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Il rischio della relazione

La notizia
Il teatro è il mio medico. Massimo Dapporto si racconta senza pudori. Intervista con l’attore a Genova come protagonista di ‘La coscienza di Zeno’.
Il Secolo XIX del 9 febbraio 2003

Gisella Troglia Il commento
Questa intervista è una fra le tante che i giornali chiedono agli attori quando arrivano nelle loro città con i nuovi spettacoli; non contiene domande particolari, spazia dal ruolo dell’attore nel pezzo teatrale a qualche suo riscontro personale, sia privato sia pubblico, approfittando del fatto che la riduzione teatrale di “La coscienza di Zeno” è, in un certo senso, un argomento facile per approfondire tematiche esistenziali personali.

Perciò ci sono le domande e le risposte di rito su, per esempio, i tormenti psicologici del protagonista rispetto all’incapacità di prendere decisioni, rispetto al male di vivere, ai rapporti con il padre, a suo volta famosissimo attore ma in un genere molto diverso da quello intrapreso poi dal figlio.

Nelle risposte, Massimo Dapporto non approfondisce particolarmente nessun tema, esprime solo qualche riflessione sul matrimonio, l’amore, suo padre, sull’essere genovese. Mi ha colpito soprattutto l’ultimo intervento:

Zeno ha una gran paura delle malattie e somatizza i suoi disagi. Anche lei?
In questo momento ho male alla punta di un dito ed è come se tutto il male del mondo mi avesse preso di mira. Il palcoscenico è il mio medico e il mio psicoanalista.

Forse il senso di una risposta così, davvero troppo breve e sintetica per permettere non più di qualche riflessione, può essere nell’affermazione: “Il palcoscenico è il mio medico e il mio psicoanalista”, perché delinea precisamente il senso di “cura” per tutti i mali, sia fisici sia psicologici, che questo attore sente nel suo lavoro.

Questo atteggiamento mi ha fatto venire in mente altre interviste o dichiarazioni di attori, di attrici o di cantanti, di persone comunque coinvolte nel mondo della spettacolo, e le loro dichiarazioni sull’importanza fondamentale e vitale di calcare sempre le scene, per sentirsi bene attraverso il lavoro; gli attori di teatro affermano di riuscire a capire o ad approfondire lati di sé, o comunque di placare tormenti personali, attraverso le loro interpretazioni, sera dopo sera, i cantanti rilevano che questo accade loro, sia attraverso la musica, sia soprattutto attraverso il contatto con il pubblico durante i concerti.

Sicuramente tutti i mestieri “artistici” implicano un’innata predisposizione, una forte passione, una grande tenacia e senso di sacrificio, ma è inevitabile notare, in tutte queste persone di spettacolo, l’accentuazione più o meno calcata di un certo senso di sicurezza, di stima di sé o, in termini più psicologici, di aspetti narcisistici, che è probabilmente la loro “arma a doppio taglio”, una modalità interiore che, se li sostiene, e molto, nel campo del lavoro, può procurare però molta sofferenza nella vita privata.

Intendo dire che ciò che permette di affrontare tutte le sere il pubblico calandosi in personaggi diversi da se stessi, può diventare, fuori dal palcoscenico, il tarlo che mina proprio il senso di sé e la sicurezza, perché fa sentire il peso delle proprie incertezze irrisolte, la sofferenza delle risposte non trovate, producendo quindi il desiderio continuo di calcare sempre le scene, perché solo lì si può star bene.

Perciò si può capire l’importanza “curativa” che attori o cantanti attribuiscono al loro lavoro, la dichiarazione frequente di non poter stare lontani più di un certo tempo dal palcoscenico o dal set cinematografico…

Non c’è dubbio che recitare implichi una buona capacità di tenere saldi in se stessi dei punti di riferimento, poiché si è costretti ad entrare nella parte, a calarsi nell’identità di altri personaggi, e questo magari tutti i giorni, per mesi, per anni; se è vero che questo può indubbiamente risultare efficace per confrontarsi con gli aspetti più nascosti e profondi di sé, è però anche probabile che questo confronto possa diventare alla lunga logorante e soprattutto possa a volte spaventare o mettere in crisi, perché ha la caratteristica di un lavoro introspettivo fatto sempre e soltanto da soli.

Questa idea che serpeggia profonda di poter fare tutto da soli, con le proprie forze ed il proprio coraggio, nasce probabilmente da una fase della primissima infanzia, quando il bambino si sente inerme, piccolo, incapace di far fronte alla realtà di essere al mondo e a tutti i problemi a essa connessi, probabilmente poco sostenuto in questa fatica dall’ambiente affettivo che gli sta intorno.

Può così sviluppare la sensazione di doversela cavare sempre da solo, anzi, successivamente, che “solo da solo” farà bene! Questa fantasia onnipotente consente di attraversare tutte le fasi difficili della vita, ma fa correre anche il rischio di non riuscire poi a confrontarsi con una relazione vera, sia essa di amicizia, di amore, terapeutica o di lavoro: infatti, ogni relazione diventa tanto più autentica e vera, e quindi tanto più arricchente affettivamente, quanto più mantiene presente sullo sfondo la paura della fallibilità umana, dell’errore, del legame e dell’eventuale perdita di esso.

