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Una pistola per dormire

La notizia
Un portuale di 47 anni, per poter riposare in pace con la famiglia, infastidito dal vociare fuori orario di una compagnia di ragazzi, è sceso in strada impugnando una 357 Magnum, (quella dell’Ispettore Callaghan…), ha puntato la canna della pistola alla testa di almeno quattro giovanissimi, due dei quali di 16 anni, per ottenere, e lo ha ottenuto, il silenzio (oltre che la denuncia per porto abusivo di arma da fuoco e per minacce).
La Repubblica, 15 luglio 2003

Gisella Troglia Il commento
Viene voglia di pensare al gran caldo, che in questi giorni ci stanca e ci innervosisce, e in contemporanea ai film, troppo visti e troppo uguali, con l’eroe che, solo al suo apparire o mostrando la sua arma, ottiene all’istante quello che vuole... mi verrebbe anche da sorridere, se però il fatto accaduto non fosse vero. Invece, lo è. Così, ancora sgomenta per la recentissima strage familiare compiuta nella nostra città (sulla quale si è soffermato il mio collega la scorsa settimana) provo a pensare intorno all’aggressività con gli strumenti che la psicoanalisi mi ha fornito. Infatti, su questo tema sento ragionare da tanti altri “vertici”, per esempio da quello socio-politico, con riflessioni sulla violenza, sulla delinquenza, sulla pena di morte, oppure da quello etologico-sociologico, se l'aggressività nell'umanità sia innata o indotta dall'ambiente, ma questi punti di vista mi sembrano incompleti senza la voce della riflessione psicoanalitica.

La definizione dell'aggressività data dal vocabolario di lingua italiana Devoto-Oli recita: "Aspetto del carattere o del comportamento che si configura in reazioni eccitate o violente".

Ma se prendiamo come punto di riferimento l'etimologia latina della parola, scopriamo che la parola deriva dal verbo AD-GRADIOR, (gradior = muovere il passo, avanzare, camminare) la cui traduzione è: “avvicinarsi a, con intenzioni benigne, per cercare di guadagnare, oppure con intenzioni maligne, per attaccare, aggredire, assalire; e ancora, in senso traslato: dirigersi verso, assumersi, intraprendere, cercare di, fare il tentativo”.

Quindi l’etimologia riporta ad un doppio aspetto dell’aggressività, ma nella nostra lingua si è perso nel tempo il senso benigno di "avvicinarsi a", "intraprendere", mentre si è conservato quello maligno. Di questo doppio versante di ad-gradior è rimasta però qualche traccia, poiché il Dizionario di Psicologia (Ed. Paoline) è costretto a specificare all'inizio del suo discorso: "In questo articolo, l'aggressività è intesa come condotta il cui fine è un danneggiamento o un'offesa ... ecc. ecc.".

Quindi nella nostra cultura il senso di "andare verso" è, appunto, aggressivo, cioè cattivo, pieno di violenza, di odio, di morte. (E immagino quei ragazzi chiassosi, l’altra notte, mentre vedono arrivare verso di loro un uomo furibondo, pistola alla mano…).

Del doppio senso dell’etimologia deve essere stato in qualche modo consapevole S. Freud, che fin dall'inizio delle sue riflessioni (Studi sull'isteria, 1896), s’interroga sull'aggressività quando parla della sessualità come "una pulsione nettamente aggressiva", rivolta verso l'esterno; ma nell’elaborazione teorica definitiva sugli istinti, include sessualità e autoconservazione nella pulsione di vita, ed enuncia l'esistenza di una pulsione di morte contrapposta ad essa, nella quale pone l’aggressività, (Al di là del principio del piacere, 1920), lasciandoci così in eredità il concetto di istinto di morte e dell’aggressività come suo derivato e principale rappresentante.

Questa stretta relazione tra sessualità e aggressività si fonda sullo studio e sull'osservazione della natura aggressiva della sessualità infantile che compare nei vari stadi, orale, anale, fallico, che si susseguono fino alla genitalità adulta.

