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La cultura della sfiducia

La notizia
TG e GR: la fabbrica di notizie che non disturba mai il governo. Sebastiano Messina illustra il modo in cui è confezionato il nuovo telegiornale di RAI 1 che prevede la sparizione del contraddittorio, la selezione e l'edulcorazione delle notizie [...] Due marescialli erano le talpe della mafia. Attilio Bolzoni cerca di tratteggiare il volto di cosa nostra e della nuova generazione che la dirige: manager, ingegneri, medici, uomini politici e superpoliziotti non più propensi alla brutalità dell'omicidio e della violenza diretta, quanto impegnati a controllare tutto dall'interno del sistema [...] Umberto Galimberti commenta l'opera Una questione di fiducia di Onora O'Neill, docente all'Università di Cambridge, che ha tenuto, dietro invito della Bbc, una serie di conferenze su questo argomento.

La Repubblica, 6 novembre 2003

Il commento
Sembrerebbe una giornata ricca di notizie quella del sei novembre. Per noi, un ritmo incalzante di rinnovate insicurezze anche a partire dal titolo di testa, dedicato a Castelli, vittima dei regolamenti di conti che sempre più furiosi fanno crescere la temperatura nella sua stessa coalizione. Uno spettacolo noto, tutto sommato, quello di una collaborazione impossibile, subito sopraffatta dalla rivalità, dalla lotta affamata per il potere assoluto.

Non ci stupiamo molto, anzi: rimaniamo rafforzati nell'idea di una realtà politica inevitabilmente destinata all'accecamento, estranea, indifferente ed impotente rispetto agli affanni concreti della nostra esistenza. Anche se i messaggi, gli slogan, le comunicazioni alla nazione a reti unificate, parlano di preoccupazione e di responsabilità, di consapevolezza e dedizione verso la custodia di un equilibrio e di un bene comune.

Ci sembra parte del gioco – così funzionano le cose – se le notizie di palazzo e degli organi di informazione non corrispondono a quelle che ogni giorno leggiamo in un sacco a pelo in più nell'atrio della stazione, nelle code chilometriche fuori della Questura o sui cartellini dei prezzi, tra neve di polistirolo, delle nostre scintillanti vetrine.

Sono immagini che mancano nelle statistiche, nelle dichiarazioni programmatiche, nei patti di solidarietà. Restano una quantità negativa, di sconcerto e di orrore, che sembra destinata ad una impossibile metabolizzazione sociale, abbandonata alla solitudine di ore ferite, lontane dai fasti di una specchiata ed opulenta ufficialità compiaciuta di se stessa. Non ci stupiamo: una gelida indifferenza da uomini vissuti, come coltre di piombo, annulla ogni emozione.

Quale novità, dopo tutto? Non ci si può fidare, lo sapevamo. Come farlo, quando gli stessi tutori dell'ordine appartengono al potere occulto di cosa nostra, perfetta icona dell'inversione dei ruoli e dei significati cui sembriamo consegnati, ceduti per sempre.

Nessuno dice la verità. Anche se chi mente sono proprio le persone da cui dipendiamo: i politici che governano il nostro paese; gli industriali che producono i cibi, i vestiti, le macchine di cui non possiamo fare a meno; gli insegnanti che presiedono alla nostra formazione culturale e sociale; i costruttori delle nostre case, i medici e i farmaci per le nostre malattie. É una dipendenza sicura dell'inganno. Proviamo, certo, a tutelarci: le regole di produzione diventano sempre più capillari e precise; ai servizi chiediamo trasparenza, pretendiamo di poter controllare la natura delle procedure in ogni momento del loro processo di attuazione. Una creazione infinita di certificati e di dichiarazioni, diventa il nostro referente diretto, in cui dovremmo trovare quelle certezze e quella sicurezza che ormai ci mancano.

Paradossalmente, il rimedio sembra peggiore del male. "È sempre più difficile distinguere il messaggio dal rumore" dice Galimberti. Tutti parlano semplicemente di più, ma nulla ci assicura che la quantità corrisponda alla verità, mentre è proprio la verità che stiamo cercando.