Da quanto si sa dalle loro dichiarazioni, spesso le persone di spettacolo hanno vite private difficili, dovute certamente ai ritmi e alle tensioni imposti dal lavoro, ma anche, ho il sospetto, da questa tendenza interiore, in parte ricollegabile all’opera di parti onnipotenti di sé idealizzate, che agiscono a livello non cosciente ed impediscono lo sviluppo di relazioni normali, quelle, cioè, da vivere giorno dopo giorno con il rischio di non essere accettati, celebrati, applauditi! Sul palcoscenico, invece, pur con sacrificio e fatica, ci si mette in mostra, si può far vedere quanto si è bravi, si ricevono applausi, si sente il calore del pubblico, si è addirittura pagati per tutto questo… senza però avere un rimando dall’altro, che non sia solo l’applauso.

Mi è anche venuto in mente il recentissimo film di Carlo Verdone, “Ma che colpa abbiamo noi”, che tratta del rapporto delle persone con il male di vivere rispetto al mondo della psicoterapia, abbondantemente preso in giro in tutti quei suoi aspetti facili e forse banali, quelli che tuttavia contribuiscono a volte a fargli perdere credibilità.

Questo film, secondo me, è solo apparentemente allegro, al contrario mi è sembrato di una comicità tutto sommato assai triste: infatti, in esso si racconta di un gruppo di persone in terapia che perdono la propria analista e da allora tentano affannosamente, attraverso diversi fasi, di continuare il lavoro terapeutico per affrontare il malessere di ciascuno. Attraverso le vicissitudini dei diversi personaggi, che arriveranno alla tragedia, si constata alla fine come questi tentativi affannosi ed affannati di “autoterapia” consentono sì a qualcuno di prendere in mano la propria esistenza, ma solo apparentemente, poiché non è posto in atto un vero cambiamento nelle loro esistenze, ma soltanto un aggiustamento di direzione della loro vita, dovuto soprattutto al buon senso o al caso.

Nel film è molto evidente quello che sento essere sottinteso quando leggo interviste come quella che ho citato: quando, nella vita come in un’eventuale terapia, non si accetta di mettersi in gioco in una relazione vera e vissuta, non resta che fare da soli, a costo di non poterne più fare a meno, così come sembra trasparire dalle parole di Dapporto, per il quale il palcoscenico può diventare medico e psicoanalista, e curare tutti i mali del mondo che gli possono capitare.

D’altra parte capisco che accettare il rischio della relazione, qualunque essa sia, può fare davvero molta paura, perché fidarsi dell’altro è troppo pericoloso, dato che si deve inevitabilmente fare i conti con la possibilità di essere abbandonati dopo che ci si è fidati, e anche solo intuire un rischio simile può essere troppo doloroso, sfiora il ricordo antico e ancora bruciante di quanto, forse, può essere già successo una volta, molto tempo fa…

Allora, non intraprendere relazioni affettivamente coinvolgenti, affrontare i propri problemi esistenziali da soli, può diventare il rimedio; curarsi da soli, anche esplorando faticosamente identità altrui come fanno gli attori, può aiutare a mettere a tacere soprattutto la sofferenza, ma al costosissimo prezzo di rinunciare alla elaborazione costruttiva, alla ricchezza creativa, alla gioia e al piacere che derivano dallo stare insieme, dallo scambio emotivo, dal dialogo con l’altro.

Solo bolle di... sapone

La notizia
Rapinava le banche con un ordigno in mano ma era soltanto un pezzo di sapone.
Quattro colpi a Genova per un ex promotore finanziario di Torino. Alla polizia racconta: "Sono diventato un bandito per guarire la depressione"
Il Secolo XIX del 28 gennaio 2003

Maurizio Lo Faro Il commento
"Rapino per guarire la mia depressione" ha spiegato ai poliziotti. Gli agguati, l'adrenalina che scorre a fiumi per guarire uno stato esistenziale sempre più compromesso>

Nella giovane età le speranze sembrano avvolgere l'individuo all'interno di una capsula ovattata: dopo il matrimonio con una bella persona che possa soddisfare ogni intimo desiderio e un lavoro che dia prestigio e soprattutto denaro, ci si presenta alle soglie dell'esistenza, come probabilmente ha fatto il nostro eroe, con un profondo bisogno di "essere". Con questo termine può intendersi la pretesa e l'impressione narcisistica di una persona di occupare ogni spazio, ogni anno, ogni giorno del cammino esistenziale, così, di per sé , solo perché si è in vita, negando la difficoltà che ciascun individuo affronta e in cui ogni cosa ha bisogno di venire acquisita tramite un percorso di crescita che richiede responsabilità e fatica.

Spesso questo progetto può assumere dei toni assai staccati dalla realtà: come il bambino piccolo ci si aspetta di essere amati per quello che si appare senza la possibilità e la prospettiva di dare per primi l'affetto che porterà gli altri ad interessarsi a noi ed a desiderare di costruire con noi qualcosa di positivo.

Come questo progetto sia ingannevole lo si può scoprire, purtroppo, più in là nel tempo: l'idealizzazione dell'intera situazione, degli individui, del lavoro lascia intravedere, nel momento in cui comincia inevitabilmente a cadere, una grande paura e un profondo disprezzo per la realtà: "La farina del diavolo sembra trasformarsi in crusca".

