turba, forse, questa mancanza di consapevolezza che rinvia al sospetto di un pensiero rimasto cieco, aperto, a nostra insaputa, sulla violenza e sulla distruzione.

Tra noi e l’Iraq di queste ore esiste un’inattesa e impossibile alterità, alterità che, paradossalmente, finiamo per ritrovare proprio nella vicenda simbolo del momento, quella dei soldati americani fatti prigionieri. Di uno in particolare, il soldato Jessica Lynch la cui immagine, fragile e spaventata, è stata rimbalzata con clamore e costernazione dai mezzi di informazione di tutto il mondo.

“Ci sono solo cento abitanti, due chiese, un ufficio postale e un negozio di regali. La bianca casa dei Lynch con cornici di legno si trova a poche miglia fuori della città, alla fine di una strada ricoperta di ghiaia. Ha un portico che la circonda da ogni lato ed è li che la famiglia trascorre la maggior parte del tempo”.

Così ci si presenta il luogo dove ha vissuto la ragazza che, di colpo, è diventata l’emblema in cui riconoscere la tenacia e il coraggio che vince ogni difficoltà, la determinazione che permette di affermare se stessi ad ogni prezzo, sino all’estremo sacrificio.

“A Palesatine non c’è molto da fare quando si è giovani. A sedici anni, Jessica Lynch è stata eletta miss Congeniality, miss simpatia, in un concorso di bellezza alla fiera locale, l’evento più eccitante dell’anno per tutto il paese”.

Eccoci restituiti a qualcosa di più noto: il dolore del crescere, del dovere cercare se stessi in condizioni difficili, in un mondo che sembra offrire pochi stimoli e pochi legami.

Un mondo che, spesso, concentra lo sforzo della comunicazione solo in eventi sporadici ed eccezionali, fuor d’opera, feste una tantum, celebrative di un successo e di una creatività, difficili da ritrovare, poi, nella concretezza della vita. Feste che possono allietare lo spazio di un giorno, ma non riescono a consolare l’angoscia delle molte ore aperte su un futuro enigmatico e su un presente spesso privo di rapporti significativi e rassicuranti. Come e cosa diventare in tutto questo?

“Nella Wirt County, dove vivono i Lynch, la disoccupazione si aggira intorno al 15%. Greg, il corpulento e barbuto padre di Jessica, è un camionista indipendente e ammette di essere stato felice quando la figlia decise di arruolarsi. L’esercito poteva offrirle quello che voleva”.

Cosa diventare, in particolare, se gli adulti, il proprio stesso padre, non annettono valore alla vita che vivono, la riducono a pochi spazi artefatti ed intermittenti, soffocati dalla fatica estenuante, solitaria e senza rimedio del compitare il giorno per giorno. Nessun sogno sembra sopravvivere nelle case bianche con la cornice di legno; sotto il portico, trova posto solo la rassegnazione, il peso di un compromesso schiacciante, la scura condanna del fallimento.

L’esercito poteva offrirle quello che voleva: la realizzazione di sé definitivamente abdica alla realtà, a favore di un altro mondo scandito dall’illimitato dispiegarsi del desiderio.

Un altro mondo, per sempre lontano dalla propria storia e dalla personale memoria, mondo da raggiungere e nel quale essere ricreati.

Del resto, è questo un effettivo aspetto dell’eroe che non appartiene più interamente alla stirpe umana, ai suoi limiti e alla sua angosciante miseria, ma che sembra, grazie al suo valore, essere diventato altro, essersi fatti simile agli dei immortali.

“Jessica non si era mai mossa dalla West Virginia e così descrive in una lettera il suo stupore: solo nel 2003 sono stata in Messico, in Germania e in Kuwait, sono stata in posti che la metà degli abitanti della Wirt County non vedrà mai”.

