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Ha ucciso per paura o insicurezza

La notizia
Ha affogato la sua bimba di appena tre mesi e mezzo in una vasca del bagno del reparto di pediatria di Desio nel milanese. La donna, mamma della piccola, peruviana, 28 anni, e' in stato di fermo per omicidio volontario aggravato. E' successo questa mattina poco dopo le 4 quando il personale dell'ospedale si e' accorto che la piccola non era più al suo posto. Sono cominciate le ricerche e poi un'infermiera ha trovato Helga R. in stato di choc che mormorava frasi senza senso. Sul posto sono intervenuti i carabinieri di Desio che hanno arrestato la donna. La piccola era stata ricoverata qualche giorno prima per un sospetto trauma cranico
La Repubblica del 4 giugno 2003

Floriana Betta Il commento
L’articolo riguarda un fatto di cronaca, accaduto a Desio, provincia di Milano, dove una madre peruviana, Helga, ha affogato la propria bimba di tre mesi nella tazza del water nell’ospedale dove l’aveva ricoverata. Erano lì da sole, dopo che la piccola era stata trattenuta per accertamenti perché il giorno prima era- forse solo accidentalmente- caduta dal passeggino con cui la madre la portava a spasso.

Ultimamente, c’è un’intera teoria di madri che compaiono sui giornali per questi infanticidi,e non solo la mamma di Cogne: come se questa gravissima patologia, la depressione post partum, che era stata fino agli anni ottanta considerata in via di estinzione, fosse nuovamente in ripresa.

Il fatto è ben spiegato dall’articolo: sono donne fragili, provate dall’esperienza del parto ma ancor più da quella della maternità, che si spaventano, si sentono inadeguate, o sono a loro volta talmente afflitte dal dolore morale e dalla chiusura di ogni orizzonte, da non voler che la creatura affronti una vita così pensata in quel momento come assolutamente distruttiva.

Si pensava che dopo gli anni ottanta, con una maggiore responsabilizzazione alla maternità da parte della coppia, con più sostegni di prevenzione sul territorio da parte della psichiatria e dell’assistenza sociale, con più facilitazioni sociali – si pensi, ad esempio, a come negli ultimi anni una maternità fuori del matrimonio sia meno difficile da portare avanti rispetto ai pregiudizi socio culturali che si sono ammorbiditi – questa patologia, che resta una patologia tra le maggiori in psichiatria, si fosse ridotta.

Quando sono andata a lavorare in Ospedale Psichiatrico, a Voghera, provincia di Pavia, c’era ricoverato nel settore femminile, un certo numero di madri “residuate” dopo magari vent’anni da un episodio di psicosi puerperale. Donne magari che non erano riuscite ad eliminare i figli, o che si erano fatte il manicomio criminale ed erano poi state depositate in ospedale per anni dopo l’episodio, diventando delle croniche senza esser state curate.

Personaggi di un’infelicità drammatica perché si presentavano come dolorosamente sane nel microuniverso della psicosi manicomiale, ma dannatamente espulse da un sociale che tutto perdona tranne che alla mamma di non esser mamma.

Personaggi che, dopo l’episodio critico, in genere recuperano con le cure, un certo stato di ritorno alla condizione quo ante, ma che si portano dietro e dentro il marchio indelebile dell’essere totalmente incomprese, fino ad non comprendere neppure loro questo momento di inadeguatezza e di sofferenza.

Anche se, come già sottolineava Balduzzi, negli anni cinquanta, primo psichiatra italiano ad essersi occupato di questa patologia a fondo, sono donne che presentano dei tratti particolari nella storia antecedente al fatto. Donne con madri iperpresenti e passivizzanti che tendono ad espropriare la figlia della sua maternità, donne che non sono mai potute esser figlie e quindi non possono esser madri, che hanno un coniuge in genere molto infantile e poco capace di essere di sostegno nell’esperienza mentale della maternità, donne chenon sono in grado di regredire, nei nove mesi della gestazione ad uno stato di intimità mentale col bambino tale da renderle capaci di identificazione e di sostegno dopo la nascita, per ragioni varie. Alcune, insite nella struttura di personalità – una fragilità psicotica dell’Io – altre riferite a difficoltà sociali, reali- la povertà, il maltrattamento, se la maternità è stata desiderata o no ecc –

Quel processo che accade in gravidanza, di oscillazione dell’identità materna verso il riviversi, contemporaneamente, figlia della propria madre e madre del proprio figlio comporta la possibilità di identificarsi profondamente col proprio bambino e di sentirlo come parte di sé. Ma comporta anche e in tempi brevi, un notevole grado di destrutturazione dell’Io della madre che si deve, contemporaneamente rendere flessibile alle esigenze di un corpo che cambia, e che cambia rapidamente, alle esigenze di un mettersi a disposizione del bimbo e del suo narcisismo , a quelle di prepararsi ad una serie di incrementate responsabilità sul piano reale, che possono esser vissute come deprivanti di un proprio narcisismo fragile e precario a tutto sfavore di un sentirsi intere e centrali davanti ad esigenze obiettivamente aumentate.