Sembra rivivere, in tali situazioni, l'originario vissuto di distacco, quando troppo prematuro o non sufficientemente elaborato : il senso di onnipotenza sentito nella fusione con la figura genitoriale interna si tramuta improvvisamente in impotenza, in un terrore senza nome alla ricerca di qualcuno che lo contenga e lo bonifichi.

Nell'età adulta ogni sconfitta, ogni perdita, pur causata in gran parte dalla collaborazione inconscia del soggetto stesso, tramuta il senso di grandiosità infantile, l'illusione primaria in frustrazione e senso di disperazione. "Fallita la sua attività, colata a picco la sua vita privata con la separazione dalla moglie, ha imboccato la strada delle rapine". Rubare può essere un mezzo per recuperare la sensazione di sentirsi grandiosi: farla franca sfidando la polizia - una coscienza morale che ci vorrebbe più legati al senso di realtà - ma anche per recuperare simbolicamente quell' affetto che si presume ci sia stato negato da bambini e che con maggiore veemenza sentiamo a noi rifiutato adesso che ne avremmo un maggior bisogno.

"Aveva comperato una Kawasaki Ninja color verde pisello": in arcione alla sua cavalcatura sentiva che nulla lo poteva fermare, novello Don Chisciotte sentiva il dovere di riparare ai torti del mondo, in questo caso del suo "mondo interiore". Ma di come si trattasse di un gioco da bambini, di come si giocasse con i "mulini a vento" ci parla il mezzo usato da questa persona per spaventare gli impiegati delle banche che rapinava: "Posava sul tavolo degli impiegati una scatola, dalla quale uscivano dei fili elettrici, poi li minacciava: Questo è un ordigno, se non mi consegnate subito il denaro lo faccio esplodere. Non era una bomba, ovviamente. Era invece una saponetta sulla quale D. C. aveva fissato i cavetti, richiusa in un'anonima confezione.

Questo gioco, portava al soggetto in questione un grande senso di soddisfazione e l'illusione che tutto ciò che aveva patito - la separazione dalla moglie, la perdita del lavoro e chissà quanto altro - non poteva veramente arrecargli davvero male, poiché l'adrenalina che lo faceva sentire vivo colmava il vuoto depressivo che a livello più profondo lo lacerava .

Vuoto depressivo che, per quanto latore di sofferenza, o proprio per questo, avrebbe potuto portare il soggetto ad un riconoscimento dei suoi limiti e dei suoi umani errori; in ultima analisi l'avrebbe, forse, condotto , magari privo della moto o del destriero verso un cammino più lento ma maggiormente costruttivo.

Per non provare dolore... Confusione sessuale e crudeltà

La notizia
"Townshend a casa. Arresti vip in arrivo" di C. Di Clemente
"Il Giorno" del 15 gennaio 2003

"Il sogno infranto del piccolo Kris pestato perché ama la danza" di P. Filo della Torre
"La Repubblica" del 9 gennaio 2003

Floriana Betta Il commento
Questi due articoli riguardano due episodi direi violenti e dolorosi insieme. Due fatti che sono accaduti a Londra, per me città di vita e di civiltà, nei miei mitici ricordi giovanili, quando Londra era i Beatles e la Tavistock Clinic : quando, nei lontanissimi anni settanta, quelli dei Who, e dell'isola di Wight, sono andata a lavorare, come ragazza alla pari, dalla cattolicissima e violentissima Trento - parlo di una violenza di tradizione asburgico guelfa, beninteso -.

Londra era il posto dove si poteva girare liberi la notte, senza pericolo, dove potevi incontrare i Pink Floyd al pub , dove le donne, anche quelle perbene e anziane fumavano per strada, dove si faceva educatamente la coda al bus, dove i gay giravano - allora - mano nella mano a fare shopping, dove chiunque poteva avere assistenza sanitaria gratuita e rispettosa, e al paziente mi insegnarono a rivolgermi con gentilezza e curiosità.

Peter Townshend, dei Who, arrestato e rilasciato su cauzione, per una faccenda di porno produzione di materiale pedo pornografico. E' già stato organizzato un nuovo vocabolo composto per circoscrivere l'orrore.

Come non ricordarmi di Peter Townshend, il chitarrista dei Who, con quegli accordi strippati,con la chitarra sonata in ginocchio, quasi rantolando per terra, e come non ricordarmi di quel film, "Tommy" dell'altro poeta maledetto, Ken Russel, quel film, in cui recitava Townshend, e che narrava,un po'ritrasformata , appunto, la storia della sua infanzia.? "Tommy" è un film opera rock che parla di sevizie subite da un ragazzino da parte di tutti:, dal padre violento, da uno zio, un cugino di poco più grande, tra L.S.D. e alcool.. S evizie e torture e abuso, un abuso di tutti su tutto, dalla disgregazione sociale abusante alla violenza sessuale specifica. Nel film, il mondo, ben lungi dall'esser salvato dai ragazzini, dà comunque la possibilità al piccolo Tommy, alias Pete, di togliersene fuori con successo, quando si vendica di tutti gli adulti diventando campione, mi pare, di flipper.

