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Chi sta ai piedi della Croce?

La notizia
Crocifisso obbligatorio in aula " Nessun decreto del governo". Il sottosegretario dell'istruzione Aprea risponde alle interrogazioni in senato: retromarcia del ministero.
La Repubblica, 27 settembre 2002

Daniela Brambilla Il commento
Il 18 settembre alla Camera il ministro Letizia Moratti diceva "Mi sembra doveroso assicurare che il crocifisso venga esposto nelle aule scolastiche". E poi: "Le iniziative da assumere per disciplinare in maniera chiara e certa l'esposizione sono attualmente in via di definizione e alle stesse verrà data attuazione nei prossimi mesi."

Le due dichiarazioni della Moratti hanno suscitato una settimana di polemiche che hanno surriscaldato gli animi di laici e cattolici. Forse la controversia è finita una volta per tutte, il governo non proporrà nessuna legge, decreto o circolare sulla materia.

Il crocifisso nelle scuole mi fa ritornare con il pensiero al passato, quando bambina con l'immacolato grembiulino bianco, stavo seduta immersa in quell'inconfondibile odor di scuola, e alzavo gli occhi, al crocifisso davanti a me, convinta che bastava rivolgersi a quel signore così poco vestito e qualsiasi fatica o dolore mi sarebbe stato risparmiato.

Quindi mi chiedo ma perché anche se solo per poco al ministro Moratti è venuto in mente di imporre il crocifisso nelle scuole, e perché mai ha ritenuto importante occuparsi degli arredi scolastici?

Forse tutto ciò poteva essere utile a rinverdire l'identità nazionale a far in modo che fosse possibile un recupero della nostra cultura e della nostra tradizione.

Frank McCourt in Le ceneri di Angela, raccontando il mondo attraverso gli occhi di un bambino nella cattolica Irlanda di inizio secolo, scrive…

"Ho dieci anni e sono pronto per andare alla chiesa di San Giuseppe a fare la cresima. A scuola il maestro O'Dea ci prepara. Dobbiamo sapere tutto della grazia santificante, una perla di gran valore comprata per noi da Gesù con la sua morte. Il maestro O'Dea alza gli occhi al cielo e ci dice che una volta cresimati diventeremo parte della divinità. Riceveremo i doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza e pietà e timor di Dio. Preti e maestri ci dicono che cresimarsi significa diventare un vero soldato della chiesa e dà diritto a morire e a diventare martiri nel caso in cui venissimo invasi dai protestanti o dai maomettani o da qualunque altra razza di miscredenti: Ci risiamo con la morte: mi verrebbe voglia di dire a tutti che per la fede non potrò morire essendo già prenotato per l'Irlanda."

Mi chiedo se la cultura e le tradizioni di un popolo sono davvero recuperabili da un gesto così esteriore, che fa ricorso al pensiero magico infantile. Un gesto che in qualche modo ricorda il cacciatore preistorico, che disegnando cervi sulla parete della caverna sperava che questi si lasciassero cacciare con facilità: "Basterà riunirsi intorno ad un simbolo e noi che siamo portatori di ogni bene vinceremo e trionferemo sul male".

Forse l'umanità tutta, sta facendo ricorso al pensiero magico per non assumersi le sue responsabilità rispetto alla terra, alla vita e agli altri esseri umani che la abitano? Forse è più facile pensare che una religione, come le religioni monoteiste, possiede la verità unica e direttamente rivelata. Inutile dire che di religioni portatrici di verità ce ne può essere al massimo una: quando invece ce ne sono due o, dio non voglia addirittura tre, le cose si complicano ed esplodono. Da un lato, gli altri monoteisti verranno percepiti come sacrileghi e blasfemi, e massacrati nelle reciproche carneficine, che hanno segnato la storia antica e recente di ebrei, cristiani e musulmani. Dall'altro lato, gli infedeli verranno considerati come esseri inferiori da eliminare e redimere, attraverso le innumerevoli guerre di conquista che gli imperialismi ebraico, cristiano e islamico hanno perpetrato nei secoli, negli anni e nei mesi passati.

Se la nostra religione è giusta, se il crocifisso sul muro di ogni classe ci ricorda che noi siamo nel giusto e che non dobbiamo far nessun sforzo riflessivo per accettare parti sconosciute di noi, ci sentiamo onnipotenti, ci sentiamo in "grazia divina".