La esperienza della maternità è da tutti gli autori che se ne sono occupati, paragonata ad una crisi di identità per la donna, dell’identità corporea, in primo luogo, con problemi che vanno dalle ansie di malattia ( ultimamente rese ufficiali dai controlli della medicina, che sempre più trasformano un fatto normale come la riproduzione in una malattia globale ! ecografie, esami del sangue, monitoraggi e, last but not least, gli psicologi, col tam tam della realizzazione del buon rapporto col bambino, col dover essere madri attente sensibili e stimolanti ) alle ansie per la fitness del corpo giovane e senza smagliature

Questa povera crista di Helga, peruviana 32enne, che ha dovuto lasciare in Perù una figlia di nove anni, lasciata per motivi di lavoro, si è sposata in Italia col datore di lavoro, vedovo con dei figli grandi, coi quali c’erano problemi di convivenza conflittuale. Nasce la nuova bimba, tre mesi fa. La donna pare contenta.

Poi, primo campanello d’allarme – visto a posteriori- durante la passeggiata domenicale, le cade il passeggino con la bimba dentro ed è per questo ricoverata in ospedale a Desio, per accertamenti prudenziali. Nella notte, affoga la bimba nel water dell’ospedale. Poi chiama dal cellulare il marito dicendogli che “ il mostro non c’è più”.

Sembra quasi riecheggiare le due grandi storie di passione e di morte: Emma Bovary e Anna Karenina: storie come questa, di devastazione depressiva per delle donne che devono sacrificare una precedente maternità ad una nuova storia d’amore.Le due storie letterarie finiscono col suicidio della donna, questa con l’omicidio della figlia, che, vista l’età e la ben nota simbiosi dei primi mesi di vita, è quasi suicidio anche per Helga.

Mi ha colpita questo parallelo tra letteratura e quotidiana follia: come se si ripresentasse, nella forma più grave della patologia, il problema della difficoltà, per la donna già madre, a poter realizzare se stessa armonicamente in una nuova storia d’amore che comprenda e non escluda i figli di tempi precedenti.

La difficoltà, tipicamente femminile, ad affrontare serenamente la maternità e l’amore sessuale – o donna o Madonna, avrebbero detto le femministe degli anni settanta -, le difficoltà coi figli di lui nati nel matrimonio con un’altra, morta e quindi maggiormente idealizzabile: il tema della matrigna, sempre vissuta come cattiva forse, in tanti casi, solo perché donna sessuata che si accompagna al padre.

Non mi interessa recriminare sul fatto che i maschi non hanno questo tipo di difficoltà o ne hanno meno, e su quanto il sociale, con le sue aspettative rigide, possa o meno influire nel creare un disagio a rottura.

Primo, perché non so neanche se sia proprio vero, secondo, perché sono donna e madre e dall’interno provo più una pena di identificazione con la donna, che non una rabbia di disidentificazione col maschio.

Immagino, piuttosto, con il Dostoewskij dei Karamazov, la nostalgia della madre che non sente più i passi dei piedini del proprio bambino acciottolarsi sul pavimento di casa, o della madre che non può più vedere il sorriso della figlia lontana e che , invece, deve confrontarsi col marito e i figli di lui in una vita diversa, con questa assenza della prima figlia che diventa ogni giorno più concreta, più forte. Immagino la gioia del coniuge ad avere la nuova bambina: qualcosa di tanto normale e naturale, e l’impossibilità, per questa donna di condividere con lui, gioioso, lo spettro divorante dell’assenza dell’altra figlia, assente solo per Helga, per lui, ininfluente. Immagino il silenzio, l’estraniazione: che dolore deve aver provato, nell’avere questa figlia, paragonandole , nel ricordo, all’altra.

E che senso di strappo, di fisico rompersi di un legame caro, di lacerarsi da un abbraccio, per entrare nell’altro.

Anna Karenina andava dall’entrata di servizio, con la complicità dei vecchi servitori, a trovare il suo bambino, mentre l’astio del marito la bandiva da casa sua. Per Helga, è l’astio della vita che la costringe a lasciare la figlia in Perù, o chissà cos’altro. Entrambe sono disinteressate alla nuova creatura, frutto del nuovo amore- quello di Helga non si sa, quello di Anna per Wronskij è una delle passioni amorose più grandi della letteratura, eppure non basta per tenerla insieme, per renderla appagata, non basta –

Penso a questa devastazione intima, qui sfociata nella tragedia, e immagino Helga che ammazza la figlia per ammazzare il mostro che sente dentro di sé: quello di non sapersi sentire né con né senza, né presente, né assente, né madre, né donna.