L'altro articolo riguarda un altro ragazzino, Kris King, dodici anni, ballerino prodigio, che, sulla trama di un altro film, " Billy Elliott ", cerca con disciplina, fatica ma anche entusiasmo e determinazione, di inseguire un suo ideale: diventare ballerino come Nurejiev. Già a dodici anni, ha ballato in teatro a Londra in alcune opere di balletto. Ma… alcuni compagni, prima lo infastidiscono con prese in giro, con sbeffeggiamenti umilianti, emarginandolo dai giochi e dalla compagnia. Poi succedono episodi di spintonamento e di minaccia tali da indurre i genitori a protestare per attirare l'attenzione degli insegnanti su quello che già diventa un problema.

Poi non basta più schernirlo a " femminuccia e frocetto " e dargli qualche spintone in cortile.

Lo aspettano in piccolo gruppo, lo insultano, lo pestano a sangue e gli fratturano deliberatamente un piede. Kris, tra un mese di gesso potrà camminare, potrà farsi operare a pubertà finita, ma certamente non potrà più danzare a livello di ballerino.

L'articolo parla dell'invidia. Certamente c'è questo sentimento spogliante ed omogeneizzante dietro questa violenza. Ma non mi risulta che mai un ragazzo sia stato pestato perché bravissimo in matematica o perché ha partecipato con successo allo Zecchino d'oro.

Mi pare che sia determinante, in entrambi gli episodi, un qualche riferimento specifico a delle difficoltà verso la sessualità, verso l'omosessualità . La violenza che ne scaturisce mi pare diventare un sentimento di copertura di queste difficoltà.

Sia nell'episodio di Pete Townshend, che in quello di Kris trapela l'intolleranza che porta poi a quella forma di aggressività riassumibile sotto la legge " controllare o essere controllati ". Il piccolo Tommy torturato e controllato in un dominio totale dagli adulti, diviene il divo cinquantasettenne, pedofilo torturatore, controllato e passivizzato allora, che ribalta la situazione adesso.

Non è solo invidia quello che muove i giovani torturatori del ballerino Kris. Nel momento in cui lo insultano a " femminuccia e frocetto " ne vogliono controllare la sua specifica spontaneità creativa, e fanno trapelare l'intolleranza violenta verso una specifica diversità e una specifica differenziazione dell'altro, e il rifiuto di quelle vie di interazione e di mediazione - dette dialogo - che solitamente permettono di modulare l'aggressività.

In entrambi i casi, esplicitamente per Townshend, più implicitamente nell'altro, l'aggressività si colora di una componente difensiva, che tenderebbe a dare l'illusione di un reimpasto accettabile della distruttività controllante agli occhi del soggetto: quello della sessualità.

L'eccitamento sessuale, ripeto, più o meno esplicito, dovrebbe permettere ai violentatori di scotomizzare l'aspetto sadico e distruttivo di quello che sta accadendo, e che viene razionalizzato, da parte di tutti, del chitarrista e dei teppisti, come istanza moralizzatrice!

E' curioso, infatti, che, tra le mille autogiustificazioni per scagionarsi dalla accusa di pedofilia, Townshend abbia accampato la scusa e il cavillo legale gliela ha sostenuta, di essere in possesso di materiale pornografico hard riguardo a bambini, a scopo di raccogliere materiale scientifico sul problema dell'abuso infantile, per motivi autobiografici.

I teppisti, da parte loro, volevano dare una lezione alla " femminuccia frocetto " perché si normalizzasse a banale adolescente senza troppi strani grilli per la testa se non gli usuali hobby - tra cui l'auterotismo pornografico e il football sono i più consentiti, altro che la danza ! -.

Se mi si consente una battutaccia, qui bisogna dar ragione al caro/odioso Mario Mieli che chiamava, nei suoi scritti, gli eterosessuali " le criptochecche " !, per quanto, ripeto, odioso, nel suo voler tirar l'acqua al suo mulino, ma.. almeno lascia tutti divertiti e l'aspetto controllante della sua aggressività lascia le criptochecche coi piedi sani.!!

A.H. Williams, uno psicoanalista inglese che è tra i pochi ad essersi occupato di quella categoria di pazienti tanto poco presenti nella stanza d'analisi, i delinquenti, nel libro " Nevrosi e Delinquenza" ( Borla ed. 1983), scrive: "Un certo tipo di crudeltà è quello legato al rivivere, con un ruolo invertito rispetto all'originale, un trauma infantile… In questi casi si possono rintracciare episodi infantili, singolari o ripetuti, caratterizzati da uno stato di impotenza del bambino costretto a soffrire senza potersi ribellare. Sembra che la sofferenza venga internalizzata, scissa e quindi riposta in un recesso mentale. Se, per particolari circostanze è " smossa ", tutta la tragedia, capovolta, viene rappresentata nel mondo esterno."

Al bambino Pete/ " Tommy", martirizzato e sessualmente abusato, non è stato sufficiente crescere, avere successo. Affermazione, denaro, una vita sessuale ed affettiva familiare serena ( è sposato, padre di due figli ), non sono bastate. Non sono bastate, quindi, le realizzazioni sul piano narcisistico ed affettivo per poter bonificare quel senso di sofferenza, frustrazione e rabbia distruttiva sperimentato nell'impotenza e passività a sfondo omosessuale vissuta da bambino.

Forse circostanze abbastanza fisiologiche attuali, quali l'invecchiare o il dover solo più consolidare il successo e non poterlo rincorrere ancora, hanno fatto da elemento scatenante per l'emergere della crudeltà sotto forma di pedofilia.