Un riscatto magico e inebriante che spazza via, di colpo, il peso di troppe mancanze. Un’amica ricorda Jessica nel giorno del suo diciottesimo compleanno e racconta come, al ballo, lei avesse indossato, per scherzo, sotto il vestito da sera, un paio di stivali militari. Tra i ragazzi era popolare – aggiunge l’amica – ma non aveva molti boy friend.

L’immagine ci colpisce, indoviniamo la fatica di un’adolescente alle prese con la difficile conquista della sua identità, riconosciamo l’incertezza e il dolore per l’inevitabile rinuncia a rimanere bambini per sempre, senza responsabilità precise, nemmeno quella del proprio sesso. Ricordiamo il terrore dei primi legami affettivi, la paura incontrollabile di essere feriti a morte da un rifiuto, limitati per sempre nella propria capacità di amare. Una potente illusione ottica, per un attimo, quasi trasforma gli anfibi incernierati, che occhieggiano sotto il frusciare della seta, negli stivali delle sette leghe che fanno fuggire, con prodigiosi balzi leggeri, lontano, molto lontano davvero, da un qui ed ora scomodo e doloroso.

Lontano da una condizione fatta di domande ancora senza risposta, di realtà immaginate ed attese da una speranza che, nonostante l’assenza del presente, è costretta alla fatica di non rinunciare alla visione del compimento.

Temiamo per noi: forse anche noi potremmo essere visti da una Jessica adolescente alla luce delle mille rese quotidiane, delle infinite rinunce, della stanca noncuranza che ci spinge a rimandare al domani, se non ad un altro mondo, l’impegno per tenere in vita i nostri legami e i nostri sogni. Forse anche noi, come gli abitanti di Palestine, offriamo a noi stessi e agli altri un mondo troppo arido e frammentato perché in esso sia possibile il miracolo fecondo di una vita.

Forse anche noi, senza saperlo, segrete ed infinite volte indossiamo gli stivali delle sette leghe e ci allontaniamo, con la rapida violenza dell’uragano, dalla richiesta di dedizione che ci viene da chi ci sta accanto. Ci abbandoniamo, in apparenza finalmente liberi da ogni vincolo e da ogni ansia, ad un sogno d’oriente dove ogni perfezione è possibile. Spesso è solo un sogno ad occhi aperti, quasi atto di artificiale consolazione, ma Jessica ne smaschera l’aspetto di rinuncia quando lo rende oggetto di un agire reale. E in questa drammatizzazione di una fantasia onnipotente, può essere stata sorretta proprio dalla natura della comunicazione dei nostri tempi: le immagini sullo schermo sembrano non esaurirsi in quell’episodio o in quella vicenda ma, come a teatro, fare semplicemente parte di un copione che può essere riproposto infinite volte. Come a teatro, non ha più importanza il fatto specifico, ma il significato emotivo rappresentato, dove avvenimenti ed immagini finiscono per legarsi prevalentemente ai contenuti del nostro mondo interno, piuttosto che ai fatti della storia, da cui, pure, provengono.

Indoviniamo la sotterranea e incontrollata, convinzione di una realtà che possiamo confezionare a nostro piacimento, senza riconoscere in essa altro oltre quello che desideriamo. Della guerra, così, può restare solo la gloria e la vittoria, non la sofferenza, il sangue, la morte.

Per questo non ci stupiamo quando, nell’articolo, leggiamo che Hollywood già è alla ricerca della protagonista che impersonerà il piccolo soldato americano nel suo luminoso copione: la verità non è in ciò che accade, ma nella riconfezione che noi ne operiamo.

Improvvisamente, proviamo pietà per la piccola Jessica, con i suoi occhi spaventati, che ha scoperto, forse troppo traumaticamente, quanto può essere diversa dalle attese di riscatto e di affermazione la Bagdad reale, crocifissa dall’orrore di mille morti.

E la medesima pietà ricade anche su noi stessi, per ogni volta che la rinuncia ci restituisce un dolore ancora più violento e devastante, pervasivo ed incomprensibile, quel dolore da cui siamo fuggiti con furia, alla ricerca di un esotico oblio.