La psicoanalisi ha messo in luce che il neonato sperimenta un sentimento originario di onnipotenza, come se tutto ciò che esiste fosse racchiuso in lui e tutto accadesse per la sola forza magica del pensiero. Il sé grandioso degli esordi dello psichismo, ci fa credere di essere noi stessi il seno che ci nutre, negando dipendenza e bisogno, il lungo e faticoso processo della crescita ci obbliga progressivamente a riconoscere il mondo esterno, il "non sé", il senso del limite, il dolore della separazione e dell'assenza. Quando si crede nella divinità, invece l'onnipotenza può essere conservata, sia pure proiettata nell'immagine di un "di padre" e nelle figure celesti.

Nelle religioni l'anima è immortale e quindi grazie alla fede possiamo eludere l'angoscia della morte. In realtà l'elaborazione della separazione, della perdita e della morte sono un nodo evolutivo cruciale. D'altra parte uno psicoanalista tedesco di origine ebraica, J. Massermann, sostiene che " la religione consiste in certe difese dell'uomo, curiosamente irrealistiche, paradossali, ma onnipresenti ed essenziali all'economia psichica dell'uomo. Le difese sarebbero principalmente tre:
  • l'illusione dell'invulnerabilità
  • l'illusione che dio sia al sevizio dell'uomo
  • l'illusione della bontà dell'uomo verso il suo simile.
Tali meccanismi sarebbero davvero sacri in senso umanitario ed interferire con essi sarebbe altamente dannoso per il paziente e per il terapeuta.

Alla luce di ciò, devo quindi riconoscere che forse ciascuno di noi per quanto forte e maturo deve far ricorso a operazioni di rimozione, negazione, scissione di certe dolorose verità riguardanti la condizione umana. Mi sembra però pericoloso che qualcuno che per sé conosce la qualità fallace di certe convinzioni consolatorie le dispensi magnanimo ad altri, vissuti come più fragili e "minori". Non a caso la Chiesa e i partiti politici che la rappresentano, combattono battaglie furiose a favore della scuola privata in nome della libertà di insegnamento: perché sanno benissimo che il condizionamento culturale effettuato sui bambini avrà effetti permanenti sugli adulti.

…Poi il maestro chiede: Di' un po', Mulcahy, chi è che stava ai piedi della croce quando Nostro Signore fu crocifisso?
Mulcahy è un tonto. I dodici apostoli, signor maestro.
Mulcahay, come si dice imbecille in irlandese?
Amadàn, signor maestro.
E che cosa sei tu, Mulcahy?
Un amadàn signor maestro.
Fintan Slattery alza la mano. Signor maestro, il lo so chi stava ai piedi della croce.
Ovvio che Fintan sappia chi stava ai piedi della croce. Come potrebbe non saperlo? Fintan va sempre a messa con la madre, che è nota per la sua santità. La madre di Fintan è così santa che suo marito è scappato in Canada a tagliare i boschi, felice e contento di sparire e di non farsi più sentire da nessuno.


Ritornando ai miei ricordi; il signore poco vestito che stava davanti al mio banco di scuola mi ha in realtà aiutata poco, ricordo di aver, nonostante la sua intercessione fatto un sacco di macchie sul quaderno, ma molto probabilmente era impegnato in cose più importanti.

All'affermazione di Nietzsche che " Dio è morto" Woody Allen risponde "No, ha solo traslocato e ora lavora a un progetto meno ambizioso".

Ombra e luce

La notizia
Gian Enrico Rusconi commenta, dalla prima pagina de "LA STAMPA", la questione del Crocifisso in aula. La proposta di legge che vorrebbe il Crocifisso presente quale "emblema di valore universale della civiltà", sposta i termini dalla caratteristica di segno specifico e positivo di fede religiosa, a quella di simbolo - che si vorrebbe universale - rappresentativo invece di particolarità e differenza nei confronti di altre culture. Viene sottolineata l'inopportunità di affidare al Crocifisso sulla parete tale ruolo connotato da forte contraddizione.
La Stampa, 20 settembre 2002

Mariella Torasso Il commento
In un momento storico-sociale in cui si fa un gran parlare da un lato di intercultura e accoglienza, dall'altro di pericolo terroristico arabo-musulmano, il richiamo di un ministro all'esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche rimanda certamente a più di un'insicurezza, non tanto a proposito di fondate radici cristiane, quanto piuttosto di incerte proiezioni future.