Ai ragazzini del college - tra parentesi, tutti ragazzi di " buona famiglia", studenti di un college esclusivo e costoso, quindi non facenti parte di quella galassia nebulosa dei disastrati sociali, che tende a mettere con la coscienza tranquilla intorno ad una diversa radice di appartenenza la borghesia cui apparteniamo -, ai ragazzini del college , analogamente, seppure su un altro piano ancora, non è bastata l'istruzione scolastica, intesa come possibilità di avere davanti un futuro, per tollerare di esser messi in uno stato di relativa difficoltà dal compagno prodigioso.

Non hanno potuto tollerare di stare in uno stato di spettatori del successo e della differenziazione altrui. Già nella coazione a doverlo prendere in giro e umiliarlo a " femminuccia frocetto " sta un aspetto di sintomo di una difficoltà. Sintomo di una grave intolleranza per la supposta debolezza e sensibilità di un compagno " colpevole " solo di non essere omogeneizzato con le caratteristiche con cui si esprime -per l'adolescente in media e per il razzismo sessuale sociale- la mascolinità.

L'esser stati messi nella necessità di sentire, attraverso la bravura e la sensibilità del compagno, qualche inconscia emozione, l'esser stati messi in contatto con un magma di sentimenti ambivalenti, confusi, interni a loro, intorno alla differenziazione sessuale, penso abbia scatenato un'angoscia e sentimenti di pena intollerabili che hanno agito, in modo distruttivo, capovolti in crudeltà.

Quella crudeltà e criminosità che deriva dalla presenza nel proprio mondo interno di oggetti crudeli introiettati attraverso dolorosissime esperienze infantili - nel caso di Townshend - e quella crudeltà che viene scatenata dall'entrare in contatto con qualcosa di desiderabile ma che appartiene ad altri: Se questo qualcosa è solo un attributo desiderabile, la crudeltà delinquenziale può limitarsi alla depredazione. Se, invece, è tutto un insieme che viene a mettere in crisi la struttura interna stessa del soggetto le cose vanno diversamente e si declinano in modo sempre più pericoloso e distruttivo. E' pensabile che la fisiologica bisessualità e l'emotività ad essa connessa nel periodo della adolescenza e della possibilità, per dei ragazzini, di trarne o meno dei vantaggi per la crescita emotiva, possa aver fatto crescere a dismisura nei compagni di Kris dei sentimenti primitivi intorno all'incapacità di tolleranza degli altri come persone dotate di una loro individualità, che, nei casi migliori, suscita un senso di curiosità e di bellezza, in quelli distruttivi, un bisogno primitivo di togliere di mezzo la differenza che disturba e che fa soffrire, a qualunque prezzo e con qualunque tipo di giustificazione. In questo caso, mentre Kris ha saputo elaborare gli aspetti disturbanti dell'ambivalenza che scaturiscono dalla bisessualità umana,, anzi, addirittura arricchendosene sotto forma di " grazia ", gli altri ne vivono, probabilmente, solo gli aspetti disturbanti, confusivi e devono scinderla nettamente, in una sorta di opposizione: si è solo maschi o solo femmine: Ogni zona più sfumata diviene pozzo di angoscia e va espulsa ed evacuata.

Anzi, così come è talvolta decisivo, per il criminale aggressivo, il provare pena per l'oggetto dei suoi attacchi, decisivo nel senso che il sentimento di pena si aggiunge alla rabbia distruttive e crea un ulteriore fardello per l'aggressore, il quale, per liberarsene, ben lungi dall'essere ammorbidito, decide di eliminare, con l'uccidere, con lo scagliar via dai suoi occhi, l'oggetto che, procurandogli pena, lo fa sentire ancora più sofferente ed incapace, analogamente, il fatto che il piccolo Kris abbia fatto sentire dell'ammirazione ai compagni, deve aver scatenato in loro ancora più intolleranza per i propri sentimenti ambivalenti di fronte alla sessualità e alla differenziazione.

Distruggendogli il piede, lo strumento della sua "grazia", ne hanno punito ed eliminato il mezzo con cui Kris dava loro emozioni di disturbo.

Il compagno ballerino non viveva, evidentemente, la sua parte femminile come una orrenda debolezza di ostacolo alla realizzazione della sua mascolinità. Sublimata a sensibilità e bellezza, questa parte femminile gli dava gioia e, per di più, possibilità di emanciparsi dagli adulti, di individuarsi in un modo che oltretutto gli dava successo ed approvazione da parte degli adulti.

Tutto questo deve aver scatenato invidia ma anche qualcosa di più primitivo: quell'ansia persecutoria intollerabile che deve essere assolutamente evacuata prima che si rivolti contro il sé, portando al suicidio.

Eliminando il piede del danzatore, eliminando la danza come piacere ed espressione creativa della sessualità sublimata, i ragazzini hanno tentato di eliminare il contatto con quelle fantasie bisessuali omosessuali che rischiavano, unite ad un vissuto di inadeguatezza e di confusione e di difficoltà nel lavoro di individuazione/ separazione, rischiavano di diventare una minaccia per il sé.

Creando, come Townshend, un'autogiustificazione alla crudeltà, una razionalizzazione moralizzatrice o normalizzante, hanno colorato la crudeltà distruttiva di uno scopo, diciamo, " pedagogico " e correttivo.

