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Il colore dell'anima

La notizia
Allarme tra i ragazzi francesi. Il gioco mortale del sogno blu. "L'ultimo l'hanno seppellito lunedì, a Seingbouse, Mosella. C'erano i suoi compagni di scuola, il sindaco, la sua insegnante che ha detto poche parole: "Era un ragazzo molto buono: chi poteva immaginare?" E invece l'ha fatto: aveva 12 anni, l'hanno trovato quasi appeso al letto, nessun messaggio. Suicidio? No, "le reve blue, il sogno blu…
La Stampa, 4 dicembre 2002

Maurizio Lo Faro Il commento
L'articolo continua descrivendo come accada che alcuni adolescenti si stringano attorno al collo un foulard, una cintura, uno straccio, qualsiasi cosa possa servire come ponte verso uno stato vissuto come paradisiaco: il respiro si blocca, il cuore si ferma, il cervello si annebbia, la coscienza vacilla in una specie di flash e intanto si vede cosa c'è dall'altra parte e si torna a raccontarlo. Quando si torna.

Da queste brevi frasi sembra percepirsi il tentativo di recupero di una dimensione lontana; possiamo pensare all' "anima", che viaggiando a ritroso torna in una sorta di paradiso perduto; l'esperienza sarà poi comunicata a pochi eventuali eletti, coloro che hanno assistito e aiutato il prescelto nel suo viaggio.

Ora, l' "anima" in una lettura simbolica non strettamente cristiana può essere considerata come il contenitore delle emozioni, degli affetti, dei sentimenti; è attraverso essa che percepiamo, sentiamo, amiamo e soffriamo. Ci si può chiedere, allora, se i ragazzi che sentono il bisogno di provare delle sensazioni così laceranti e così dolorosamente intense e vicine alla morte, non lo facciano a causa del loro sentirsi come anestetizzati, funzionare come se non riuscissero a trovare la manopola dell'intensità delle loro emozioni e degli affetti.

Come suppellettili, oggetti contingenti, possono accorgersi che il mondo intorno a loro si muove, che il tempo passa, le cose cambiano, alcune persone provano qualcosa per altre, ci si ama, si gioisce, si soffre…

Essi, invece, possono sentirsi ancorati a terra, impossibilitati anche ad urlare la propria disperazione e il proprio bisogno di affetto e aver perso la speranza di provare, un giorno, qualcosa che possa risvegliarli da questo torpore.

Un'esperienza come il "sogno blu" può allora scuotere colui che può percepirsi come un ragazzino inutile ed impotente, ci si può sentire per un momento fuori dal passato reale e senza preoccupazione per il futuro: i muri crollano, l'orizzonte si allontana; ci si perde nell'infinito. Il sole sembra esistere per riscaldare solo il soggetto che turbina immobile fino ai confini della Terra; non più una coscienza vacante, uno sguardo astratto ma l'evaporare nell'azzurro, non avere più confini…

La ricerca di un' "anima" siffatta che contenga le emozioni di cui ci si sente deprivati si trasforma però nel ritrovarsi con un'anima dannata che costringe la persona ad avvicinarsi sempre di più alla morte nel tentativo paradossale di non sentirsi morti.

Un viaggio a ritroso così artificiosamente costruito ci fa pensare alla nostalgia di qualcosa: prima di venire in questo grande mondo, ognuno di noi è stato in un altro mondo, il grembo materno e ciò ha creato nell'animale-uomo un desiderio fusionale struggente di recuperare la precedente vita vegetativa. In questa vita non vi era respiro e immerso nel liquido amniotico il feto provava la sensazione onnipotente di nuotare in un azzurro oceano, si tuffava nel bene più profondo e nel sonno più riposante. Lo stato intrauterino può, a ragione, essere rappresentato come il bene totale; la sua condizione viene, però, spezzata dall'evento della nascita e la separazione può suscitare un sentimento di mancanza e un desiderio di ricongiungimento. Quest'ultimo viene nostalgicamente ricercato nei rapporti affettivi: attraverso gli affetti e l'espressione della sessualità esiste la possibilità di vivere con la persona amata quell'unità fusionale che sembra perduta per sempre ma che esiste come speranza di poter dare e ricevere amore che è contenuta nell' "anima".