Penso ad Helga come ad una figura estraniata da ogni possibile sfondo. Certamente, non è stata aiutata dal sociale che non si rende conto di cosa stiamo chiedendo a queste badanti o lavoratrici straniere che devono abbandonare i figli oltre che il loro microcosmo, per farsi una vita da noi, una vita che già sarà diversa quanto ad abitudini culturali e linguistiche e di costume, ma che, in più, sradicano anche dal legame intimo genitoriale.Questo è una sorta di schiavismo anche se avviene con la volontà della donna di venir in Europa, ma sempre una volontà legata a bisogni talmente grandi che fa dubitare sulla libertà reale della scelta.

E penso ad Helga come ad una persona che abbia perso, lentamente, i connotati di madre, allontanata, e di donna, che si trova ad esser scelta, come in ogni sogno edipico, come sposa dal datore di lavoro, quindi dalla figura paterna ma che viene comunque ribaltata ad un ruolo di miserabile della vita, perché non ritrova più qualcosa di se.Di se come individuo.

Questo “mostro” come chiama la figlietta appena affogata, mi pare essere il suo sé: qualcosa che la mangia di bisogni dall’interno, che le chiede l’impossibile, che la riporta ancora una volta, anche se ha trovato il nuovo amore, a dei suoi bisogni molto arcaici – la bimba aveva tre mesi !- che o non erano stati accolti o si devono essere riaperti violentemente nel contatto con una realtà troppo difficile.

E mi vien fatto di pensare che, probabilmente, proprio perché ogni maternità comporta un riaggiustamento dei propri rapporti di figlia con la propria madre, è proprio in questi rapporti con la madre e con la vita sessuale ed amorosa della madre che si incista il poter, da parte della donna adulta, concepire di avere o meno una vita amorosa e sessuale non contrapposta e sottratta alla maternità.

Come se i problemi di separarsi e di individuarsi dalla propria madre, lasciandola a sua volta libera di avere una vita che non sia solo quella della simbiosi diadica madre-figlia, condizioni e la capacità di realizzazione sul piano narcisistico – la capacità di autonomia e di autostima –e quella di realizzazione sul piano affettivo sessuato. Infatti, se la simbioticità infantile della bambina la porta a “sequestrarsi” la madre, facendole sacrificare altre relazioni affettive polarizzandone l’attenzione amorosa e tenera solo verso il rapporto madre-figlia, molto probabilmente questo tipo di bimba avrà difficoltà ad affrontare liberamente le tappe dell’autonomia “fuori casa” e, in futuro, quelle di una vita sessuale sentita come capace di aggiungere e non di togliere qualcosa al rapporto di maternità con i futuri figli.

La bimba troppo a lungo simbiotica con la propria madre diverrà una madre simbiotica tutta volta a concepire la maternità come offerta sacrificale e come unica arena di interesse psico-affettivo.Sarà più facile, in questi casi, che una vita amorosa venga vissuta come incompatibile con il tirar su figli. Anche se non si sfioreranno i livelli dell’infanticidio, è osservazione abbastanza frequente quella delle mamme troppo ‘appiccicate’ ai figli, che sacrificano la figura del partner a un ruolo di assoluto secondo piano. Forse è da cercare più in questa direzione la difficoltà di tante donne a concedersi di avere una vita affettiva fuori dalla maternità che non nelle pressioni del sociale che vorrebbero, secondo la lettura femminista, carcerare la donna al ruolo di madre Madonna.

Da cercare nella direzione della capacità a separarsi della figlia dalla madre, separarsi anche inteso come assunzione di responsabilità e di solitudine, rinunciando per questa contropartita – citando Carmen Consoli! – alla fusionalità deresponsabilizzante dell’unione perfetta.

L’erotismo inteso come vita, la sessualità contrapposta a Thanatos, istinto di morte, separa per poter unire.

La simbiosi unisce per poter soffocare.

Spero che a questa Helga venga offerta una possibilità di curarsi e non la mannaia del manicomio criminale o dell’interdizione.Che venga offerta alla Helga simbiotica che ognuna di noi si porta dentro, una possibilità di essere aiutata ad andare verso l’uscita dall’hortus conclusus della fusionalità con i figli e con le aspettative simbiotiche regressive assai rivendicative di poter trovare nel rapporto coi figli quel rapporto con la madre “gigantessa della Nursery”, come la chiama P.C. Racamier, analista francese, quella corsia preferenziale pseudo-affettiva per evitare il dolore mentale della separatezza e della responsabilità.