In queste situazioni, sia nella pedofilia che nell'aggressività, tutto quanto produce dolore psichico - la pena, nel caso di Townshend, l'ammirazione e la bisessualità nel caso dei ragazzini, non è vissuto come qualcosa che rende tristi ed angosciati, ma come qualcosa che scatena collera e che va evacuato, o liberandosene col capovolgimento della situazione, o coll'eliminazione fisica del problema e lo scopo di liberarsi è raggiunto con tanta determinazione quanta è la sofferenza mentale che c'è dietro.

A questo punto, crollano i miti.

E si rende sempre più necessario quell'umile e paziente lavoro che consiste nel cercare di stare dentro le situazioni emotive, anche se questo ci fa sentire sempre più incapaci e in difficoltà e senza avere, come l'eroe Tommy, una bacchetta magica che ci faccia vendicare di tutte le sofferenze e i torti e le difficoltà subite.

Forse la vita non è, come dice Shakespeare " una favola senza senso, recitata da un'idiota", forse è solo un realistico venire a patti col nostro narcisismo e col nostro dolore mentale.

Il lusso ci salverà

La notizia
Che lusso!
Panorama del 23 gennaio 2003

Daniela Brambilla Il commento
Che lusso! Queste poche parole aprono un servizio sul settimanale Panorama, mentre invece la copertina della rivista, un po' dimentica dei problemi che sconvolgono il mondo, ci mostra una seducente e procace Monica Bellucci, che quasi ipnotizzata guarda oltre l'obiettivo, e pare vedere solo generi di consumo lussuosi; telefonini, creme costose, abiti firmati,…etc.

Nell'articolo leggiamo che un professore americano della Columbia University, James Twitchel, autore del saggio "Living it up, our love affair with luxury" profetizza che il consumismo abbatterà le differenze religiose, le lotte di classe, e porterà la pace.

Le sue innovative tesi sono argomentate da Twitchell così: "Il lusso emana un fascino che unisce mondi apparentemente molto distanti. Gli abitanti di Roma e Seul oggi sono molto più vicini rispetto al passato, grazie a ciò che consumano."

Si può credere che l'articolo sia ironico oppure provocatorio ma così non è, per questo insigne professore il lusso realmente abbatterà le distanze, appianerà le differenze e quindi il lusso ci salverà. Tutto questo ci fa credere che questa copertina e l'articolo all'interno non siano altro che il trucco di un abile commerciante che vuole abbagliare e meravigliare.

Un uomo abile quel bottegaio. Si ignorava che cosa avesse fatto prima: ambulante, dicevano alcuni, banchiere a Rouen, affermavano altri. Di certo c'era una cosa, era capace di fare a memoria certi calcoli tanto complicati da mettere in difficoltà lo stesso Binet. Cortese sino alla più smaccata ossequiosità, stava sempre un poco chino sulle reni, la posizione di chi saluti o inviti gli era abituale.
G. Flaubert Madame Bovary

Questo commerciante che vende ogni tesoro a Emma Bovary sembra assomigliare ai nostri moderni imbonitori che ci promettono felicità e giovinezza eterna basta solo che sappiamo comperare, comperare, e ancora comperare.

Nella società moderna ogni dimensione dell'esistenza umana è stata pervasa dal feticismo della merce descritto da Marx nel 1847, è inevitabile che ogni bene materiale possa sostituirsi alla reciprocità dell'attenzione spontanea e gratuita, dell'amore, dell'ammirazione, dell'accettazione, della soddisfazione erotica. Nella forma mercificata di società che sta rapidamente colonizzando il più remoto angolo del mondo diventa un problema quotidiano decidere se prodigare la propria attenzione amorosa a cose e a persone. In questo nostro tempo, anche il sesso non è che una merce tra le tante e, come ogni merce è usato quale sostituto di tutte le altre emozioni e desideri. I beni materiali nelle nostra società sono un sostituto di sicurezza autonomia e amore. Nell'immagine di copertina, il corpo della Bellucci pare rimandare alla merce che consumerà e lei stessa pare un meraviglioso oggetto da consumare, pare un bell'anello da mettere al dito.

Comperare sicurezza, ammirazione, amore, potere e sesso è tanto più facile che non affrontare la complessità dei rapporti con esseri umani pericolosamente vivi ed imprevedibili. Il comperare cela il malessere, il vuoto e la pochezza delle relazioni, comperare impedisce di pensare al conflitto, sia questo quello interiore di ogni uomo sia quello del conflitto bellico. Ad un certo livello il feticismo della merce può compenetrare sempre più invasivamente l'atteggiamento generale dell'individuo nei confronti della vita, e pertanto permeare di sé le modalità affettive e di comportamento di una società intera.

In Madame Bovary compare quell'alienazione che un secolo dopo si impadronirà nelle società sviluppate di uomini e donne ( ma soprattutto di queste ultime, per le loro condizioni di vita) il consumismo come sfogo per l'angoscia, cercare di popolare di oggetti il vuoto che ha determinato nell'esistenza dell'individuo la vita moderna […] da servitori e strumenti degli uomini le cose diverranno loro padroni e distruttori.
T. Tanner

Emma Bovary non era mai stata molto capace di sopportare emozioni dolorose come il senso di perdita e la tristezza. Se si sentiva inquieta cercava di procurarsi diversivi e svaghi: romanzi, canzoni, fiori, pettini per capelli, un vaso, braccialetti, abbonamenti alle riviste di moda, una sottoveste, una nuova relazione sentimentale.