La civiltà occidentale, alle prese con l'impatto di una sempre più massiccia immigrazione, facendo ricorso talora ad atteggiamenti di apertura, più spesso a tentativi di rimuovere un problema che non può più essere ignorato, denuncia la necessità di ripensarsi in termini di identità collettiva.

L'indicazione governativa raccoglie l'urgenza di tale ripensamento, collocandosi però in un'area regressiva che tralascia il percorso evolutivo dell'Europa laica dei diritti dell'uomo e del cittadino. Un'identità non si improvvisa, anche se l'attrazione esercitata dal collettivo rappresenta spesso una soluzione difensiva e inconsapevole quando l'individuo non è in grado di trovare risposte personali adeguate ai sentimenti di paura, angoscia e disorientamento. "L'infantile stato di sogno dell'uomo di massa" (Jung) propone così un benessere raggiungibile senza una conquista individuale, con una rinuncia ad essere soggetto attivo della propria esperienza emotiva e un affidamento passivo alla logica del gruppo che fornisce illusorie garanzie di sicurezza.

A fronte di una messa in discussione delle nostre certezze, non pare fuori luogo una lettura che ci consenta di cogliere gli eventi collettivi come il riverbero della psiche individuale, come diretta espressione di una nascosta inclinazione: i demoni e la visione mitologica del mondo, cacciati dal razionalismo illuministico, sopravvivono invece nel profondo dell'animo, mentre l'uomo perde sempre più il rapporto con il suo lato ombra, con ciò che non vorrebbe essere.

Un'inferiorità conscia può essere corretta e modificata, ma un aspetto negativo rimosso e isolato dalla coscienza resta un "inciampo" che può nondimeno irrompere senza preavviso o può essere proiettato irrazionalmente sull'altro. Poiché non è possibile eliminare l'aspetto ombra, si può cercare di "venire a patti" con esso in un processo di confronto, sempre ricordando che la luce è tale perché esiste la tenebra.

Tornando al simbolo del Cristo, possiamo facilmente coglierne la forte connotazione di luce nei confronti di una parte "ombra" oggettivata nel Male o nel diavolo. A tale proposito Jung (Sul problema del simbolo del Cristo, 1953), sottolinea l'aspetto di "incompletezza" del simbolo di Cristo, che si è separato - attraverso il conflitto con Satana - dalla sua ombra.

Si presenta quindi il problema del confronto con l'ombra: come per quanto riguarda il piano personale individuale, il confronto con l'ombra non è che il primo passo sulla strada che conduce alla meta dell'integrazione degli opposti, per cui il simbolo cristiano non verrebbe svalutato, ma completato dall'unione dei due opposti in Dio.

E' questo il dramma archetipico che è al tempo stesso psicologico e storico.

Ecco perché la riproposta di un simbolo che già animò a suo tempo altre "guerre sante" ci può apparire anacronistica e comunque inadeguata in un'ottica di confronto dialettico, che sola può individuare la strada affinché non abbia il sopravvento la forza psichica inconscia e incontrollata.

Una giornata particolare: storie di vittime nella cronaca quotidiana

La notizia
''Miss Italia 2002, trionfa la noia…''
''La nuova battaglia di Safiya: 'Lotterò per liberare le donne'''
'' Magdalene: polemiche da Inquisizione''.
La Repubblica, martedì 10 settembre 2002

Giovanna Capello Il commento
Apriamo il quotidiano, cronaca nazionale, pagina 23. Il rito televisivo di fine estate è stato, anche quest'anno, debitamente consumato: tra abbracci e lacrime è nata Miss Italia 2002. Piccola stella, piccolissima meteorite destinata a sfrigolare sugli schermi italiani per un istante - una coroncina da Barbie posata sulle chiome, il festoso assalto delle concorrenti sconfitte ( ma la smembrerebbero a morsi, ne sono certa ), un muro di flash ad immortalare l'inevitabile pianto… e già le luci si spengono, si sono spente. Colpo di grazia: ci penserà, in via definitiva, l'11 settembre - sfortuna vuole, già l'indomani - a completare l'eclissi. Dopo, ad attendere la stellina, un limbo di oscuri contratti pubblicitari, qualche copertina patinata, qualche passaggio nei calvari televisivi domenicali.