Se le esperienze affettive di un essere umano sono tali da non realizzare il suo desiderio d'amore egli potrà sentirsi impotente, impossibilitato a vivere le connotazioni emotive di ogni rapporto che vivrà: la sua "anima" svuotata da ciò che gli è essenziale sentirà il bisogno onnipotente di ricongiungersi con un paradiso perduto artificiale. L'onnipotenza sarà vissuta nel bisogno impellente di rivivere la fusione originaria con la madre: ma l'inganno mortale si esprimerà attraverso un intrappolamento; ciò che dà questa sensazione: la mancanza d'aria, il senso di soffocamento, il brivido che frantuma ogni barriera è quello che trascinerà il soggetto verso una discesa agli inferi senza ritorno, nell'illusione di essere forti poiché si decide anche l'attimo della propria morte.

Chi poteva immaginare? Già: dei ragazzi nessuno si immagina mai niente.

La vita in un pugno di CD

La notizia
Dal 3 al 6 dicembre si tiene a Juan Les Pins il Convegno internazionale dell'Association for Computing Machinery, dove Gordon Bell e Jim Gemmel, ricercatori della Microsoft, presenteranno i risultati di un esperimento relativo alla trascrizione su computer di dati che riguardano l'esistenza di una persona.
La Repubblica, 2 dicembre 2002

Nicoletta Massone Il commento
Ogni dimenticanza verrà abolita.

Questa è la scommessa di Gordon Bell e Jim Gemmel, ingegneri del laboratorio della Microsoft a S. Francisco, che si propongono di raggiungere un risultato così ambizioso, registrando su computer tutti gli avvenimenti della loro via: appuntamenti, nomi e storie delle persone conosciute, brani musicali, libri letti, spettacoli teatrali e film che si sono visti, ecc. “Immaginate di essere in grado di fare una ricerca tipo Google su tutta la vostra esistenza”, dice entusiasticamente Bell, con la possibilità, ad esempio, di conoscere in ogni momento non solo il titolo di una rivista momentaneamente dimenticata, ma anche il luogo dove la si comprava, gli articoli letti di maggior interesse, le suggestioni che sono state utilizzate e il quando tutto questo è successo. “In fondo – osservano i ricercatori – il computer non ha bisogno di dimenticare e quindi perché privarsi di un dato che, forse, un giorno potrà tornare utile, dal momento, tra l’altro, che conservarlo non costa niente?” Questo è, in effetti, un ulteriore aspetto: il materiale che ospita i dati è molto capiente e molto economico. Per fare un esempio, se si registrasse tutto quello che si ascolta in una esistenza lunga 80 anni, si riempirebbero solo 40 GB, ossia una parte molto piccola di un CD vergine. Dunque, perché no? Così le fastidiose amnesie che spesso ci lasciano esposti ad un nulla di significato e di assenza, potranno essere agilmente saturate da un rassicurante rumore di tasti che, tempestivamente, provvede a colmare ogni distanza. Perché no? Costa anche poco. E si può registrare tutto.

“Il PC – dicono ancora Bell e Gordon – potrebbe contenere copia anastatica della nostra esistenza”. L’idea, in origine, era venuta ad uno stretto collaboratore del presidente degli Stati Uniti, Frenklin Delano Rooselt, che aveva immaginato di potersi servire di un archivio ben strutturato, completo e versatile, della propria esistenza, in modo da essere provvisto in ogni momento di tutti i dati necessari. In effetti, il progetto può affascinare: mai più parole “sulla punta della lingua”, non più il senso di un incedere claudicante, sul crinale di una consapevolezza dolorosa di incompletezza.

Dove va quello che non torna in mente? Le parole, ma anche i paesaggi e i volti, gli occhi e le mani? Possibile che la nostra vita svanisca in questo modo lieve, inesorabile, assoluto? Senza nemmeno rendercene avvertiti, i giorni si congedano da noi con indesiderata discrezione e si portano via per sempre i colori, i baci e le lacrime. Finiamo per sparire del tutto a noi stessi, inghiottiti da un tempo indifferentemente uguale per tutti nel suo silenzio misterioso.

D imenticare non è bello quando diventa immagine di una caducità che ci contamina e che ci attende. La copia anastatica della nostra esistenza, dove nulla va perduto, e tutto è sempre contemporaneamente disponibile e presente, può forse consolare il nostro smarrimento che parla, invece, di perdita e di abbandono. Ma è poi davvero una consolazione?