Quando chiesero a Flaubert chi era Madame Bovary, Flaubert rispose che egli stesso era Madame Bovary . Egli, infatti, aveva una profonda simpatia per la situazione di Emma e non si riteneva indenne dalle passioni né estraneo alle condizioni sociali che vincolavano lei al ruolo di donna disonorata.

Anche noi come Emma ci lasciamo, quindi incantare da abili bottegai, le illusioni che cercano di venderci in forma di bene di consumo rappresentano un modo per sfuggire alle nostre angosce, alla nostra situazione, alla terribile depressione e alla follia che potrebbe sopraffarci

"Gli orecchi le tintinnavano come se monete d'oro, sfuggendo dai loro sacchi, le cadessero intorno sul pavimento."

Non diversamente da Madame Bovary abbiamo smesso d'indagare attorno alla natura della realtà. Ciecamente e freneticamente veneriamo le nostre false icone, le merci feticcio. Grazie alle merci non è più necessario subire e affrontare realtà dolorose e amare dell'esistenza. Il piacere è a disposizione in ogni sua varietà e forma, e chiunque lo può comperare o rubare al supermercato. Nel propugnare una tesi così particolare questo servizio pare rivelare una specie di volontà di oscurare il pensiero e di modificare il nostro sguardo sul mondo. Non più uno sguardo attento, ma uno sguardo ipnotizzato e catturato. Sguardo che non ci permette capacità critica, ma ci immobilizza, ci tiene fermi al nostro posto di consumatori.

Vicini... solo se lontani

La notizia
Adolescenti e telefonini. L'amore virtuale dei ragazzi cresciuti con il cellulare. Telefonini sempre più complessi, giovani e bambini sempre più smaniosi di possederlo per ostentare l'ultimo modello e sentirsi così di far parte del mondo degli adulti. E' stato uno dei regali più richiesti dai bambini dagli otto anni in su, e tanti lo hanno trovato sotto l'albero. (…) Ma al di là dell'essere oggetto di moda, il telefonino sicuramente influenza i giovani nello stile comunicativo e nella relazione con l'altro. Il messaggino ha sostituito il bigliettino e anche la lettera, il linguaggio è sempre più sintetico e per aumentare la capacità comunicativa i ragazzi hanno inventato nuovi codici, utilizzando i diversi segni e attribuendo loro un valore simbolico, ottenendo così in poco spazio fisico una grande possibilità espressiva. Un fenomeno cui assistiamo spesso è vedere un gruppo di giovani che parlano al telefonino o inviano messaggi con un entusiasmo e un'importanza direi prioritaria verso chi è lontano in quel momento, mostrando poco interesse allo scambio o alla chiacchierata con chi è seduto accanto. Questo comportamento non è dettato solo dalla voglia di usare il telefonino o di farsi vedere impegnati in mille comunicazioni, ma dalla possibilità di vivere l'esperienza dell'intimità virtuale. (…) Sta cambiando il tipo di distanza necessaria per favorire il costituirsi di una relazione. L'intimità oggi non è vista come vicinanza, in quanto la difficoltà di manifestare i sentimenti, di verbalizzare e di vincere il pudore e superabile solo stando dall'altra parte del telefonino. L'intimità sembra potersi concretizzare in rapporti che garantiscono la distanza fisica, che proteggono da quel senso di vergogna e timidezza di cui sono portatori i rapporti significativi. Come se lo spazio virtuale consentisse di anestetizzare le emozioni troppo forti presenti in una relazione. (…).
Il Secolo XIX, 4 gennaio 2003

Eraldo Walter Machet Il commento
Più che una vera e propria notizia di cronaca, stavolta resto attratto da questo bell'articolo, la cui apertura è posta in prima pagina, già dal titolo interessante; lo scritto è di Federico Bianchi di Castelbianco, uno psicoterapeuta evidentemente sensibile a tali fenomeni.

Le sue attente osservazioni mi hanno suscitato ulteriori riflessioni che cercherò qui di esprimere.

La prima è più immediata riguarda il fatto che questa modalità di relazione che tanto coinvolge il mondo giovanile è anche presente, in modo consistente, nei rapporti fra adulti. La cosa non deve certo stupire, se è vero com'è vero, che i giovani sono la coscienza epifanica del proprio tempo, come Hegel aveva già acutamente rilevato .

Altra riflessione riguarda questo particolare periodo dell'anno, in cui troviamo su tutti i quotidiani ampi spazi pubblicitari ai telefonini, a volte persino intere pagine e nei negozi di telefonia, di elettronica ed affini, almeno in una vetrina sono messe in bella mostra le più recenti novità immesse sul mercato. Segno evidente che è un articolo che attira molto, indipendentemente dall'età, dal sesso, dal ceto sociale e culturale. Quest'oggetto così richiesto in questo Natale, come osserva Bianchi di Castelbianco, può esser letto come espressione del costante bisogno di comunicare quello che siamo, quello che sentiamo. Può essere inoltre espressione di un bisogno di dare e di ricevere attenzione e amore all'interno della relazione e degli affetti che ci troviamo a vivere. E se così fosse acquisirebbe significato e valore il senso psicologico del Natale, che richiama dentro ciascuno di noi, inconsapevolmente, il ricordo della nostra personale nascita, del nostro essere stati bambini amati ed accuditi in seno ad una famiglia. E che ora, pur con il rimpianto di tutto ciò, finito per sempre, è tuttavia ancora importante dentro di noi rievocare simbolicamente.