Voltiamo pagina, a ritroso, verso le cronache dal mondo, pagina 19. Safiya, la donna nigeriana assolta dalla condanna a morte per lapidazione, è giunta a Roma, dove le è stata conferita dal sindaco la cittadinanza onoraria. Miracolo vivente della globalizzazione: fiaccolate, appelli istituzionali, mobilitazioni di calciatori e attrici hanno contribuito a salvarle la vita. Lei è venuta in Italia per ringraziare, con modi sottomessi come si usa dalle sue parti, e per aiutare la nuova campagna in favore di Amina, un'altra donna nigeriana condannata a morte per aver avuto un figlio da un uomo con cui non è sposata. ''Salvatela'' ha chiesto Safiya in Campidoglio ''io continuerò a pregare per lei''. Magrissima, il viso segnato dalla paura e dalla miseria, Safiya è tenacemente guardata a vista, accudita e protetta dal suo avvocato, come un uccellino caduto dal nido. Da una capanna in un remoto villaggio dello stato di Sokoto, Nigeria, al Colosseo illuminato in suo onore: vacillerebbe chiunque, al suo posto.

Un balzo in avanti, in zona-spettacoli, pagina 44. Mostra del cinema di Venezia. Continuano le polemiche riguardo all'attribuzione del Leone d'oro al film ''Magdalene'' del regista scozzese Peter Mullan. E' ormai cronaca di ieri la levata di scudi, anatemi e minacce di scomunica da parte delle correnti più conservatrici della Chiesa cattolica: il film - ambientato nell'Irlanda degli anni '60 - racconta, infatti, la vita di ragazze e donne ''traviate'', rinnegate dalla propria famiglia, chiuse in conventi intitolati alla peccatrice Maria Maddalena in cui venivano costrette dalle suore a lavorare come lavandaie, senza compenso alcuno. Nessuna invenzione: si trattava di istituti-lager (davvero esistiti dall'inizio del 19° secolo fino al 1996), dove erano negate pietà e comprensione cristiane, dove esistevano solo silenzio, divieti, punizioni corporali, percosse, violenze sessuali, persecuzioni. Ad un giorno di distanza, l'eco roboante dello scandalo si è già affievolito, fino a ridursi al ben noto strepito tra bottegai, intenti a palleggiarsi responsabilità, attribuirsi meriti, minacciare dimissioni.

Una distanza che si fa baratro separa questi fatti di cronaca: l'elezione effimera di una stellina; il tributo reso ad una piccola donna scampata alla sharia, la legge islamica; le polemiche che hanno prevedibilmente accompagnato la premiazione di un film che denuncia i soprusi subiti dalle donne nel civile mondo cattolico.

Eppure, correndo il rischio di apparire blasfema, mi sembra di poter dire che un filo rosso - neppure troppo esile - leghi queste storie l'una all'altra. Ci sono le stelline italiane selezionate, allevate e scartate dall'acquario televisivo. Seguono le piccole donne africane schiacciate, che solo le crociate del civile occidente sembrano poter salvare. Infine, le lavandaie-prigioniere irlandesi, sfruttate fino a ieri, che oggi possono denunciare i soprusi subiti solo grazie ad un film che, dichiara il regista '' attacca tutte le religioni, tutti i fondamentalismi che opprimono le donne perché rappresentano la forza della vita e dell'amore''.

In un solo giorno di ordinaria cronaca, tre storie, tre realtà che parlano di vittime.

Vittime della famiglia, della religione cattolica, della legge islamica, della legge televisiva…

Vittime indiscutibilmente diverse tra loro, ma che insieme - una pagina di giornale dietro l'altra - ricuciono la trama di una storia che sapevamo di aver già letto e speravamo di aver archiviato: la storia di persone indifese e passivizzate - oggetti disumanizzati e ridotti a corpi.