A dire la verità, anche se ricordiamo, anche se lo facciamo con la maggior precisione possibile, nessuna accuratezza riuscirà a rendere effettivamente presente l’oggetto del nostro ricordo. Né a scacciare la pena per una perdita intollerabile e per una solitudine che sembra sostanziale al nostro esistere. Forse l’idea del “cervello di scorta” cerca di alleviare l’inquietudine con l’illusione di una autosufficienza assoluta: ricordiamo tutto quello che ci è accaduto, che ne impadroniamo, lo inscriviamo nella materia, in un pezzo di materia da portare persino in tasca, sempre con noi, leggibile dalle tecnologie future, immortale. Nessuno si permetterà più di passare per la nostra vita accendendola di desideri e speranza, per poi andarsene lasciandoci solo la desolazione del silenzio, dell’abbandono, del fallimento. Ci prendiamo tutto prima, anche l’emozione del nostro cuore, e la portiamo in un luogo non deteriorabile, sempre a nostra disposizione per tutte le volte che ne avremo bisogno. Non ci capiterà mai più di attendere qualcuno che non viene, non vogliamo conoscere l’ingiustizia e la lacerazione della mancanza. Non ci fidiamo di nessuno perché proprio tutti ci possono ferire, non ci fidiamo nemmeno di noi stessi, così poco attendibili, imprecisi e fragili. Cosa vogliamo raggiungere? Forse possiamo tentare di dimostrarci che la memoria è solo questo: una semplice registrazione di dati. La nostra mente, quasi pellicola fotografica, si impressione agli input luminosi che la raggiungono e registra dei dati. Realizza fedeli riproduzioni. Ma sappiamo quanto questo non sia vero.

Ricordiamo in modo discontinuo, infedele, impreciso, a volte anche cosa mai accadute. Certamente ricordiamo, invece, qualcosa che ci ha catturato emotivamente: quel Natale quando i regali sotto l’albero ci hanno resi certi dell’esistenza di Babbo Natale, una risata inaspettata e travolgente che ha riempito di sé case e strade e piazze, uno sguardo sfuggente e un po’ ambiguo che abbiamo saputo solo dopo che era l’ultimo sguardo. Nel tentativo di descrivere, verrebbe voglia di raccontare, tenere conto dei mille particolari perché tutti, improvvisamente, ci sembrano importanti, addirittura irrinunciabili. Altrimenti non si può capire. Il ricordo, così, si rivela essere un precipitato complesso di elementi che contengono un significato irrinunciabile per noi, un senso che ha costituito la nostra storia e quello che noi siamo. Un senso, poi, mai compiuto definitivamente, che sembra sempre sfuggirci nella sua interezza quanto più ci affanniamo a raggiungerne la sostanza ultima. A volte pensiamo e ripensiamo ad un fatto e questo, invece di sciogliersi e chiarirsi, si apre ad una infinità di ulteriori significati. Tutto questo, però, può essere certamente destabilizzante per noi. Una memoria che non è fedele riproduttrice di realtà, ma che invece si attiva sulla base delle nostre emozioni e dei nostri desideri, sembra abbandonarci ad una non attesa consapevolezza: non siamo incontrovertibilmente legati ad un mondo esterno chiaro, visibile ed oggettivo che ci determina, ma è piuttosto la realtà interna così contraddittoria, violenta e fragile, imprecisa e dolorosa, a motivare i nostri comportamenti e la nostra vita. Dice Bion in Attenzione ed interpretazione:

“La minaccia è sentita derivare dal fatto che tale soppressione (del rapporto con il mondo oggettivo) sconvolge l’esperienza fondata sui sensi, che costituiscono la realtà familiare di ogni individuo […] Tale soppressione sembra anche vicina a ciò che accade nei pazienti gravemente regrediti.”

E’, forse, allora il timore della follia quello che ci coglie, nel momento in cui ci scopriamo stranamente, a volte anche incommensurabilmente, lontani dal mondo che pure abitiamo. D’altra parte, nello scoprire sempre più e nel fare nostri i diversi significati di ciò che ci appartiene, realizziamo una possibilità autentica di arricchimento e di maturazione. Il nostro modo di funzionare, di cambiare e di crescere, è diverso da come ce lo eravamo immaginato, decisamente meno rassicurante del previsto e del desiderato.