Da subito, nel suo tempo, non è stato facile, ma non lo è nemmeno oggi, accettare che lo scopo della vita è la continua lotta tra l’istinto di vita e l’istinto di morte, tanto più che questa polarità è studiata e scoperta, in stadi di sviluppo sempre più precoci, nel formarsi della mente del bambino (M. Klein).

L'Io infantile, alla nascita scarsamente organizzato, è sottoposto da subito al conflitto tra i due istinti di base, di vita e di morte; come risposta a questo conflitto e alla tensione e angoscia che ne conseguono, l'Io opera un processo di "scissione", proiettando al di fuori la parte di Sé che sente "cattiva" e minacciante, espressa dall'istinto di morte; prima il seno materno, poi la madre intera, poi gli altri oggetti esterni, sono il bersaglio di questa proiezione e diventano via via essi stessi "cattivi" e fonte di minaccia.

Durante il percorso di formazione, la mente del bambino arriva a distinguere nella realtà fuori di lui gli oggetti buoni da quelli cattivi, persecutori; ma la parte di istinto di morte che non viene proiettata fuori si converte in aggressività e tende a scaricarsi contro gli oggetti cattivi, persecutori, esterni, con l’aggiunta angosciosa che questa aggressività possa colpire e distruggere gli oggetti buoni.

L'ambivalenza amore-odio si estende in tutte le manifestazioni di vita adulta. Tutti noi abbiamo esperienza che non esiste attività in cui la presenza dell'aggressività non sia rilevabile in maniera diretta o, molto più spesso, latente, come l'ostilità trasferita nella fantasia, nel gioco, nell'antagonismo lavorativo, nell'opposizione a determinati principi politici, religiosi ecc.; sappiamo anche quanto spesso e facilmente si possa arrivare all’aggressione esplicita, e non solo fantasticata, perché l’azione consente alla persona di attribuire all’altro la responsabilità del proprio malessere, di liberarsi cioè da quelle parti indesiderate e insopportabilmente angosciose che la pulsione di morte tiene vive in noi.

Per tutta la vita l'uomo deve reprimere tutto ciò che non gli piace di se' e in particolare proprio gli impulsi aggressivi, e mette in atto diversi meccanismi di difesa, prodotti dagli aspetti più profondi di noi, per contrastare le frustrazioni che continuamente l’impatto con la realtà ci impone.

Sia nel soggetto sia nelle relazioni, odio e amore sono dunque divisi e contrapposti, con la differenza però che, mentre la pulsione di vita, attraversando alcune fasi, ha la tendenza a dirigersi verso una stabilizzazione costante dell'oggetto, raggiungendo il livello più alto con gli attaccamenti amorosi permanenti, la pulsione aggressiva, invece, e con essa gli affetti dell'odio, della rabbia, del risentimento ecc., resta molto più a lungo legata alle esperienze del piacere/dolore, bisogno/frustrazione, vissute durante il processo di formazione della mente della prima infanzia, e non ha perciò alcuna costanza dell'oggetto: è come se l’aggressività fosse più libera di essere investita su qualunque oggetto.

Mi chiedo allora, al di là di commenti sociologici e/o politici, il senso di possedere un’arma funzionante nella propria casa: segnale, forse, di una profonda angoscia di non saper contenere le proprie parti cattive e arrabbiate, evidentemente molto attive e pulsanti, e di un grande bisogno di farsi difendere da fuori, persino da un’arma pericolosa e spaventosa in sé.

Scendere inoltre in strada, seppure nel pieno di una calda e insonne notte estiva, per puntare quest’arma alla testa di ragazzi, per quanto chiassosi e ineducati, appare una reazione talmente esagerata da lasciar intuire una profonda fragilità interiore, di una mente che, tanti anni prima, non è stata sostenuta nello sforzo di imparare a tollerare il dolore provocato dalle frustrazioni, dolorose ma inevitabili se si è vivi e destinati a diventare esseri pensanti.