Il corpo trasformato in feticcio o corpo martoriato dalle pietre, corpo straziato dai lavori forzati o corpo trasfigurato in una cosa liscia, sinuosa, piena di grazia e bellezza…. Corpo glorificato o lapidato: la differenza sta tutta nella sorte che l'oggetto subirà infine. Rimanendo, nell'uno e nell'altro caso, comunque inanimato. E forse neppure incide particolarmente il fatto che si stia parlando di donne: sarebbe anche troppo facile cedere ad un nostalgico e rabbioso rigurgito ideologico, ed imputare al maschio la colpa di trasformare - ancora una volta - la donna in oggetto di squisita fattura o in carne mutilata.

La realtà, oggi, mi sembra più complessa.

Anche l'uomo appare, sempre più frequentemente, un corpo nudo, esposto - a volte vittima che lamenta un drammatico ribaltamento dei ruoli , un'acquisizione di strapotere da parte dell'ex sesso debole, ed è allora corpo maltrattato e lapidato; a volte si fa invece vittima compiaciuta e inerme del proprio aspetto finalmente curato e levigato quanto quello femminile.

Nell'era della globalizzazione, la Vittima non conosce più distinzioni di sesso, società, cultura. E, paradosso apparente, l'essere Vittima consente di sperimentare un nuovo potere: certo, si diventa oggetti ingiustamente maltrattati o sfruttati, ma si ottiene l'autorizzazione ad una richiesta di risarcimento e pietà infiniti.

Si delinea, così, uno scenario di retribuzione, e di vendetta ai danni di coloro ai quali è stato dato il potere di abbandonare e mutilare.

In questo nuovo scenario, alla Vittima, in cambio della sua sofferenza, è garantita la certezza di esistere.

In questo modo, oggetti disumanizzati, indifesi, vittime della società, possono scoprire la possibilità di percepirsi vivi: se si è semplicemente corpo non si può scomparire; il diventare corpo - bellissimo o scarnificato - offre un mezzo per arginare l'angoscia della frammentazione e dell'annichilimento.

Perché è questo il vero orrore del nostro tempo.

Vorrei, allora, tornare per un momento al fatto di cronaca - la Mostra del Cinema di Venezia - e lasciar parlare una signora di grande buon senso, una voce fuori dai cori più schiamazzanti e furiosi.

''I premi corrispondono alle tendenze di una Mostra popolata di protagonisti-vittima, di pena, di compassionevole solidarietà, sempre accolti con caldi, vasti applausi. (…) Su 36 film in concorso e fuori concorso si son visti come protagonisti-vittima: una pittrice inchiodata sulla sedia a rotelle, un aborigeno fuggitivo inseguito da tre poliziotti a cavallo, sarti ebrei francesi scampati all'Olocausto, immigrati maltrattati e vessati a Londra, madre disperata d'un bambino malato di un tumore inguaribile, pazienti del manicomio nella guerra di Cecenia, ragazzo coreano disadattato che si dedica a ragazza coreana disabile, poeta italiano malato di mente, prigioniere di un convento-galera cattolico per ''traviate'', bambini bruciati e straziati negli ospedali di Kabul, prostituta napoletana ammazzata dal figlio. Come se all'impegno si sostituisse la pietà, al ''sociale'' la compassione, alle storie di eroi le vicende di vittime, o come se una vena di sadismo percorresse il cinema: sarà un po' troppo, anche se ogni vittima ha ricevuto grandi applausi, caldi e commossi?''
(Lietta Tornabuoni)

Cuore matto da legare

La notizia
Un nuovo esame del CNR consente di indagare le condizioni generali di salute, in modo da individuare i livelli di possibile sofferenza cardiaca.
La Repubblica, 17 settembre 2002

Nicoletta Massone Il commento
Finalmente un test in grado di operare nel campo della prevenzione per quanto riguarda le affezioni cardiache: questa la notizia degli ultimi giorni. Il Servizio di Prevenzione e Protezione del CNR ha messo a punto uno screening in grado di pronosticare, con almeno 10 anni di anticipo, la probabilità del verificarsi di un infarto al miocardio o di altre gravi patologie cardiovascolari. Questo, attraverso una valutazione dei fattori di maggiore rischio: sesso, età, alimentazione, abitudine al fumo, livelli di colesterolo e di pressione arteriosa, diabete e ipertrofia del ventricolo sinistro.