Una cellula al giorno... toglie il medico di torno

La notizia
''Da bambino avevo un sogno...''
E così tra vent'anni un detector batterà il tumore.
La Repubblica, 18 novembre 2002

Maurizio Lo Faro Il commento
Tutti noi […] tra una decina d'anni, al massimo una ventina potremo passare sotto una specie di detector, una sofisticata macchina diagnostica in grado di rilevare nel nostro organismo tumori di una sola cellula. Quindi passare dall'oncologo che neutralizzerà questa cellula e toglierà ogni rischio. Potremo dire agli amici: "Che seccatura, mi hanno trovato un tumore e devo rimandare la vacanza di un giorno o due".

Alla lettura di queste righe un'immagine prende forma nella nostra mente: quella di una parte infinitamente piccola - una cellula - che rea di essere cresciuta in modo abnorme viene scovata da un apparecchio molto più grande di lei - un detector - per poi essere neutralizzata.

L'ammalato (ma lo si potrà chiamare ancora cosi?), riterrà tutto ciò un semplice disturbo, un insetto da schiacciare e poi da dimenticare al sole dei tropici a tra le nevi di alte vette. Da quel momento tutto quello che è avvenuto in lui non lo riguarderà più.

Se questo da un lato, per certi versi può essere auspicabile, dall'altro sembra negare all'essere umano un'interezza veicolo di una dimensione emotiva che, molto spesso, è una delle cause principali del cancro.

La capacità razionale dell'uomo, sembra quindi ingigantirsi a dismisura assumendo le vesti di una macchina che riduce a dimensioni sempre più infinitesimali, quando non lo nega, l'urlo di dolore dell'essere umano ferito e sofferente.

Infatti, molte evidenze cliniche mostrano che le persone che si ammalano di tumore o di altre malattie gravi hanno avuto un periodo precedente, che va dai sei mesi a un anno e mezzo, esperienze di stress, implicanti gravi perdite affettive. Queste hanno determinato in loro una sensazione intima di disperazione senza via di uscita, la sensazione che la vita stessa sia vissuta come intrappolante.

Allora, il tumore rimanda sul piano simbolico al sentire la vita come un contenitore incarcerante dal quale non si può uscire, un progetto di morte, una via di uscita da una vita sentita come intollerabile: il soggetto ammalato può esprimere così la difficoltà ad amare e ad essere amato e la perdita della speranza che un giorno questo possa avvenire.

La realizzazione di una tale perdita della speranza e di una tale progetto di morte, cioè il cancro, può affacciarsi al soggetto come evidenza drammatica, attraverso il quale diventa consapevole del proprio desiderio autodistruttivo. Nel momento in cui non agisce più nella silenziosità dell'organismo, come un ladro di notte, ma si mostra nei suoi effetti di catastrofe, l'evento cancro può annientare ma può anche provocare un risveglio liberatore, come avviene quando ci svegliamo da un incubo. Esso è allora vissuto dalla coscienza come un segnale doloroso che porta il soggetto a svegliarsi per distaccarsi dal suo progetto autodistruttivo. Chi è colpito dal cancro si trova quindi in una situazione di grande pena perché si sente come catturato in un circolo vizioso: da una parte si sente bambino impotente, vuole reagire ma è trattenuto dal fatto che il tradimento mortale è stato messo in atto dal proprio stesso corpo, dal cui buon funzionamento dipende la vita.

Si può forse comprendere, allora, come l'incontrarsi con una malattia grave possa mettere in moto un nuovo programma di vita. L'istituzione terapeutica può costituire quindi un punto cruciale per la ristrutturazione di una speranza. Se una persona adulta non si sente in grado di amare e di essere amata si chiude in sé e perde sempre più la possibilità e il diritto di esserlo. Se, però, si ammala, è come ritornasse bambino e riacquistasse il diritto che gli altri si occupino di lui, così la malattia può diventare anche strumento d'amore.

Compito primario del medico, quindi, è quello di servirsi delle cure non solo per attaccare il male ma anche per far rinascere dentro il paziente la speranza che l'amore è possibile.