Del resto, saremmo, forse, decisamente stupiti e un po' a disagio, nello scoprire in noi una disponibilità fiduciosa, ci sentiremmo ancora confinati in una dolorosa adolescenza aperta, senza protezione, al calore bruciante degli ideali. Noi, più avveduti, più colti, più raffinati e smaliziati, non ci facciamo certo cogliere nell'infantile flagranza di illusione. Lasciamo ad altri il peso tragico dell'impegno sociale, anche se poi la delega ci rimbalza addosso le immagini cruente delle manifestazioni, i volti morti di ragazzi che, al nostro posto, si sono abbandonati ai nostri sogni.

Dal nostro universo chiuso, dalle nostre ben congegnate ed informatizzate torri d'avorio, nulla più sembra poterci sorprendere. Come nei telegiornali patinati dell'era berlusconiana, dove viene tolto il sonoro quando qualcosa non deve essere sentito e tutto è edulcorato secondo la grammatica della famiglia felice, anche noi attutiamo il rumore aspro della contraddizione. Nulla più ci obbliga a metterci in relazione. Se nessuno ci aiuta, se tutto è solo astuta messa in scena, siamo per sempre esentati da una comunicazione-farsa, confinati e congelati in rapporti vuoti, schiacciati dalla denigrazione.

Ma forse desideriamo che sia così. Diversamente, dovremmo uscire allo scoperto, rinunciare ad avere una ragione ormai garantita dalla demagogia che opera indisturbata nei nostri pensieri. Dovremmo affrontare, ancora una volta, la fatica delle mille sfumature – angoscia infinita del bene che si confonde con il male: l'unica forma in cui sembra declinarsi l'essere sensibile.

Un mondo sfiduciato, così, sta anche al posto, nasconde e rappresenta, l'immagine di una interiorità solitaria e diffidente. Anche dentro di noi, di fatto, l'altro è apparenza ingannevole, solo superficialmente accettato, ma in realtà screditato quale interlocutore reale.

Non siamo, poi, così tanto diversi da quell'adolescente da cui volevamo, ad ogni costo, prendere le distanze. Come lui, non rinunciamo a pensare ad un mondo perfetto, come lui ancora non abbiamo imparato, né intendiamo farlo – non vogliamo sporcarci le mani – con il peso dell'accettazione della mancanza, dell'incompiutezza. Il nostro equilibrio interiore, la casa-anima dove abitiamo, ci sembra pacificata e da essa cerchiamo di muoverci verso il mondo senza essere sopraffatti dall'angoscia. Ma la tranquillità degli spazi e delle ore scandite dal ritmo di significati familiari, è irrimediabilmente fragile.

Esibiamo la stabilità raggiunta, ma ben separata dall'identità dominante, che mima e non percorre il dolore dell'integrazione, ancora vive il sogno di un mondo perfetto, senza sofferenza, contraddizioni, limiti, separazioni.

Ben separata dall'identità dominante, sorretta dall'irrisione della sfiducia, ne manteniamo un'altra che non conosce la capacità di accettare e compatire, ma è violenta nei modi, perentoria, primordiale.

Neanche di noi stessi, ovviamente, ci fidiamo, forse anche in noi disperdiamo e disperiamo la verità in una geometria infinita di certificazioni, mentre vorremmo solo sapere per sempre che il nostro male e la nostra rabbia sono entrati nel campo della comunicazione degli affetti.

Ma non ne siamo certi, temiamo che sia impossibile imparare a sopportare il peso della delusione e poi, forse, non vogliamo nemmeno disfarci di quelle potenti armi, così lucide e impeccabili, perfette e mortali, fabbricate al fuoco rovente e smagliante dell'amarezza.

È questo che ci rende, come dice Galimberti, "singolarità precarie che non sanno più muoversi nel mondo se non all'interno di una cultura del sospetto. Sembra il punto in cui le nostre società sono più vulnerabili, più di quanto vulnerabili non le renda il terrorismo".