Nel caso del riscontro di un rischio elevato, il consiglio è quello di iniziare, eventualmente, una terapia farmacologia, ma soprattutto di provvedere ad una modificazione delle abitudini esistenziali. "Nella prevenzione delle malattie cardiache, infatti - sottolineano i ricercatori del CNR - è essenziale lo stile di vita."

Rilievo, noto, forse, ma importante perché, in qualche modo, conferma un'impressione diffusa: la nostra esperienza sembra legare la "malattia di cuore" ad una fatica quantitativamente eccessiva, raccolta nel succedersi quotidiano dei giorni e fattasi, improvvisamente, non più sostenibile. Come se le sollecitazioni cui siamo esposti: responsabilità lavorative, impegni familiari, improvvisi e laceranti dolori, diventassero di colpo un grumo condensato e non più digeribile di sofferenza. Fardello eccessivo che finisce per pesare sull'esistenza e sul nostro cuore che dell'esistere è il battito, il colore, il respiro.

L'esperienze diretta e immediata, dunque, lega in modo privilegiato il cuore alle emozioni. Certamente sappiamo che gli affetti coinvolgono, nel loro manifestarsi, sia il corpo che la mente: la paura fa tremare le mani e sbianca il volto, la tensione di un dibattito acceso imporpora la guance, la pelle si increspa nell'attesa di una carezza.

Una ad una, tutte le parti del corpo si inteneriscono, giurano vendetta o eterno amore insieme con la nostra anima. A seconda delle circostanze, sono le gambe, i capelli o le labbra ad avere maggiore centralità e il cuore non manca mai. E' proprio il suo ritmo che si presta, in modo particolarmente appropriato, ad attribuire un tono affettivo agli istanti e agli incontri della vita.

Giustamente, allora, temiamo per lui che ci appare così forte quando si allarga sulle nostre speranze, ma che sentiamo anche altrettanto fragile quando lo pensiamo esposto senza possibilità di difesa ad ogni intensità emotiva.

E il timore per un cuore che può spezzarsi di colpo, sotto il peso di un compito fattosi intollerabile, rappresenta anche la trepidazione per noi stessi, impegnati nell'identico lavoro di trovare un'armonia interiore rispetto alle esperienze che viviamo.

E' un lavoro che ci attende ogni giorno e che ogni giorno non è mai garantito nella sua conclusione.
Un progetto ha avuto buon esito, ne siamo contenti, ma è costato mesi di preoccupazione, a volte la paura del fallimento è stata cosa quasi palpabile, senza contare la fatica del dialogo con altri, costante tensione nel tentativo di fare prevalere la spinta della collaborazione piuttosto che l'impulso distruttivo della rabbia, della frustrazione e dell'impotenza. Una telefonata affettuosa nel cuore di un pomeriggio di lavoro, sembra allentare, per un attimo, il senso di claustrofobia, ma il calore di quel rapporto è una conquista costante che passa attraverso il dramma del confronto, la metabolizzazione delle piccole e grandi incomprensioni, delle rabbie e delle delusioni. Un caro amico ci ha fatto notare quanto nostro figlio sia sensibile ed attento, un professore ce ne ha lodato la curiosità e l'intelligenza; ci sorprendiamo orgogliosi di avere collaborato alla crescita di queste capacità, ma sappiamo anche la fatica dell'impegno. Proprio nostro figlio, a volte, fa scelte che non ci aspettiamo e questo ci amareggia e ci preoccupa; a volte proprio nostro figlio soffre per una incomprensione, per un amore che finisce, per le nostre stesse scelte e il nostro dolore, sordo e profondo, non può che fare eco al suo.

E' come se ogni giorno avessimo il prioritario bisogno di filtrare tutto ciò che è avvenuto fuori e dentro di noi per trattenere il bene e trasformare il male in qualcosa che ci possa appartenere.