Il rischio della medicina moderna nel momento in cui diventa tecnologicamente più sofisticata è quello di non tener conto del vissuto emotivo del paziente. Essa dotandosi di "armi" sempre più efficaci dal punto di vista terapeutico si avvicina ad un'organizzazione militare lasciando da parte ciò che può essere il vissuto emotivo di un essere umano visto nella sua interezza. Spesso il male, nell'opinione comune, è visto come una minaccia esterna: è una tipica operazione dell'animo umano: offre il vantaggio di rendere la difesa più facile, in quanto è più agevole difendersi da un nemico esterno che non da un nemico interno a noi. Molte ricerche sul tumore si sono orientate sulle cause esterne trascurando in tal modo i fattori interni: le e mozioni e gli affetti. Non si vuole con questo negare l'importanza dei fattori patogeni esterni, ma essi sembrano spesso cause necessarie ma non sufficienti alla nascita e allo sviluppo di una malattia.

Compito del medico può essere, allora, quello di accogliere il disagio emotivo e la sofferenza del paziente, senza negarla ma riconoscendone la valenza più profonda, aiutando così il malato a poterla esprimere in maniera più consapevole, più simbolica. Aiutare, in ultima analisi, l'ammalato, a formare un proprio linguaggio emotivo, la cui assenza aveva portato il dolore a prendere la via del corpo e di una possibile malattia fisica.

Il conflitto estetico e le buone soluzioni politiche

La notizia
"Cinque miliardi per la cultura". Più mezzi per i beni culturali. "La legge Finanziaria prevede di destinare al settore il 3% degli investimenti dello Stato per le infrastrutture del Paese -spiega il Ministro Giuliano Urbani -. E' la prima volta che in Italia accade una cosa del genere e, se la legge passerà all'esame del Parlamento, si può calcolare che nei prossimi otto anni saranno disponibili almeno 5 miliardi di euro per monumenti e luoghi archeologici, una cifra più che doppia rispetto al passato."
Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2002

Antonina Nobile Fidanza Il commento
Che bello! Mi verrebbe da commentare a caldo. Finalmente ci rendiamo conto a livello governativo dell'importanza di prendersi cura del patrimonio artistico italiano. La lettura dell'articolo, decisamente elogiativo dell'iniziativa, mi incuriosisce, sia perchè è su "Il Sole 24 ore", sia perchè sembrerebbe una lodevole proposta sostenuta esclusivamente dal mecenatismo e dalla filantropia dei privati.

Ci sarà un vantaggio economico? Per il Ministro non deve esserci, almeno in via diretta. "Non voglio mercanti nel tempio -ha tagliato corto Urbani- l'unico obiettivo a cui deve mirare un privato è il prestigio che, la storia insegna, porta sempre dei ritorni indiretti: sarebbe sbagliato guardare alla cultura con una mentalità mercantile". Excusatio non petita accusatio manifesta, direbbe un collega. Infatti al di là della gestione delle biglietterie e delle librerie è la detassazione senza limiti per i capitali investiti nel campo dei beni culturali, che sicuramente non passerà inosservata a Banche e Imprese.

Poiché tuttavia io non mi intendo di economia né, in modo particolare, di arte mi chiedo perché sono stata attratta da questo articolo.

Cosa tocca sul piano emotivo questo tema della salvaguardia dei beni culturali?

Nientemeno che il tema molto complesso e delicato della bellezza e della memoria.

Spesso la memoria è scomoda oppure facilmente la si perde in un rimaneggiamento continuo da "1984", dove impera il Grande Fratello che, prima di un tormentone voyeuristico televisivo era il l'occhio onnipresente di un romanzo sulla negazione della storia e del tempo, a fini di dominio e potere sulle menti ingenue dei cittadini di quel paese felice.

D'altro canto la bellezza può generare sconcerto, timore reverenziale o invidia distruttiva. In psicoanalisi il conflitto estetico da una parte e la costruzione e ricostruzione continua della memoria sono due temi cruciali.

Il rapporto con la bellezza dell'opera d'arte (che ha il suo fondamento nella contemplazione estatica dell'oggetto primario) genera nel fruitore da un lato la speranza di vedere la propria interna bellezza specchiata, dall'altro il timore di confrontare la propria disintegrata realtà interna con la perfezione restandone schiacciato.

Quindi il singolo può esporsi a suo piacimento o evitare l'impatto con l'arte a seconda della sua modalità difensiva.

Nel momento in cui un'ottica economica investe il patrimonio dei beni culturali di un paese, quale l'Italia, che abbonda di vestigia storiche ed artistiche, è probabile che sia necessaria la pubblicizzazione sempre più vasta del 'prodotto' culturale. Per cui la sensibilità del fruitore viene guidata, ma non per questo stimolata correttamente rispetto a tutti i dati necessari per rendere più complesso e differenziato il godimento estetico.

