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Una speranza di cinquemila terre

La notizia
Alcuni astronomi americani hanno scoperto la nascita di molti pianeti simili al nostro, contrariamente a quanto sino ad oggi si riteneva. Nella sola via Lattea le "Terre" sarebbero circa cinquemila.
La Repubblica, 21 luglio 2003

Nicoletta Massone Il commento
Abbiamo sempre saputo che nello spazio, almeno in quello a noi più conosciuto, le probabilità di esistenza di un pianeta simile al nostro, capace, quindi, di ospitare la vita umana, non erano molto alte. Per questo, la notizia data dagli astronomi americani circa la presenza allinterno della nostra galassia di numerose altre "Terre", ci coglie decisamente di sorpresa, tanto più che le osservazioni effettuate si riferiscono solo ad una piccola porzione di spazio, quello più vicino a noi.

Con il passare del tempo, esplosione dopo esplosione di supernove, sembra che il pulviscolo interstellare si sia arricchito di metalli, in particolare di ferro, considerato il seme di nascita di futuri corpi celesti

Una bella notizia: quando il cuore del nostro pianeta si farà sempre più freddo, ci saranno altri mondi possibili dove abitare. Forse il tempo ci basterà per imparare a raggiungerli; razzi e navette ci trasborderanno in spazi ancora fertili, tutti a nostra disposizione. Non siamo destinati a scomparire per sempre; sembra cadere la claustrofobia di un tempo, certo esteso, esteso al punto che la nostra mente non riesce nemmeno a pensarne la dimensione, ma pur sempre chiuso e definito.

Quel termine estremo non riguarderà sicuramente noi, ma sapere di un limite del nostro mondo rende più definitiva e cupa la personale caducità.

Cinquemila terre forse equivalgono allinfinito. Già immaginiamo libri di storia che ci descriveranno come gli abitatori lontani e selvaggi della prima terra. Già ci sentiamo evocati da un giovane pensiero che non riesce ad immaginare come siano potuti esistere antenati che non sapevano nulla degli spostamenti interstellari. Saremo confusi, nella distanza siderale, con le caverne e le clave da cui, sino ad oggi, ci siamo sentiti definitivamente lontani. Non sarà solo Dio, ma il nostro stesso futuro a pensare lintera nostra civiltà di millenni in un battito di ciglia.

Con un po di malinconia, ci sentiamo accolti da una sorta di preistoria spaziale, mentre vorremmo invece anche noi partecipare del luminoso futuro, dellesistenza più perfetta della razza umana.

La nostra vecchia terra, al pensiero, ci appare ancora più ferita e depauperata; credevamo di essere giganti sulle spalle del passato, il risultato compiuto e perfetto di uno sforzo millenario di conoscenza e invece ci sentiamo riprecipitare nella fragilità di un inizio oscuro ed incerto. Forse è questo il prezzo di uneternità solo umana che prevede maturità e compimento allinterno dello scorrere del tempo, risultato da raccogliere come frutto che cresce pian piano nel susseguirsi dei giorni, nel dolore delle esperienze.

Ma forse anche questo dolore è il risultato di una illusione ottica della nostra mente: non serve confinare fragilità e finitudine nella preistoria per ricavare un futuro libero da ogni imperfezione, non basta una eternità di tempo per cambiare quello che siamo.

Nella stessa pagina, Adriano Sofri parla della costruzione di Virgo, un laboratorio scientifico che dovrebbe rilevare le onde gravitazionali prodotte, secondo la relatività generale, da eventi astronomici come lesplosione di una supernova, lo scontro tra stelle o tra buchi neri. Per assicurarci unimmortalità almeno nel tempo, di generazione in generazione, diventerebbe di importanza imprescindibile dialogare con gli astri, ma Sofri così conclude il suo articolo:

Verrà pure in mente a qualcuno di riscattare i passi perduti dei prigionieri – e il loro bel titolo etereo: ora daria – per qualche avventura della conoscenza.

I passi dei prigionieri non saranno riscattati in nessun luminoso universo di riserva dove non potremo essere; è altra la speranza di cui sentiamo bisogno. Ad ogni istante, in effetti, facciamo i conti con i segni della nostra quotidiana fragilità: tutto quello che siamo e che amiamo si trasforma e finisce, siamo esposti senza rimedio, costantemente, alla perdita e alla solitudine.

La nostra stessa vita è destinata a finire e da sé sola, proprio per questo, ci appare senza significato. Sono gli altri, lo sappiamo, che illuminano le nostre ore e le riempiono di sensi inaspettati; diventiamo esistenti nei pensieri e nelle parole di coloro che possiamo amare e che ci amano.

Limmagine della morte ci assale ben prima della morte fisica tutte le volte che quello che siamo precipita in mille passi perduti di cui nessuno più conosce niente e niente vuole sapere.

Anche noi, allora, possiamo sentirci licona di quella terra che vorremmo abbandonare; perduti in uninnominabile solitudine e per questo avvelenati, schiantati da un sole rovente, sopraffatti da rifiuti tossici che non abbiamo saputo bonificare, destinati a scomparire, corrosi dalla nostra stessa rabbia.

Come Sofri, anche noi sentiamo che ogni giorno ci porta lurgenza di ricondurre ogni nostro abbandono, satellite di dolore, ad un legame significativo che ancora sia capace di trasformare terrore e distruzione nel suono familiare di un incontro e di una condivisione.

Forse per questo la morte è tanto inaccettabile: di colpo, tutte le relazioni che abbiamo si interrompono, senza che noi sappiamo di andare da nessuno.

Se non abbiamo amato, se non siamo stati amati, la morte può imporre senza riserve la sua immagine di vuoto, di inutilità, di solitudine assoluta.

Non ci pacifica sapere che cè un altro mondo da popolare, se questo altro mondo è solo lillusione di una infinità onnipotente che non lascia spazio di consolazione per le nostre autentiche pene.