Ci sono però troppi segnali che fanno supporre che le cose non stiano proprio così. Tra luci, colori, messaggi audiovisivi, regali, pranzi … tutto in modo così frenetico ed enfatizzato, sembra proprio che nulla più riguardi questa ricorrenza nel suo significato originario (quello religioso) e nel suo significato personale (quello psicologico).

Sembra invece che ci si stia orientando sempre più verso quel mondo che solo il poeta, lo scrittore sa cogliere con immediatezza e profondità e sa suggestivamente descrivere con la sua fantasia.

Mi torna alla mente, a tal proposito, il mondo fantastico di Edwin A. Abbott raccontato in "Flatlandia" (ed. Adelphi, MI, 1993). Un mondo dove emblematicamente i protagonisti sono figure geometriche che vivono e

"si muovono qua e là, liberamente sulla superficie o dentro di
essa, senza potersene sollevare e senza potervisi
immergere, come delle ombre, insomma…".


Un mondo dunque che esclude ogni interiorità poiché l'interno e l'esterno di questi "esseri umani-figure" esiste su piano bidimensionale di lunghezza e di larghezza. Dove assenza di spessore e di profondità non fa che ridurre i rapporti ad un contatto superficiale, ad un aderire all'immagine dell'altro visto e giudicato solo in base alla sua configurazione esteriore. E' questa assenza di spessore che ravviso nell'amore virtuale (appunto!) degli adulti e dei ragazzi "cresciuti con i cellulari". E' assenza di spessore che lascia intravedere il timore di qualsiasi forma di emotività, la paura di entrare in uno stato d'animo di fronte all'altro e di poterne o non poterne uscire. Necessariamente in un contesto del genere il contatto non avviene che attraverso l'udito, a Flatlandia come nel mondo degli umani, dove già dal particolare input musicale o sonoro del cellulare si può individuare chi chiama e scegliere se mettersi o no in comunicazione. Ma, ancor più, è attraverso la vista complice, non a caso, la nebbia che il mondo di Flatlandia permette di distinguersi e di presentarsi, come nel nostro mondo attraverso l'SMS o la foto, opportunamente selezionata, che ora è possibile trasmettere. Ma dove, ancor più suggestivamente, Abbott è riuscito a cogliere il terrore di riconoscere ed accogliere la propria emotività e di comprendere quella dell'altro, dunque di entrare anche in una "terza dimensione " è in Linelandia, l'altro mondo interno al primo, dove:

"l'unione non ha bisogno della vicinanza; e la nascita dei figli è
cosa troppo importante per dipendere da un caso come la
contiguità (…) i matrimoni si consumano mediante la
facoltà di emettere suoni, e mediante il senso dell'udito. (…)
tastarsi, toccarsi, entrare in contatto (…) è punibile con la morte",


dice il Re al protagonista del racconto. Siamo nel mondo che spesso incontriamo nei nostri pazienti, ma anche nei rapporti di vita quotidiana, dove vediamo un maggior livello di sofferenza, una mancanza, se possibile ancor più accentuata, di interiorità ancorché bidimensionale e dove quasi nessuna emozione è possibile lasciare affiorare, forse neppure a grandi distanze. Ma il massimo della sofferenza, della solitudine, del narcisismo, della follia si ritrova in Pointlandia, ultimo mondo che si può scorgere anche in questa nostra realtà di "amori virtuali", dove in un baratro adimensionale esiste solo il Punto.

"Egli stesso è tutto il suo Mondo, tutto il suo Universo; egli non può
concepire altri fuor di se stesso: egli non conosce lunghezza, né
larghezza, né altezza, poiché non ne ha esperienza; non ha
cognizione nemmeno del numero Due; né ha un'idea della
pluralità, poiché egli è in se stesso il suo Uno e il suo Tutto …".


Un'ultima riflessione ancora porterebbe a chiederci da dove nasca questa impossibilità drammatica di concepire una vicinanza emotiva e fisica alle persone, soprattutto a quelle che più si amano: la risposta ci porterebbe ora troppo lontano. E' comunque un dato ormai ampiamente acquisito che vi sia una continuità nella vita emotiva che si rinnova nelle scelte d'amore compiute da ciascuno di noi. Tutti i desideri di affetto, di intimità, di amore, soddisfatti o meno durante i primi anni di vita, sono diretti sul nuovo oggetto d'amore. Questi sarà vissuto, in ragione di tale trasferimento, come la fonte di ogni bene, ma anche come l'origine di ogni male e di ogni mancanza. Ecco perché l'amato assume agli occhi di chi ama un'importanza enorme. Ed ecco perché la persona che più si ama è la stessa che più si teme. Quella gioia appena intravista di unione con l'altro, infatti, si può trasformare ben presto in dipendenza, possessività, vincoli: essere vicini … solo se lontani, è sentito allora come l'unica strada percorribile.