Si può giungere facilmente o all'imbarbarimento del gusto o al vandalismo quando l'attesa conflittuale con cui ci si accosta all'arte, si scioglie, e perverte il significato del rapporto tra mondo interno e realtà esterna. Per cui è buono e idealizzato ciò che è interno foss'anche violenza e distruttività ed è cattivo e minaccioso ciò che è esterno anche la statua immobile o un dipinto appeso.

L'Idealizzazione dell'Italia come paese dell'arte da parte di inglesi e tedeschi è ormai datata ma mi piace ricordare una psicoanalista Paula Heimann che scrive: "Era sera, mi trovavo a Venezia, la luce era fantastica; l'imponente palazzo del Doge appariva come un velo fatato senza sostanza, fluttuante nell'aria, una visione da togliere il fiato. Né prima né dopo ho mai visto una luce simile. Tra le varie persone che passeggiavano lungo il Canal Grande c'era una giovane coppia e il padre teneva tra le braccia il bambino, felicemente addormentato, con la testa posata sulla sua spalla. Ho pensato che questi bambini erano destinati a cogliere la Bellezza nei loro sonni, al sicuro nella comunanza con i loro genitori, e l'amore per la Bellezza dell'Arte e della Natura diventava una parte integrante della loro crescita psichica."

Questa visione romantica dell'iniziazione degli italiani alla Bellezza può oggi sembrare ingenua, ma è comunque lusinghiera. Essa dipende da un particolare modo di concepire il rapporto col bello in psicoanalisi.

La capacità di contemplare la bellezza dipende dalla possibilità di considerare la bellezza del proprio funzionamento psichico, tra inconscio senza tempo e realtà che scorre nella storia. La psicoanalisi, che è sostanzialmente un lavoro sulla memoria, ci insegna a destreggiarci alternativamente tra 'l'eterno presente' della nostra vita interiore e la tragica clessidra che ci ricorda la nostra finitezza. Freud ci mise decenni prima di potersi davvero accostare alla visione di Roma, città non a caso detta eterna, con la sua compresenza di tutte le epoche storiche e la angosciante consapevolezza che quello che c'era non c'è più, e pure qualcosa è ancora lì.

Nella soluzione per la salvaguardia del patrimonio artistico del nostro paese elogiata dal "Sole 24 Ore", si dichiara implicitamente l'insufficienza della tutela pubblica. Del resto il cittadino italiano medio, pur immerso in cotanta bellezza, poco si preoccupa se la "buona" soluzione politica sia più o meno vicino alla verità delle esigenze di tutela o non sia un buon modo di prendere due piccioni con una fava. Pubblicizzare, da un lato, non tanto le bellezze artistiche bensì la "bontà" di Banche e Imprese che devolvono parte del loro "sudato" patrimonio per elevare lo spirito dei cittadini. Dall'altro creare Fondazioni quali serbatoi di capitali non tassabili con un evidente profitto indiretto.

Senza demonizzare la privatizzazione di tutte le risorse del nostro paese, forse c'è da chiedersi se di compromesso in compromesso non si rischi dei perdere del tutto la capacità di considerare Bello ciò che anche Vero, nella corrispondenza tra interiorità ed esteriorità.

Tale rischio si potrebbe configurare nell'appiattimento del gusto per cui la quantità sostituisce la qualità e, contemporaneamente, nella desensibilizzazione all'arte per cui nulla ci arricchisce davvero confermandoci la bellezza del nostro funzionamento psichico, perché semplicemente non lo sappiamo; altra propaganda ci parla di geni, neuroni ecc. che ci governerebbero a nostra insaputa togliendoci la più delicata delle nostre funzioni la capacità di godere della bellezza.

Come per magia...

La notizia
In occasione della Conferenza Scientifica Internazionale (Roma, 9 novembre 2002), svoltasi nel quadro degli incontri dedicati alla ricerca e alla relativa informazione, Umberto Eco è intervenuto con "La percezione della scienza da parte dell'opinione pubblica e dei media", pubblicato da La Repubblica. Eco rintraccia in molte espressioni della vita odierna una certa confusione tra il percorso lento e faticoso della scienza e l'esigenza del "tutto e subito" della tecnologia. Il desiderio della simultaneità tra causa ed effetto, peculiare della magia, si è trasferito alla tecnologia che ci occulta la catena dei procedimenti necessari ad ottenere un determinato risultato. Lo scienziato di fronte alla pressante domanda di promesse miracolose da parte dei mass media dovrebbe preoccuparsi di una divulgazione illuminata, che miri a costruire, pazientemente, un'immagine non magica della scienza nella coscienza collettiva.
La Repubblica, 10 novembre 2002

Mariella Torasso Il commento
Indubbiamente una società come la nostra, che vive al limite del maniacale e che ha pochi spazi di ascolto e di riflessione, è attenta ad un "sempre di più", un "sempre meglio", un "sempre più efficiente" che dilatano all'inverosimile la tensione al superamento.