Ci sono occasioni, però, in cui tutto questo non riesce e la sensazione, allora, può essere simile a quella di un'intossicazione: elementi dolorosi, alieni, potenzialmente pericolosi, ci hanno invaso e non sappiamo più come difendercene. Sentimenti negativi che, in genere, siamo abituati a ridimensionare e circoscrivere, ora si allargano a dismisura e l'atmosfera interiore diventa di disperazione: qualcuno, non si sa chi, forse solo la furia cieca del destino, ha cancellato ogni speranza, siamo diventati estranei a noi stessi, intrappolati in una vita che non ci appartiene e che ci schiaccia con la sua inospitalità. Il mondo che ci circonda, improvvisamente, diventa gelido e disadorno: forse ci siamo allontanati troppo e, come Pollicino, non troviamo più la strada del ritorno all'affetto rassicurante di una casa.

E' il nostro stesso pensiero che non riesce più ad accoglierci, a consolare una crescente agitazione. Cerchiamo solo di correre più veloci dell'angoscia, di correrle davanti per non farcene prendere, per non saperla ed esserne strozzati.

E' una corsa a precipizio, sfrenata, non possiamo fermarci per fasciare le ferite, non possiamo tenere conto di chi abbiamo travolto, neanche se quel qualcuno siamo noi stessi.

Il nostro cuore, lanciato a mille, palpita frenetico nella gabbia toracica, troppo piccola ora per contenerlo. Ma temiamo che, a trattenerci, si possa spezzare.

La malattia organica, in questo caso, può essere l'inevitabile conseguenza di uno sforzo stremante al quale non sappiamo trovare alternative. Bisognerebbe potere tornare indietro, forse proprio a quel surplus di dolore che sembra avere rotto l'equilibrio e reso inutilizzabili le nostre capacità di stare con noi stessi.

Anche se quel surplus di dolore, come dicono le tabelle sugli indici dello stress, è l'intollerabile assenza di una persona amata, il muro vuoto e nero delle ore che ha lasciato, l'indigenza colpevole di una solitudine senza rimedio. Anche se quel surplus è la consapevolezza di avere mancato per sempre una meta desiderata, l'ignominia di una sconfitta o il peso di una ingiustizia taciuta.

Sono tutte quantità emotive che sembrano incunearsi e spezzare il fragile contenitore del nostro pensiero che fugge, impazzito, nell'estremo tentativo di annullare, fare sparire, togliere, quello che è avvenuto. Ma non lasciare spazio al pensiero è la paradossale richiesta di vivere solo a singhiozzo, impedire al cuore di battere per abortire un abbozzo di consapevolezza che, in piena luce, sarebbe lacerante. Dice Fernando Pessoa:
"Chi mi solleverà dall'esistere? Non è la morte che voglio né la vita: è qualcosa che brilla nel fondo dell'inquietudine come un diamante possibile nel fondo di un pozzo in cui non si può scendere. E' tutto il peso e tutto la pena di questo universo reale e impossibile da cui l'immaginaria falce crescente della luna emerge con una bianchezza elettrica immobile, ritagliata di lontananza e di insensibilità"

Per non ammalarsi di cuore, dicono i ricercatori del CNR, bisogna cambiare vita e sembra che proprio questo sia accaduto a Chiara che, dopo essersi sottoposta al test, è stata considerata ad alto rischio di malattia cardiaca.

"La mia vita è cambiata, ma più dentro che fuori, forse. Le analisi non hanno fatto altro che confermare una cosa che immaginavo. Ero una che se la prendeva per tutto, che soffriva per le ingiustizie, che correva anche quando stava ferma. Ora qualcosa dentro di me si è spostato, distinguo i miei problemi da quelli che miei non sono. Mi fermo, faccio un bel respiro, aspetto. Non sapevo, non avrei mai detto che avrei preso una minaccia come un'occasione per conoscermi di più." La malattia nasce anche dal tentativo di non sapere, nella certezza che questo sia l'unico modo per allontanare la minaccia della sofferenza. Ma il prezzo da pagare è alto perché ogni nostra risorsa, corpo e mente, è impiegata senza risparmio e senza rispetto. Invertire la rotta e prenderci cura dei nostri pensieri ci permette, come è successo a Chiara, di conoscerci meglio, di sentire quello che ci accade, sentire i battiti del nostro cuore che possono farsi soffocati e sordi, ma possono anche aprirsi sotto la carezza di una speranza nuova.