La stanchezza di un anelito incessante che non sa posarsi e centellinare il piacere - seppure discreto - del presente, cerca nella magia del "cortocircuito sempre trionfante tra la causa presunta e l'effetto sperato" una conferma all'ansia irrinunciabile dell'andare oltre.

Nella storia dell'uomo magia ha innanzitutto rappresentato un tentativo di identificarsi con le forze inconsce per dominarle meglio: spiriti o poteri proiettati su esseri viventi od oggetti non erano altro - allora come adesso - che contenuti psichici con cui la coscienza non aveva ancora imparato a fare i conti.

Il bisogno di magia che convince l'uomo odierno ad ignorare la dimensione propria della scienza è esperienza di tutti i giorni che occhieggia dalle proposte massmediatiche, dalla sempre maggiore incapacità di tollerare la frustrazione e di posticipare la soddisfazione, dalle relazioni superficiali che spesso sostanziano la nostra vita "di corsa". Possiamo, con ben poca soddisfazione - muovendo un solo dito per premere un pulsante - velocizzare le operazioni e dimostrare di poter animare e dominare un televisore, un cancello, un ascensore, una lavatrice, ma con altrettanta indifferenza possiamo rinunciare alla fatica di dialogare con chi è seduto accanto a noi sul treno, per intrattenere al cellulare conversazioni rassicuranti secondo un copione consumato.

L'efficienza della tecnologia è comunque senz'anima e l'uomo che vi si affida senza riserve finisce inevitabilmente per ritrovarsi nella condizione di quei protagonisti di fiabe che sono alle prese con la formulazione di desideri. Sollecitati dal personaggio magico di turno ad esprimere un numero finito di desideri, invariabilmente non sanno contenere la spinta a volere ancora sempre e stoltamente, di propria mano, azzerano i benefici precedentemente raggiunti.

Dalle pagine de L'espresso di questa settimana, in un'intervista, il filosofo francese Paul Virilio rilancia il tema della caduta, dell'incidente, connaturati con la velocità e il progresso. E' proprio l'aspetto "depressivo" che l'uomo moderno non vuole contemplare e che rientra inaspettatamente nella storia facendo lo sgambetto all'efficienza di una tecnologia che vorrebbe essere numinosa.

Del resto Jung, oltre alla pratica magica "difensiva", legata alla necessità di allontanare la paura, individuava un aspetto trasformativo della magia stessa. Alla seduzione della "bacchetta magica" (o del telecomando…universale, che "apre" ad ogni possibilità) si può contrapporre una funzione trasformativa della conoscenza, che attraverso il processo di simbolizzazione, non solo rende possibili i significati dell'esistente, ma ne crea continuamente di nuovi. Secondo tale prospettiva la magia da elemento di disordine può diventare mezzo di sperimentazione diretta dei poteri e delle risorse dell'inconscio.

Il riconoscimento dell'inconscio ha reso possibile, pur nella fatica dell'esplorazione operativa, la conoscenza, appunto magica, di un mondo di immagini, di sogni. Non a caso il dizionario etimologico recita: màgo, voce dotta - per Erodoto 'sacerdote persiano che interpreta i sogni'.

Non possiamo però fare a meno di condividere il rammarico espresso da Eco per quanto riguarda la scienza in generale, rilevando che neppure la psicologia è stata risparmiata dall'abbraccio delle aspettative magiche ("difensive", aggiungeremmo noi). E ci dispiace constatare che, secondo quanto emerge dall'interessante analisi esposta da Blandino (Il "parere" dello psicologo. La psicologia nei mass media, Cortina, 2000), stampa e programmi radiotelevisivi ci rimandano, traendola dal pensiero comune, l'immagine confusa e riduttiva di una psicologia banalizzata in una modalità adattativa piuttosto che trasformativa.