Bambini... con ricevuta di ritorno

La notizia
Iris e Iman, lieto fine con ministro. La mamma ha riportato dalla Siria la bimba rapita dal padre.
Il Secolo XIX, 20 agosto 2002

Mariella Torasso Il commento
Dalla Siria con Iman […] il sorriso di Iris Moneta arrivata ieri mattina a Malpensa con la piccola Iman, sottrattale dal marito nell'aprile scorso.

Tante situazioni…un uomo e una donna si conoscono, magari nell'ambiente di lavoro, e si ripresenta forse non mai sopito, il bisogno di trovare nell'altro qualcosa che sembra mancarci, qualcosa che, probabilmente, si è percepito come insufficiente fin dalla più tenera infanzia.

Il desiderio di qualcuno che, senza chiederci niente, sia disposto a soddisfarci in ogni cosa…ed ecco, sembra che - può essere la volta buona, chissà! - costui esista veramente. Davvero il partner sembra perfetto, lo vediamo così, egli è disposto a farsi contenitore di ogni nostra angoscia ed a bonificarla, è disposto ad accudirci e ad interessarsi a noi senza curarsi troppo di sé …Iris e Khaled si erano conosciuti in un pub della zona dove lui faceva il buttafuori e lei la cameriera. Poi la gravidanza e l'attesa per quella creatura a cui venne dato un nome arabo. E' la storia di ogni coinvolgimento d'amore, lui o lei sono visti come coloro che ci faranno stare meglio e l'idealizzazione, spesso non permette di scorgere un aspetto maggiormente "umano" nel partner, egli è un angelo in cui ci siamo imbattuti…

A quell'epoca non erano ancora esplosi i contrasti tra il padre e la madre… l tempo passa e l'altro comincia ad assumere dei caratteri propri, oggettivi, svincolati dai bisogni che in lui avevamo proiettato, l'angelo diventa di carne ed ossa, ha sue esigenze, limiti e bisogni che molto spesso possono entrare in conflitto con i nostri. Subentra l'esigenza di un confronto e di un riconoscimento della diversità del partner da noi e tuttavia anche della comune esperienza di essere umano che all'altro ci rende simili.

Se del partner non si accetta il fatto che possa essere "buono" e "cattivo" contemporaneamente, con la presenza di lati senz'altro apprezzabili ma con altri che possono esserlo molto meno, la delusione provata potrà portare a considerarlo del tutto disprezzabile e il passaggio sarà tanto più marcato quanto prima lo si era considerato ideale; egli improvvisamente ci apparirà come un angelo del male, un angelo decaduto.

Può diventare inevitabile, a volte, separarsi, ritrovarsi a gestire qualcosa che sembra molto più grande di noi, compreso l'affidamento degli eventuali figli.

Ora, se per diversi motivi una coppia sceglie di separarsi non per questo un padre ed una madre cessano di essere tali: e quando nacque Iman, Iris non immaginava che quella bambina sarebbe diventata un oggetto di contesa quasi fosse un pacco da sottrarre e nascondere all'altro coniuge e che per lei sarebbero esplose liti e violenze di ogni genere.

Spesso al bambino non viene dato il diritto di ricevere l'affetto di entrambi i genitori separati ma lo si considera alla stregua di un'arma che può offendere l'ex partner che tanto ci ha illuso rivelandosi poi così diverso. Il figlio può venire sottratto, rapito, per mezzo suo si può tentare di manipolare l'ex coniuge colpevolizzandolo, ferendolo a morte. In altre parole il bambino viene vissuto come mero prolungamento dell'individuo, strumento della propria onnipotenza narcisistica: così come la propria mano o il piede possono colpire nell'intento di far male, alla stessa stregua può farlo un figlio conteso.

"Ora potrò vivere accanto a mia figlia - ha esclamato la donna - e farla crescere in una famiglia sana, senza esasperazioni religiose". Forse, a volte, un figlio sottratto rappresenta anche una parte di noi che se ne va: la parte infantile che aveva sperato di poter essere amata incondizionatamente da un altro essere senza dover nulla dare in cambio e che adesso si vive sola ed impotente.

Come dice K. Gibran: "I vostri figli non sono i vostri figli. Vengono attraverso di voi, ma non da voi, e benché stiano con voi, tuttavia non vi appartengono. Voi potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, poiché essi hanno i propri pensieri. Voi potete sforzarvi di essere come loro, ma non cercate di renderli simili a voi".